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mentono sapendo di mentine

lunedì 27 aprile 2009

Rifugio antiaereo di piazza Risorgimento Torino


A partire dall'autunno 1942, il grande ciclo di bombardamenti che investì Torino pose in maniera drammatica il problema della scarsità di rifugi antiaerei adeguati. Fino a quel momento la questione dell'offesa aerea era stata affrontata dalle autorità in maniera superficiale e senza un quadro chiaro degli effetti disastrosi che avrebbe provocato. Ne è riprova il fatto che per oltre un anno dall'inizio della guerra si continuarono a scavare sul suolo pubblico migliaia di metri lineari di trincee, con lo scopo di difendere così la popolazione dalle incursioni, e solo dal dicembre 1941 esse furono demolite per la palese inefficacia. Al 15 dicembre 1944 i rifugi pubblici di Torino, potevano accogliere 46.402 persone; i rifugi definiti casalinghi, indicati con una "R" bianca vicino al portone, erano divisi in due categorie: quelli normali e quelli di circostanza. I primi erano 955 e potevano accogliere 41.222 persone; i secondi - vere e proprie trappole - erano 15.076. Sommando le capienze dei rifugi veri e propri e di quelli casalinghi normali (tutti anticrollo) risulta che solo il 15% della popolazione poteva dirsi al riparo. Riaperto nel 1995, quello di piazza Risorgimento, è uno dei ricoveri pubblici costruiti a cura del Comune con tecniche antibomba; è tra i più grandi per dimensioni, con una superficie di circa 700 metri quadri. Costruito in cemento armato e posto a una profondità di 12 metri si articola su tre gallerie parallele larghe 4 metri e mezzo e lunghe 40, collegate da otto passaggi per una superficie complessiva di circa 700 mq.



lunedì 13 aprile 2009

Cristo sulla sedia elettrica


Polemiche ha suscitato durante le festività pasquali l'esposizione di una scultura di Cristo morto su una sedia elettrica, e non sulla croce, nella cattedrale di Gap, nel sud della Francia. Intitolata Pietà, la scultura, opera dell' artista britannico Paul Fryer, ha suscitato vive reazioni, "in maggioranza positive", ha osservato il vescovo della diocesi, monsignor Jean-Michel di Falco. "Questa opera non lascia indifferenti, ma parlare di polemica è falso", ha detto il religioso. Commenti di fedeli e visitatori - accanto alla foto della scultura - sono pubblicati sul sito della diocesi di Gap e sono in gran parte favorevoli all' iniziativa. "La croce non era l' equivalente, all'epoca romana, della sedia elettrica?", si chiede uno dei fedeli. Un altro osserva: "Oggi entriamo in una chiesa senza neanche guardare Cristo sulla croce. Allora dico grazie a monsignor di Falco di svegliarmi". Ci sono anche voci discordanti: "L' esposizione di quest' opera non ha il suo posto in una cattedrale il Venerdì Santo". Oppure: "Se è arte, avrebbero potuto metterla da qualche altra parte". L'opera di Fryer fa parte della collezione d'arte dell' uomo d'affari francese Francois Pinault, proprietario di Palazzo Grassi a Venezia

venerdì 3 aprile 2009

Il ragazzo guerriero della mafia siberiana


La criminalità dell'ex Urss è un arcipelago pieno di misteri
Roberto Saviano lo ha indagato con l'aiuto di un infiltrato speciale


Quando ero ragazzino scrissi un racconto metafisico e surrealista e lo inviai a Goffredo Fofi. Dopo qualche giorno mi arrivò un foglio di poche righe in una busta di carta riciclata: "Mi piace come scrivi, peccato che scrivi idiozie, ho visto da dove mi hai spedito la lettera. Affacciati alla finestra e raccontami cosa vedi, scendi giù, attraversa cosa vedi. Poi rispediscimi tutto, e ne riparliamo". Da allora affacciarsi e attraversare le cose mi sembrò l'unico modo per poter scrivere parole degne di essere lette.

