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mentono sapendo di mentine

giovedì 26 agosto 2010

Quell'ansa segreta del Po


Viaggio lungo il Parco fluviale alla confluenza con la Dora Baltea
Di MARCO ALBINO FERRARI

CHIVASSO
Seguo gli scarponi di Enrica che mordono sicuri il suolo argilloso reso duro dal sole. Non c'è sentiero, ma sassi, e terra da tempo digiuna d'acqua, e arbusti di biancospino in un saliscendi continuo tra grosse vene di rena allungate nella direzione dei flutti. Non si vede una goccia in questo piccolo deserto di confine tra campagna e fiume. Su tutto spira un vento meraviglioso, teso, dominante, gelido. Eppure non è vento, mi corregge Enrica senza voltarsi: «Non sbagliarti, questa è l'aria mossa dalla corrente del fiume. Sentirai fra poco…».
Pare che oltre l'ampia lunata della Dora Baltea alla confluenza col Po, ci sia uno degli spettacoli fluviali più suggestivi della zona. Così mi hanno assicurato, avvertendomi anche che nel labirinto dei greti distesi sulla campagna mobile non sarebbe stato facile trovarlo. Ma mi fido di Enrica: ci arriveremo.


Enrica Fantini ha le spalle larghe da atleta, e una pelle luminosa e abbronzata. Tiene i pollici infilati sotto gli spallacci dello zaino, e socchiude gli occhi nella luce accecante del mattino di agosto. È un architetto specializzato in paesaggio, ma da qualche anno ha intrapreso una nuova professione: l'accompagnatrice naturalistica. E lavora anche per il Parco fluviale del Po torinese, dove stiamo camminando. Mi ha spiegato che in Piemonte l'iter per diventare guida naturalistica consiste in un corso di 400 ore, tra lezioni di zoologia, botanica, storia del territorio, meteorologia, pronto soccorso. Una professione che ammiro, perché all'interno dei confini delle sue competenze tende a stimolare soprattutto il piacere dell'osservazione. A cui spesso si associa lo stupore. Ho capito che Enrica non si limita a comporre didascalie puntuali ai quadri visivi che attraversiamo, ma cerca nessi, crea connessioni per interpretare gli aspetti peculiari del paesaggio. Non è poco.

Abbiamo lasciato la sterrata in una delle zone di esondazione, nella vasta golena tra Borgo Revel e Crescentino, pochi chilometri a est di Chivasso. Ci troviamo nel fondo di un catino che raccoglie le acque di buona parte delle Alpi Occidentali. Sembra, in un certo senso, di stare al centro di un enorme scolo naturale. Da Tornio a qui entrano nel Po la Dora Riparia, la Stura di Lanzo, il torrente Malone, l'Orco, la Dora Baltea. Ogni affluente con la sua storia e le sue determinazioni simboliche trascinate nel punto più basso della pianura. L'Orco, ad esempio, è stato considerato fin da tempi remoti il fiume dei metalli: nelle sue acque si cercava l'oro (Eva d'Or, veniva anche chiamato) e intorno al suo bacino montano si è sviluppata la metallurgia e la tradizione dello stampaggio a caldo. Siamo nel centro di un semicerchio circondato per diversi mesi l'anno da cime imbiancate di neve. Neve che prima o poi arriverà quaggiù. All'intera area nel 2006 si è provveduto a riconoscere un nome significativo: «Po confluenze nord ovest»; così hanno voluto il Parco fluviale del Po torinese insieme agli amministratori provinciali. Si sono favoriti processi di rinaturalizzazione, e soprattutto si è deciso di considerare da un'unica prospettiva d'insieme il complesso dei sedimenti che la storia, antica e contemporanea, ha lasciato intorno al fiume.

È la valorizzazione più intelligente in chiave turistica del così detto «paesaggio culturale» (che meriterebbe di essere presa ad esempio per altri tratti del Grande Fiume). Si sono posti sullo stesso piano siti archeologici, chiese, castelli, abbazie, la centrale termoelettrica di Chivasso, e anche le maestose chiaviche ottocentesche della presa del Canale Cavour. Il cruciale Canale Cavour che dagli Anni Sessanta dell'Ottocento soddisfa con l'acqua del Po l'immensa sete delle risaie del Vercellese e del Novarese (due litri al secondo per ettaro, da aprile a settembre).