Nicolai Lilin non ha fatto altro che affacciarsi, fuori dalla casa in cui è nato, dentro la sua stessa vita e raccontare ciò che ha visto, sentito, il mondo in cui è stato educato. E lo ha fatto in un libro, Educazione Siberiana. Un romanzo come se ne leggono pochi, che racconta di un mondo scomparso, quello degli Urka siberiani, la comunità di criminali deportata da Stalin al confine con l'attuale Moldavia, in una terra di nessuno che è la Transnistria.

Ho incontrato Lilin nella stanza anonima di un hotel milanese. Corpo minuto ma tonico, viso slavo, colori chiari, occhi luminosi. Parla un italiano preciso, impastato con una cadenza slava unita a un accento piemontese. Quando si infervora gli esce un "Dio bono" che lo rende divertente. Lilin è un discendente degli Urka siberiani con un intercalare sabaudo e racconta proprio di gente come lui, gli ultimi discendenti di questa stirpe guerriera, uomini che usano definirsi "criminali onesti" atavici nemici dei "criminali disonesti". "Volevo raccontare storie che rischiavano di perdersi, che conoscono in pochi, e renderle storie di molti. Le storie della mia gente, distrutta dal capitalismo di oggi, gente che aveva regole sacre, che viveva con dei valori". Per leggere questo libro bisogna prepararsi a dimenticare le categorie di bene e di male così come le percepiamo, lasciar perdere i sentimenti come li abbiamo costruiti dentro la nostra anima. Bisogna star lì: leggere e basta.

Così dopo un po', intorno alle pagine di Educazione Siberiana, inizierà a materializzarsi un intero mondo. Sembrerà lontanissimo, altro, ma bevuto tutto lascerà un gusto in cui si ritrovano in forma diversa molti sapori simili al nostro mondo e questo genererà un brivido difficile da dimenticare. Non ci si aspetti un libro sulla mafia russa, né un trattato sul crimine, né alleanze tra clan, imperi economici, faide e sparatorie. È il contrario. È un romanzo che racconta di un popolo scomparso, di una tradizione guerriera che Nicolai conservava dentro di sé e che non riusciva più a tacere. Continuamente lui usa la parola "onesto", e continuamente ripete il termine "disonesto". Può apparire strano che parlando di una comunità criminale si parli di onestà; noi abbiamo imparato a dimenticare che un codice etico condiviso possa esistere anche al di fuori della società civile.

Tra gli Urka non si stupra, non si fanno estorsioni, non si fa usura. Si può rapinare e uccidere, ma solo in presenza di un valido motivo. Si può truffare, ma solo lo stato e i ricchi. E ci sono anche regole pratiche da osservare: le armi per la caccia, per esempio, non devono essere messe accanto alle armi che servono per uccidere esseri umani. E quando un'arma tocca l'altra per purificarla bisogna avvolgerla in un panno con liquido amniotico, il liquido della vita. Seppellire il tutto e dopo un po' arriva la purificazione. È assolutamente vietato agli uomini parlare con le forze dell'ordine. In Educazione Siberiana ci sono pagine di arresti e retate in cui la polizia non riesce a rivolgere la parola a nessun siberiano. Ogni Urka ha sempre al proprio fianco una donna che faccia da tramite. Lilin racconta che dalle sue parti si dice che chi non ha voglia di lavorare e non ha il coraggio di delinquere fa il poliziotto. Nelle comunità criminali degli Urka, diversamente da quanto accade in Italia, esistono regole talmente forti da fermare il business, vincolare il potere.

Sono regole che seppur calate in un contesto discutibile hanno profonde radici morali. In Italia, fino a qualche decennio fa, per le mafie regole come non uccidere bambini, non trattare e vendere droga, non assumerne, ora sistematicamente disattese, nascevano dalla necessità di cercare quel consenso nella popolazione che adesso appare dovuto, che ora sono il timore e la forza ad assicurare. "Non è il crimine la nostra forza - diceva il nonno a Nicolai - ma il consenso ed il bene che la gente ci vuole". Lilin precisa: "Sono regole di giustizia non scritte, come la divisione equa dei beni, l'aiuto reciproco e la difesa dei più deboli". E continua con una nota autoironica che aggiunge credibilità al suo racconto: "Se nasci in quella realtà non puoi certo divenire Ghandi ma almeno vivi un una società che ha regole e diritti, non solo soprusi dove vince il più corrotto e il più forte come tra i lupi".

E gli anziani nel romanzo hanno un ruolo centrale. Non sono solo i depositari delle tradizioni, ma tramandano di generazione in generazione le storie più avvincenti di rapine e di sfide. Indirizzano le nuove generazioni anche sul modo di trattare il denaro. I soldi fanno schifo ai siberiani, la considerano roba sporca. "Mio nonno in tutta la sua vita non ha mai portato soldi addosso, li tenevano in posti lontani dai luoghi della vita. I soldi sono sempre stati considerati sporchi". E le figure di questi anziani nel libro sono davvero meravigliosamente epiche. A tratti si avverte, e Nicolai conferma, che il libro è passato a vaglio dell'attento lavoro degli editor pur conservando, a volte, delle asperità, dei punti dove la lingua inciampa; ed è proprio lì che lo stile ibrido di un uomo che pensa in siberiano e scrive in italiano, lo stile personalissimo che gli scrittori migranti elaborano, esce in tutta la sua pura ingenuità e bellezza. Lilin costruisce un mondo con la sua scrittura e questo fa di lui non un semplice testimone ma uno scrittore vero e proprio.

A volte viene da pensare, ascoltando Nicolai, che serbi una visione mitizzata degli Urka, parola che a chiunque abbia letto i libri di Sol%u017Eenicyn, Herling o %u0160alamov sui gulag ricorda invece il peggior incubo per i detenuti normali: stupro, furto, percosse. Eppure il mondo che Lilin racconta sembra essere un altro, sembra partire da premesse differenti offrendo la possibilità di osservare quel mondo da una prospettiva inedita. Essere un Urka, racconta Lilin, era un marchio che ti portavi dietro ovunque: "Quando ero piccolo e uscii dalla Moldavia con mia madre, alla dogana un ufficiale vide che ero nato in Transnistria e, seppure fossi un bambino, mi fissò negli occhi e disse, 'Delinquente!!!'. Bastava venire da lì". Eppure c'è nel codice degli Urka siberiani l'assoluta necessità di dire sempre la verità. La menzogna è punita. "Devi essere vero, sempre e comunque devi essere vero. Mi hanno insegnato a dire la verità sempre. Spesso i poliziotti russi quando arrestavano degli Urka li riprendevano mentre li interrogavano. Quando dicevano sei un criminale loro dovevano rispondere si, se rispondevano no era una condanna a morte tra tutti gli Urka. Un Urka non mente mai". Anche quando la verità significa una condanna alla galera.

Nicolai Lilin si riconosce assolutamente nella tradizione degli Urka: "Sono un criminale onesto" dice, contrapponendo un mondo ormai tramontato, che cerca di far rivivere attraverso il suo racconto, alla Russia di oggi, completamente allo sbando. "Nelle mie zone tutti chiedono il pizzo, per qualsiasi cosa bisogna pagare. È lecito aspettarsi una richiesta di tangente per documenti, viaggi, permessi, per tutto ciò che nel mondo occidentale, in un mondo che si dice civile, dovrebbe essere dovuto". Nicolai è grato all'Italia, o almeno alla parte d'Italia dove lui vive, e nel suo discorso è possibile rintracciare anche quanto relativo sia il concetto di diritto. "Qui puoi avere un documento senza pagare tangenti, qui se vieni derubato puoi sporgere regolare denuncia, e sai che ci sarà qualcuno ad ascoltarti, a difenderti, a far valere i tuoi diritti di cittadino. In Russia e in Moldavia tutto è corruzione, politica, burocrazia, tanta prostituzione, racket, droga. Paesi marci. Mio nonno diceva spesso: credo che non esista né inferno né paradiso, semplicemente se ti comporti male rinasci in Russia".