«Qui il terreno è mobile», mi spiega Enrica camminando veloce verso il fiume. «Quando c'è siccità spuntano nuovi campi agricoli; quando arriva la piena le acque colmano un fitto sistema di lanche e morte di fiume fra i più ricchi di fauna del Po. Ed ibrida è anche la fauna: animali selvatici e animali più vicini all'uomo: fagiani, lepri, cinghiali, uccelli di passo come il cavaliere d'Italia, e gabbiani e cormorani legati alle discariche di Torino. Una convivenza tra estremi. Bello, non ti pare?».

Mi viene da pensare che tutto, qui, in questo luogo di confluenze, è ibridazione, convergenza, disordine: rimarrà deluso chi insegue l'endemico, o, peggio, l'ingenuo mito della purezza.

«Eccola!», esclama Enrica fermando i suoi passi sulla riva. «Volevi il punto più potente dell'intera area delle confluenze? Ora ci siamo».

Oltre l'ultima sponda franosa, si spalanca il Po con le sue acque ancora quasi limpide. Si muove mansueto formando piccoli mulinelli che punteggiano la superficie liscia. Sono acque su cui ci si può specchiare, acque placide del sogno di narciso. Il Po, come il Danubio, nasce da un filo d'acqua che zampilla ridente: è più avanti che crescerà fino a diventare il Grande Fiume. Già grande sgorga invece la Dora dalle bocche dei ghiacciai. «La Dora è la somma di tutto il mondo glaciale della Valle d'Aosta. La sua acqua ribolle furiosa. È bianca, viva, gelida, satura delle sospensioni limose dei graniti erosi dal ghiaccio. Il limo è il simbolo stesso della fecondità, e al il suo biancore potrebbe ricordare il latte, che dà vita, che fertilizza i campi. Quanta maternità c'è nella Dora!», esclama felice Enrica.

Vedo la Dora entrare nel Po con una furia spaventosa. Lei bianca, il Po trasparente. E per decine di metri le due acque rimangono separate. Solo più avanti l'acqua dei ghiacciai si insinua nel lento movimento del Grande Fiume imprimendo onda su onda nuova energia. «La Dora andrà a una decina di chilometri all'ora. Dunque meno di 12 ore fa, ogni sua goccia era un granello di ghiaccio del Miage, della Brenva, del Rutor, del Lys. La senti?, anche l'aria dei due fiumi si mischia esattamente come l'acqua». Un fenomeno simile si trova nel centro di Lione: il Rodano, grande fiume glaciale, trapassa potente la città e si incontra con le acque calme della Saona: è in quel punto che sorge il nuovo Museo delle Confluenze, i cui architetti hanno enfatizzato le peculiarità del luogo giocando sulla simbologia dell'ibridazione.

Qui invece lo spettacolo del Po che incontra l'acqua di fusione dei più alti ghiacciai delle Alpi non lo vede nessuno in questa calda giornata d'agosto. Basterebbe seguire i passi di un accompagnatore naturalistico per capire come gli spettacoli più inattesi sono proprio nascosti dietro casa. Magari oltre un antico complesso industriale.
Le altre tappe
da sito de La Stampa

domenica 15 agosto 2010

SARAMAGO: CON CAINO E CONTRO LA BIBBIA


«Mi risulta difficile comprendere come il popolo ebraico abbia scelto per testo sacro l' Antico Testamento. È un tale miscuglio di assurdità che non può essere stato inventato da un uomo solo. Ci vollero generazioni e generazioni per produrre questa mostruosità». Parola di José Saramago. A vent' anni dall' uscita del Vangelo secondo Gesù Cristo, in cui riscrisse il Nuovo Testamento, il premio Nobel torna a occuparsi dei testi sacrie di religione. Lo fa alla sua maniera, da ateo convinto e mai pentito. Da scrittore spesso al centro di aspre polemiche. Lo fa con Caín, il nuovo romanzo che a ottobre uscirà in Portogallo, America Latina e Spagna. È la reinterpretazione del primo fratricidio tramandato dalla Bibbia: Caino, primogenito di Adamo ed Eva che uccide il fratello Abele. Da ieri, il blog dell' autore portoghese (blog.josesaramago.org) annuncia l' uscita del libro con un comunicato di Pilar del Río, moglie e traduttrice di Saramago, e un breve trailer. Sulle immagini - alcune incisioni di episodi biblici - scorre una domanda: «Che diavolo di Dio è questo che, per innalzare Abele, disprezza Caino?». Interrogato via e-mail dall' edizione online di El País, il Nobel ottantaseienne ha aggiunto: «Dio, il demonio, il bene, il male, tutto questo è nella nostra testa. Non nel cielo o all' inferno, che pure abbiamo inventato. Non ci rendiamo conto del fatto che, avendo inventato Dio, ne siamo immediatamente divenuti schiavi». La sua lunga malattia, che lo ha portato a un passo dalla morte, non gli ha fatto cambiare idea: «Premettendo che Dio non esiste, se pure mi fosse apparso, che cosa gli avrei dovuto chiedere? Che mi prolungasse la vita? Moriremo quando dovremo morire. Mi hanno salvato i medici, mi ha salvato Pilar, mi ha salvato il cuore eccellente che ho ancora, nonostante l' età. Tutto il resto è letteratura, e della peggiore». Nonostante fosse in cantiere da anni, Caín è stato scritto a partire dallo scorso dicembre, in quattro mesi: «Sono stato preso da una sorta di trance - ha spiegato lo scrittore -. Non mi era mai capitata una cosa del genere. Per lo meno non di una tale intensità». Con il romanzo precedente, Il viaggio dell' elefante, il nuovo condivide l' ironia delle prime righe: «Non è stato scelto, né premeditato. L' ironia e lo humour appaiono all' inizio di entrambi i libri. Avrei potuto adottare un tono solenne, però trovo stupido rifiutare quello che mi viene offerto su un piatto d' argento». Annuncia la moglie Pilar del Río sul blog: «Saramago ha scritto un libro che non ci lascerà indifferenti, che provocherà nei lettori sconcerto e, forse, qualche angustia. Però, amici, la grande letteratura è fatta per conficcarsi in noi lettori come un coltello nella pancia. Non per addormentarci come se ci trovassimo in un fumoir di oppio e il mondo fosse pura fantasia». Non è la prima volta che Saramago fa affermazioni "forti" e che provocano polemiche. Basti pensare al clamore suscitato in Portogallo dall' uscita del suo Vangelo, nel 1991,a cui fu impedito dal governo di concorrere al Premio Europeo di Letteratura. O alle accuse di antisemitismo rivoltegli più volte. E ancora agli scritti nel suo blog contro Berlusconi e la politica italiana, gli stessi che la Einaudi ha rifiutato di tradurre (lo farà Bollati Boringhieri). A giudicare dalle premesse, succederà anche con Caín. DAL SITO DI REPUBBLICA 28 AGOSTO 2009

Attenti al cane

No al saccheggio delle risorse petrolifere in Basilicata...si all'annullamento dell'autorizzazione concessa all'Agip - Eni di trivellare un pozzo petrolifero nel centro abitato di Villa d'Agri.

Edipo Re


EDIPO RE
da Sofocle a Pasolini

di Ulderico Pesce
con la collaborazione di
Maria Letizia Gorga

con
Maria Letizia Gorga Maximilian Nisi Ulderico Pesce

rielaborazioni e direzione musicale a cura di
Stefano de Meo e Pasquale Laino

tastiere Stefano De Meo
fiati Pasquale Laino

regia
Ulderico Pesce
con la consulenza artistica di
Anatolij Vasil’ev

Musiche tradizionali dei popoli Arberesh stanziati in Basilicata e Calabria,
canti Grecanici del salento e della tradizione pastorale lucanaLA STORIA NARRATA

Giocasta e Laio generano un bambino nonostante l’oracolo di Delfi gli abbia detto: “Se avrete un figlio, ucciderà il padre e farà l’amore con la madre”. Impauriti prendono il nuovo nato, gli legano i piedini ad un bastone, come se fosse un capretto, e lo consegnano ad un pastore fedele che dovrà ucciderlo sulla montagna.