Nessun urka siberiano vorrebbe essere chiamato mafioso. La mafia russa è una categoria generica, enorme, quasi inesistente. Ci sono le famiglie di Mosca, quelle di San Pietroburgo, la mala cecena e quella georgiana potentissima in Usa, poi ci sono le famiglie dell'Azerbaigian. I siberiani non si riconoscono in nessuna di queste organizzazioni, non sentono neanche di essere gang, clan o organizzazioni. Il loro codice di vita è la loro casa. "Una volta mio nonno mi ha raccontato che fu arrestato un pedofilo, uno di quelli a cui piacevano molto le bambine piccole e anche i bambini. Gli Urka quando fu arrestato lo trattarono con rispetto. Andarono da lui, gli diedero una corda fatta con le lenzuola e gli dissero: 'Hai cinque ore per impiccarti, se non lo fai ognuno di noi prenderà un pezzo di te e lo strapperà"".

Una delle parti più belle del libro è il racconto dei tatuaggi. Il tatuaggio è un codice per raccontare il carattere di una persona e il percorso della sua vita, il tatuaggio degli urka siberiani è un'eredità antica che viene da molto lontano. Il tatuaggio tradizionale siberiano è un codice segreto, nato in epoca pre-russa e pre-cristiana. I primi briganti nomadi della foresta, gli Efei, si tatuavano per potersi riconoscere, lungo le grandi strade della Siberia dove assaltavano i convogli provenienti dalla Cina e dall'India. I tatuaggi quindi erano un modo per non farsi assalire da "colleghi", e un modo muto per rendersi fratelli. Quando si diffuse il Cristianesimo, il tatuaggio criminale siberiano adottò i simboli della nuova religione: gli Efei si confondevano così con i pellegrini, che erano poveri e, non potendo acquistare croci, catene e immagini sacre, se le tatuavano. Con la formazione dello stato russo, lo Zar decise di sbarazzarsi degli Efei; ma i più irriducibili di loro, gli Urka, ostili a qualsiasi potere, si rifugiarono nella Taiga dove organizzarono una dura resistenza che fu spezzata soltanto dopo secoli, dai comunisti. Nel libro sono meravigliose le pagine dove Lilin racconta come il tatuatore sia una figura speciale, quasi un sacerdote. Per i siberiani puoi diventare tatuatore solo su autorizzazione di un anziano maestro; Lilin scelse all'età di 12 anni di divenire allievo del più esperto della sua città. Era bravo a disegnare, i suoi disegni venivano richiesti per farne tatuaggi, ma aveva bisogno di imparare l'antica arte del tatuaggio tradizionale, eseguito a mano con le bacchette, non con la macchinetta elettrica. A 18 anni, ultimato l'apprendistato, il suo maestro lo nominò tatuatore.

Un corpo siberiano tatuato è un libro misterioso, che pochi sanno leggere: i singoli simboli assumono un preciso significato solo se messi in relazione tra loro, nelle rispettive posizioni. "Si tratta di una grande tradizione, - dice Nicolai - alla quale sono orgoglioso di appartenere". Per un siberiano il tatuaggio è un processo lungo che dura tutta una vita. Iniziano a tatuarsi all'età di dodici anni e soltanto dopo aver passato una vita, con tutto ciò che può essere a vita di un Urka, la loro storia potrà essere letta sui loro corpi. Schiena e petto sono tatuate solo alla fine, dopo i cinquant'anni.

Nicolai è completamente rivestito di tatuaggi. Imprudentemente gli chiedo di raccontarli e ottengo una risposta che non mi aspetto. "Raccontare i tatuaggi è disonesto. I tatuaggi sono un linguaggio muto, ci si tatua proprio per evitare di parlare. Solo un siberiano può capire. Chi racconta uccide la tradizione, e rischia di essere ucciso". Il tatuaggio siberiano è divenuto quasi un tatuaggio pop e il cinema ha cercato di raccontarlo, ma Nicolai è molto scettico: "Il film di Cronenberg ("La promessa dell'assassino", ndr) è tutta una farsa. Il tatuaggio siberiano è morto con i siberiani. È una menzogna, dal film sembra quasi che tutti gli affiliati russi si tatuino, ma non è così. Quei tatuaggi li hanno solo alcuni, come per esempio Seme Nero". Seme Nero è un clan che si tatua ma è un gruppo che vive in carcere. Non possono avere rapporti sessuali, non possono avere famiglia, quando escono dalla galera fanno di tutto per rientrarci. Sono cosche di criminali spesso create dalla polizia per controllare le carceri, criminali comuni entrano in Seme Nero e divengono come una casta che governa in cella su tutti. Ma queste storie che rimbalzano intorno al libro di Lilin sono satelliti rispetto al suo obiettivo, quello di raccontare la palestra, la tana delle tigri siberiane in cui viene a formarsi un giovane Urka, stirpe estinta di antico guerriero.

L'educazione siberiana è un'educazione antica quasi sciamanica, disciplinata. Chiedo a Nicolai della morte, che per tutto il libro è sempre vista come una compagna di vita, come qualcosa che sta lì pronta ad aspettarti né terribile né amica. C'è e basta. "Io ho ucciso Roberto, ho ucciso un bel po' di persone. Ma non sento dolore, o meglio sento che ero costretto a farlo, ero un militare in Cecenia, e dovevo sparare. Ho ucciso e ho sentito la morte tante volte vicina a me. Ma anche su questo la mia gente mi ha insegnato a capire la morte, a conoscerla e a non sentirla come qualcosa di strano. Qui nessuno vuole morire. Io se voglio la vita so che devo volere anche la morte". Gli chiedo se ora vuol solo fare lo scrittore e vuole smettere di tatuare. "Mi sono un po' stancato. Continuare a raccontare storie con le parole mi piacerebbe di più che continuare a bucare pelle...".

Me ne vado con la certezza che il racconto e la memoria possono salvare un mondo e permettere di mappare una sorta di percorso che pericolosamente ci dice: il peggio è ancora da venire e laddove si perdono le regole si perde tutto ma, come scrive Lilin, il motto degli Urka siberiani è ancora vivo: "C'è chi la vita la gode, chi la subisce, noi la combattiamo".
© 2009 by Roberto Saviano
Published by arrangement with Roberto Santachiara Literary Agency

(3 aprile 2009)

Kabul, la musica è resistenza


(3 aprile 2009)
Ahmad Sarmast è uno dei pochi musicisti rimasti in Afghanistan che lotta per aprire una scuola a Kabul
IL VIDEO
Il sogno del maestro Sarmast: ricostituire la scuola per musicisti
annientata dalla guerra civile prima, e dai Taliban dopo

Afghanistan, l'uomo che salverà la musica"
E' un pezzo d'anima del mio paese"
Aiuti dalla Banca mondiale, da Germania, Inghilterra, India e Stati Uniti
"E' importante ricostruire questa parte dell'identità nazionale"

di FRANCESCA CAFERRI

LA semplicità con cui parla Ahmad Sarmast è disarmante: "Per questo progetto sto rischiando la vita. Ho abbandonato l'Australia e un buon lavoro lì. E in Afghanistan sono minacciato di morte, perché voglio diffondere la musica e per i Taliban questa è un'eresia. Ma non rinuncerò. È il mio sogno per il futuro di questo paese". Il sogno di Sarmast è di quelli arditi se lo si ambienta nelle strade piene di uomini armati di Kabul: il professore si è messo in testa di salvare la tradizione musicale del suo paese facendo rinascere la principale scuola di musica dell'Afghanistan, annientata dalla guerra civile prima e dai Taliban dopo.

Solo a sentir parlare degli ex studenti di religione che hanno governato il suo paese fino al 2001, il musicista si rabbuia: "È stato un periodo orribile. Hanno provato a far tacere la musica ma non ci sono mai riusciti fino in fondo. La gente ha continuato ad ascoltarla in segreto. A nascondere radio e strumenti. Non poteva non essere così. La storia dell'Afghanistan è sin dalle origini intrecciata con la musica: pensare di toglierla era come cercare di strappare le radici da un albero".