I piedini del bambino sono molto gonfi per via delle strette della corda ecco perché il pastore, per pietà, non lo uccide, e lo chiama Edipo, che in greco antico significa “piedi gonfi”.

Edipo gioca con gli antichi campanacci delle vacche che il pastore usa per la transumanza, cresce e diventa grande. Ad un incrocio, senza saperlo, ammazzerà suo padre, in seguito, si accoppierà con sua madre.

IL NOSTRO EDIPO

Un testo scritto da Sofocle, reinterpretando il mito, nel 425 a.C., come può essere messo in scena oggi cercando di non tradirlo ma di renderlo, nello stesso tempo, comprensibile ad uno spettatore moderno?

Come sottrarsi dal desiderio di contaminare il testo fonte di Sofocle con la rilettura cinematografica di Pasolini? E ancora, come fare a non lasciarsi influenzare dagli studi di antropologia, legati al tema, portati avanti da Ernesto De Martino e altri studiosi?

Per la rilettura del testo e la messinscena di Edipo Re siamo partiti da questi interrogativi.

LA MORTE DI LAIO: IL RE GIUSTO

L’Edipo di Sofocle ha inizio con la pestilenza che affligge la città. Laio, il re giusto, è morto da tempo, sembra che la memoria di questo re sia in parte svanita. Solo il ritorno di Creonte dall’oracolo di Delfi, dove è stato mandato proprio da Edipo per sapere cosa fare per stroncare i mali che hanno invaso Tebe, riporta l’attenzione su Laio, il re giusto, e infatti il messaggio dell’oracolo è chiaro: “Per sconfiggere la morte che sconvolge Tebe si deve trovare l’assassino di Laio.”

Nella nostra messa inscena, la morte di Laio, il re giusto, acquista una posizione centrale tanto da iniziare con una sorta di “funerale” in suo ricordo. E’dalla morte di Laio che inizia il male, dalla sua uccisione avvenuta proprio per mano di Edipo. Con la morte del re Laio viene sconvolto un ordine cosmico dove l’armonia tra uomo, natura e Dio era totale, è questo sconvolgimento, provocato inconsapevolmente da Edipo, che porta la tragedia. La bara del re Laio nel nostro spettacolo starà sempre in scena e diventerà il letto dove Giocasta si accoppierà con Edipo, senza sapere che è proprio lei che lo ha generato, la stessa bara rappresenterà il luogo dove il pastore rivelerà ad Edipo la sua vera identità e quindi il suo passato. La bara diventa il simbolo di un passato e di un’identità del quale l’uomo moderno non può fare a meno di recuperare. Più Edipo dirà di voler vivere nel presente dimenticando il passato e più si avvicinerà tragicamente ad esso.

Sulla bara del padre, Edipo, riconquisterà il suo “essere primo”, la sua identità, solo allora potrà ripartire un modello di vita comunitaria infranto da Edipo che vedeva in stretto contatto l’uomo, l’ambiente, il paesaggio, la spiritualità, le leggi della vita “comunitaria”, lo Stato come forma di “vita in Comune” e la storia.

Si potrà obiettare che anche Laio ha la colpa di aver generato un figlio nonostante l’oracolo gli avesse predetto, e non vietato, che se avesse generato un figlio sarebbe morto per mano sua. Ma l’errore di Laio è un “dolce smarrimento provocato dall’amore per Giocasta” senza il quale errore non può partire il racconto.

Nella struttura narrativa sofoclea l’uccisione di Laio passa quasi in secondo piano rispetto all’incesto. Nella nostra messa in scena invece, riacquista importanza e centralità rappresentando la fine di un “mondo armonico”. Con Laio non solo muore un re giusto che riesce a governare in sintonia con la natura e il mondo degli Dei, ma muore “l’età dell’oro”, un’età arcaica, di tipo contadina e pastorale che viene sconfitta e distrutta dal mondo razionalistico, “tecnologico” e moderno di Edipo. Per dirla con le parole di Pasolini: “viene messo in crisi quel mondo contadino preindustriale dove i sentimenti umani si realizzavano con maggiore compiutezza rispetto ad oggi.”

venerdì 13 agosto 2010

Il paese delle prugne verdi


Non è sempre naturalistica la prosa di Herta Müller ne «Il paese delle prugne verdi» (Keller Editore, pp.254, euro 14). È, piuttosto, poetica, procede per immagini non ovunque facilmente decifrabili, e che però si dipanano man mano che si procede nella lettura. Non sappiamo se questa prosa criptica sia frutto della fervida immaginazione dell'autrice, del clima di terrore e segretezza vigente nella Romania degli anni '80 sotto Ceausescu, o di entrambi.
Certo è che, questo clima, lo rende bene. Rende bene l'atmosfera di un paese dove tutto doveva diventare altro se si voleva sopravvivere. Dove, se uno dissentiva anche di poco dal pensiero ufficiale, non poteva più chiamare le cose col loro nome. Nello scrivere ad altri dissenzienti non doveva scordare di mettere capelli nelle lettere: «Se dentro non c'è, vuol dire che la lettera è stata aperta». Né doveva dimenticare di scrivere «per l'interrogatorio una frase con forbicine per unghie... per la perquisizione una frase con scarpe, per il pedinamento una frase raffreddata».

Il titolo del libro allude alla credenza che se si mangiano troppe prugne verdi si muore di febbre. La Romania di Ceausescu è un paese di morte, senza prospettive, fatto di campagne polverose, di campi di girasoli anneriti, di villaggi cenciosi. Né è meglio la città coi suoi dormitori per studenti, i tram bucati dal cui pavimento si intravede la strada, le fabbriche e i parchi incolti dove le ragazze si danno agli operai del mattatoio in cambio di poche frattaglie. L'immagine dominante del mattatoio e degli operai che bevono sangue di animali sgozzati non descrive solo ciò che è, è anche metafora di un paese dove si è costretti a bere il sangue del prossimo, dove chiunque può denunciare l'altro e diventare complice del potere, dove non ci si può fidare nemmeno dell'amico più caro. Strani suicidi decimano le menti migliori di una generazione, strane morti non cessano nemmeno dopo che si è riusciti a espatriare, così che sulle esistenze grava una spada di Damocle, un'oscura minaccia. La prosa della Müller, irritante a tratti per eccesso criptico, riscatta con immagini limpide e potenti un materiale di per sé deprimente, una realtà a noi estranea o solo parzialmente nota. Tra i meriti del libro quello di rivelarcela e farla toccare con mano.

venerdì 6 agosto 2010

La maledizione di Gerlinde Kaltenbrunner sul K2 muore il compagno di cordata


Respinta per la quarta volta. E con un prezzo più salato delle altre: la perdita del suo compagno di scalata. La sfida tra Gerlinde Kaltenbrunner e il K2, l'unica cima che manca al suo palmares, ha assunto ormai i contorni di una maledizione. Il personaggio è già nella storia nell'alpinismo. Austriaca, 40 anni da compiere, ha già scalato tredici delle quattordici vette più alte della terra. Gli ottomila. Una cifra che da sola dà l'idea del sacrificio e delle difficoltà che deve affrontare chi si accosta a queste montagne. Per entrare nella leggenda, ed essere la prima donna ad averle scalate tutte senza aiutarsi con le bombole d'ossigeno, le manca appunto il K2.
La montagna "maledetta". Non una montagna qualsiasi. La "Grande Montagna" o la "Montagna Selvaggia", due tra i suoi nomi, è per altezza, con i suoi 8611 metri, solo la seconda vetta al mondo. Ma tenendo conto di altezza, pericolosità e difficoltà tecniche, è considerato dagli esperti del settore l'ottomila più impegnativo.