Alla caduta del regime integralista, Sarmast è rientrato in patria: "Sono tornato per aiutare il mio paese - dice - presto però ho capito che molti donatori internazionali non erano interessati alla musica. Tutti pensano che ci siano altre priorità. Ma io credo che anche ricostruire parte dell'identità nazionale sia importante. Oggi per le strade si sentono note ovunque: ma sono le canzoni di Bollywood o il pop iraniano. La nostra musica sta scomparendo. Se non facciamo qualcosa ora non ci sarà più tempo".

Un grido d'allarme condiviso da molti. La tradizione musicale afgana infatti è prevalentemente orale: la scomparsa di un maestro spesso significa la morte della musica che custodiva nella mente e nelle dita. E se si considera che la maggior parte degli artisti locali sono morti e che quelli ancora vivi sono molto anziani, si capisce perché Sarmast sia tanto angosciato. Se le sue parole non fossero sufficienti, un esempio su tutti basterebbe a spiegare la situazione: nel 2006, quando si trattò di comporre e registrare il nuovo inno nazionale, fu necessario fare tutto all'estero perché in Afghanistan non c'erano abbastanza musicisti.

Grazie alla sua testardaggine, alla sua fama - è il figlio di Ustad Mohammad Salim Sarmast, autore dell'inno nazionale della repubblica afgana negli anni '70 - e ai suoi contatti, Sarmast è riuscito a trovare un vecchio edificio di Kabul adatto ad ospitare la scuola e i finanziamenti - 11 milioni di dollari - per far partire il progetto: la Banca mondiale pagherà i lavori, l'Associazione dei mercanti di musica tedeschi (SOMM) fornirà parte degli strumenti e altrettanto faranno produttori americani di American Voices. Inoltre, il National council of music di Londra e il Conservatorio nazionale indiano hanno accettato di preparare il curriculum per gli studi classici e per quelli tradizionali.

Se tutto andrà bene, la scuola potrà aprire a maggio: ospiterà 120 allievi fra i 13 e i 21 anni, ragazzi e ragazze. Il 50% dei posti sarà riservato agli orfani, che in Afghanistan sono numerosissimi (4000 nella sola Kabul, stima l'Unicef). I finanziamenti finora raccolti basteranno per pagare un anno di lavoro. "Poi spero di trovare altri appoggi", dice il musicista.

L'appello è rivolto anche all'Italia, di cui il professore ama la musica - "Puccini e Verdi soprattutto" - e in cui ha molti amici. "Il mio sogno - conclude - è arrivare fra otto o dieci anni ad avere di nuovo un'orchestra nazionale afgana. È un obiettivo ambizioso ma la musica è parte di quello che noi afgani siamo. Farla rinascere è come restituire una parte d'anima al mio paese".

(3 aprile 2009) Tutti gli articoli di esteri

Telecamere a Guantanamo svelato l'inferno della galera



Prodotto da "National Geographic" e tradotto in 34 lingue
I militari negano le torture ma nei rapporti Fbi si parla
di pesanti sevizie subite dai detenuti

di CARLO BONINI

IL VIDEO

Nulla potrà cancellare la galera di Guantanamo e la sua eredità. Neppure l'ordine esecutivo con cui, nel gennaio scorso, Barack Obama ne ha disposto la chiusura entro i primi mesi del 2010. E anche per questo, con la consapevolezza di un "obbligo verso la memoria", il National Geographic consegna alla Storia per immagini del nostro tempo un documentario di due ore - "Inside Guantanamo" - tradotto in 34 lingue, in onda in Italia domenica 5 aprile alle 21 su National Geographic Channel. Un diario di tre settimane trascorse nel braccio di massima sicurezza di uno dei sette campi della prigione per "unlawful enemy combatants". Un raggelante caleidoscopio di un universo di acciaio, cemento armato, filo spinato e lamenti in cui, oggi, continuano a languire 240 detenuti il cui destino resta incerto.


In un montaggio asciutto e intenzionalmente didascalico, le immagini registrate a Guantanamo parlano con la voce e il volto di chi ne è stato e ne è oggi il guardiano e di chi ne è stato, fino a ieri, il prigioniero. Restituendo intatta la profondità dell'abisso culturale ed emotivo che, in questi sette anni, ha separato e continua a separare chi ha concepito ed è a guardia delle gabbie e chi in quelle gabbie è lasciato marcire. Un abisso tanto più cupo, perché presentato come figlio "legittimo" di un'alternativa del Diavolo che, agli occhi di una buona parte dell'America, continua ad apparire inestricabile. Quella tra diritto alla sicurezza e rispetto dei diritti civili.

Parlano del Nemico e del proprio lavoro, gli uomini in alta uniforme. Forti di certezze incrollabili. "Nulla di quel che ho fatto in quest'isola mi farà vergognare di fronte ai miei figli", dice l'ammiraglio David Thomas, comandante della Joint Task Force Guantanamo, l'ufficiale che l'11 settembre del 2001 sopravvisse al rogo del Pentagono e la cui uniforme semi carbonizzata di quel giorno è conservata nella Smithsonian American History gallery. "Al Qaeda ha le sue cellule anche qui e impone ai singoli ruoli diversi, anche da prigionieri", chiosa il colonnello dell'esercito Bruce Vargo, responsabile dei bracci di detenzione.

"Non abbiamo mai torturato nessuno", assicura Paul Rester, già capo del team della Defence Intelligence Agency, mentre in sovrimpressione scorre il dettaglio dei rapporti ormai desecretati del Fbi in cui si documenta cosa in quelle celle è accaduto ("... Il prigioniero era incatenato da molte ore al pavimento, in posizione fetale... durante la notte si era letteralmente strappato i capelli dalla testa... ").

Parlano con la sincerità e la semplicità di un dubbio che si è fatto prima tarlo esistenziale e poi ossessione morale, i "private", la truppa semplice. Dopo l'11 Settembre, gli era stata promessa una guerra contro i macellai delle Torri e del Pentagono. Si sono ritrovati consegnati a una routine da aguzzini. A giorni e notti di sguardi oltre uno spioncino di vetro corazzato, su spazi di 1 metro e 85 per 2 metri e 44, dove ciondolano o gridano impazziti uomini di cui non debbono conoscere il nome, ma solo la lettera e il numero che ne identifica la cella. Come il soldato Jane, 25 anni, gli occhiali tondi a incorniciare un volto che comunica la stessa ingenuità del suo accento del Sud.

Quel Kentucky in cui è nata e in cui hanno smesso di comprenderla. A cominciare da sua sorella, attivista per i diritti umani. Dice "Ogni giorno percorro 19 chilometri a piedi, affacciandomi da una cella ad un'altra. E alla fine, so che non potrò raccontarlo in famiglia. E questo fa male".

Nell'universo concentrazionario di Guantanamo non c'è redenzione. Odio e paura hanno seminato e continuano a seminare nuovo odio e nuova paura tra i musulmani. Gli ex prigionieri Moazzam Begg, anglo-pachistano, Abdul Salam Zaeef, ex ambasciatore talebano in Pakistan, Haji Rohullah Wakii, leader tribale afgano, lo raccontano con il rancore, a tratti persino stupefatto, di chi ancora non sa come e perché ha perso la libertà per un tempo infinito e come e perché, altrettanto inopinatamente, l'ha riacquistata una mattina in cui la cella si è aperta e un soldato ha annunciato che "si tornava a casa".

Dice Charles Swift, ex ufficiale di Marina e difensore di Salim Ahmed Hamdan, afgano rinchiuso sull'isola perché indicato come l'autista di Bin Laden: "Guantanamo è stata e resta lo specchio di quel che è stata l'America in questi anni". La Corte Suprema ha chiesto che non se ne cancelli la traccia, perché futura "body of evidence", prova processuale nei giudizi civili o penali a chi ne dovesse essere chiamato a rispondere come responsabile. "X-Ray", il primo campo da cui tutto cominciò nel gennaio del 2002, è dunque oggi una distesa di gabbie abbandonate, infestate dalla gramigna. Un monumento silente all'inizio di quella Storia. I bracci di acciaio e cemento dove oggi restano 240 prigionieri e che di quella Storia sono l'approdo, un monumento lo saranno presto. Anche se di loro, con la memoria di chi li ha abitati, resteranno ora due ore di immagini.