La vittima. L'ultima vittima è stato proprio il compagno di cordata di Gerlinde Kaltenbrunnes: lo svedese Fredrik Ericsson, 35 anni. Alpinista e campione di sci estremo, Ericsson aveva deciso di accompagnare l'austriaca nel suo quarto tentativo, dopo che il 27 luglio la sua "bestia nera", le aveva detto no per la terza volta. La donna non aveva desistito e contando sulle buone previsioni aveva deciso di riprovarci questa notte. Anche lo svedese d'altronde aveva il suo sogno da coronare: scendere con gli sci dai tre ottomila più alti. Iniziando proprio dal K2.

L'incidente. L'incidente è avvenuto sul Collo di Bottiglia, a circa 8.350 metri di quota. E' un tratto di salita "maledetto". Nel 2008 vi persero la vita 11 alpinisti. Il peggioramento delle condizioni metereologiche aveva fatto desistere anche il marito della Kaltenbrunner, Ralf Dujmovits, che aveva rinunciato alla scalata per l'alto rischio di caduta sassi. Non Gerlinde e Fredrik, che erano partiti da soli decisi ad arrivare in cima. L'impresa è finita in tragedia. Ericcson è morto dopo un volo di quasi mille metri, precipitando fino al campo tre. La sua compagna di scalata è tornata indietro e accompagnata da altri alpinisti, sta lentamente tornando verso il campo base. Nel frattempo ha iniziato a nevicare ed è aumentato anche il pericolo valanghe.

Come Fait. La morte di Fredrik Ericcson si colora di un altro particolare inquietante. Lo svedese ha perso la vita sulla stessa cima dove, l'anno scorso, era morto il suo compagno di cordata, il trentino Michele Fait. Era la fine di giugno del 2009, quando i due tentarono la discesa con gli sci dal K2 ed Ericsson vide lo sciatore trentino precipitare in un canalone. Inutili i tentativi di soccorrere l'amico. Lo svedese non poteva ancora sapere che sul K2 lo avrebbe aspettato la stessa sorte. (06 agosto 2010) dal Sito di Repubbblica

BONO E SAVIANO


MI SVEGLIO e ricevo un messaggio. In genere sono guai, mi sollecitano per qualche scritto che ancora non ho consegnato, risultati di processi, inchieste, arresti. Ma questa volta si tratta di qualcosa di diverso: "Bono, il leader degli U2, è in Italia e vuole conoscerti". Chiedo spiegazioni. E dopo qualche secondo: "Sì, Bono ha letto il tuo libro le tue interviste, vuole conoscerti". Per qualche strana ragione pensi sempre che certe cose non abbiano carne e sangue ma siano come immateriali. Una di queste è la voce di Bono, la più bella voce maschile del rock mondiale. E quando quella voce ti dice "grazie per aver fatto tutti questi chilometri per me" la senti sovrapporsi all'urlo di "One" ("One love, One life") e hai come l'impressione di essere una groupie che perde ogni contegno dinanzi alla sua rockstar.
Bono mi accoglie in una villa presa in affitto. L'aria è davvero di casa, bambini che corrono ovunque, persino gli scoiattoli che zampettano in giardino, credo di non averne mai visto uno così vicino. Bono mi abbraccia e la sua è una gentilezza disarmante che mi dimostra quello di cui mi raccontavano, ossia la sua qualità di uomo rimasto uomo, senza divismi o posture. Anzi affamato di conoscere, capire, curioso del mondo e per nulla rinchiuso nella sua fortezza di note. Ha i soliti occhiali, ci sediamo a mangiare, e sembra avere una formula per me: "La prima anche se piccola vittoria contro le forze del male che ti circondano, è conservare il senso dell'umorismo. Quindi, devi combattere assolutamente, e lo fai essendo al di sopra di tutto, con il sorriso. Perché ridere - e ridi molto - è veramente la prova conclamata della libertà. Sai, quando ho pensato a questa cosa per la prima volta non ero affatto in pericolo, l'unico pericolo che avevo avvertito era quello di aver visto le mie chiappe nude pubblicate su un giornale. O di essere fotografato ubriaco all'uscita di un bar. Ecco ciò che ho capito, proprio all'inizio della mia popolarità, che questa sensazione di disagio, l'imbarazzo che provavo, poteva rendere brutto anche il viso più bello".