(3 aprile 2009)

giovedì 2 aprile 2009

Se consideri le colpe di ANDREA BAJANI


Un viaggio in Romania sulle tracce di una madre da sempre in fuga. Una crudele educazione agli addii, tra i pionieri italiani del Far East.

Gli uomini che atterrano a Bucarest sono in cerca di fortuna. Hanno trasferito lí le loro aziende, comprato terreni e fuoristrada e innalzato capannoni con nomi italiani. Lui invece cerca qualcos'altro: vuole capire chi era sua madre ora che non c'è più, ridarle un volto, camminare le sue strade. Nel ricordo rimangono un'infanzia magica e un abbandono, le due metà di una donna che si è lasciata tutto alle spalle per seguire un progetto grandioso e un uomo sbagliato.
Sullo sfondo il ritratto feroce di un Occidente che spaccia miti da due soldi, e per due soldi compra la miseria altrui.

«Hai cominciato a partire che ero piccolo. La prima volta è stato un viaggio di piacere, andare a trovare degli amici che avevano tentato la fortuna. Mi avevi disegnato il mondo sopra un foglio, la sera prima, e mi avevi fatto vedere dove andavi. Noi siamo qui, mi avevi detto, e domani io sarò in questo punto quaggiù. Avevi tracciato una riga con un pennarello rosso che partiva da casa e arrivava fin lì. È un ponte, dicevi, è come passare dall'altra parte del fiume. Così sotto il ponte avevamo colorato tutto di blu, avevamo riempito d'acqua l'Europa. Poi il foglio l'avevamo attaccato con lo scotch allo sportello del frigo, e lì è rimasto per gli anni a venire».

Il silenzio del vento di JON KRAKAUER


«Credo che le radici della mia ossessione risalgano al 1962. Allora, ero un comune ragazzino che cresceva a Corvallis, nell’Oregon. Mio padre era un genitore rigido e assennato che assillava costantemente i cinque figli perché studiassero la matematica e il latino… Inspiegabilmente, in occasione del mio ottavo compleanno, questo rigido pedagogo mi regalò una piccozza e mi condusse a fare la mia prima escursione. All’età di diciotto anni, l’alpinismo era la sola cosa che m’interessava. Nel 1974, la mia fissazione divenne ancora più forte. L’evento fondamentale fu la mia prima spedizione in Alaska.» Nelle dodici storie di montagna raccolte in questo libro, Jon Krakauer descrive mirabolanti esperienze di alpinismo, proprie e altrui, su alcune delle pareti più «difficili» ed «estreme» del mondo. Dal fallito tentativo di scalata della Parete Nord dell’Eiger, all’impresa solitaria del Devils Thumb, nella Columbia britannica, sino alla tragica estate del 1986 sul K2. Grazie a uno stile appassionante e avvincente, Krakauer ci fa rivivere le lunghe marce di avvicinamento in territori remoti, i fortunosi atterraggi sui ghiacciai, le rischiosissime scalate su cascate di ghiaccio e ci trasmette le sensazioni uniche e irripetibili che l’alpinismo può dare, deciso tuttavia a diradare la mistica che avvolge tale sport: gli scalatori non sono degli squilibrati, ma solo «persone soggette a una forma particolarmente acuta della Condizione Umana.»

Walter Bonatti K2 La verità

Cosa accadde davvero il 30 e 31 luglio 1954 sul K2, a partire dai 7.627 metri dell'ottavo campo e fino agli 8.616 metri della sua cima - la seconda più elevata della Terra - vinta cinquant'anni fa dagli italiani? Come hanno potuto reggere, e persistere - davanti a documentazioni fotografiche e a testimonianze inequivocabili - le falsità della storia ufficiale di quel riprovevole assalto finale? Bonatti, protagonista e vittima della vicenda, riepiloga fatti e testimonianze, documenti e inchieste, eliminando ogni possibile dubbio su come siano andate realmente le cose. Con la determinazione che ha accompagnato ogni tratto della sua vita indica, in pagine piene di tensione e di amarezza, il "lato oscuro" di quell'impresa.