Bono mi racconta come sia fondamentale rimanere se stessi anche se intorno tutti cercano di prendere pezzi di te, di modificarti, di dannarti o esaltarti. Gli chiedo se gli manca vivere normalmente, campare come ogni essere umano occidentale. "Mi dispiace molto non riuscire a portare i miei bambini in giro. Una volta, era all'inizio della mia carriera, ho provato anche a camuffarmi: cappello e baffi da cowboy. Entro in un negozio, volevo comprare una chitarra e con un accento strano mi rivolsi al cassiere. Avevo pagato e stavo per uscire, quando questi si avvicina all'orecchio e mi dice: "Ok ok Bono ho capito, può bastare, tranquillo non lo dico a nessuno che sei tu..."".

Si alza gli occhiali, sorride. Gli occhi sono azzurrissimi e ha un po' di irlandesissime lentiggini. Un viso maturo, ma è proprio lui. Ora lo riconosco proprio come quando da ragazzino vedevo i suoi video in Vhs. Bono ha il profilo del ricercatore, studia il mondo, lo conosce. Fare musica per lui non è solo il più bel modo di stare al mondo, non è solo far divertire, ma il mezzo più straordinario per capire, comunicare, trasformare. "Voglio saperne di più, imparare di più sull'Italia. E questo perché ciò che sento e ciò che vedo non mi sembra combaciare. C'è uno squilibrio: vedo una cosa e ne provo invece un'altra".

A Bono come a molti stranieri è difficile comprendere le contraddizioni italiane; come se gli italiani tutti, di qualunque idea politica ed estrazione sociale, si accontentassero del peggio. I peggiori servizi, i peggiori politicanti, le peggiori istituzioni come se tutto fosse un sopportare. E mentre sopportano, agli italiani è solo dato intravedere grande talento, grandi capacità, ma sempre costretti, isolati, messi in difficoltà. "Ho proprio la sensazione che l'Italia sia come un luogo sacro, adoro i particolari italiani: la famiglia, l'aroma del caffè, il collo di una donna, ad esempio. Questi dettagli e il fuoco che c'è dentro la gente. So, sento che gli italiani potrebbero davvero assumersi un ruolo di preminenza, essere davvero grandi nel prestare aiuto ai poveri del mondo, nella lotta per la creazione di un nuovo capitalismo che sia "inclusivo" e non "esclusivo". Ma ora la politica non riesce a riflettere tutto ciò. Ed è cosi da molto tempo; anche quando c'era Prodi, che mi piaceva moltissimo. Nel 2005 i fondi erogati per gli aiuti umanitari erano lo 0,19% di quanto stabilito, nel 2009 lo 0,15%, quindi ancora meno. L'Inghilterra è passata dallo 0,7 allo 0,51, la Norvegia è all'1%, l'Irlanda allo 0,52%. Incredibile, no? Insomma c'è un vuoto da colmare tra ciò che provo e ciò che vedo. E sono certo che se riusciamo a spiegarlo, a spiegarlo meglio agli italiani, credo che saranno poi loro a dire ai loro leader che cosa fare. Forse non ce l'abbiamo fatta, finora, a spiegare queste cose in maniera chiara, allora c'è bisogno probabilmente di trovare gente che abbia la dote di saper veicolare queste informazioni. Ce la farà l'Italia ad avere un nuovo inizio?".

Difficile rispondere a una domanda così. Cerco di spiegare perché tutto è così ideologico, perché in Italia spesso sembra esserci una battaglia tra contrade, dove bisogna pensarla in serie, e quasi mai c'è un confronto sui fatti. La cappa delle ideologie anestetizza ogni dialogo come se compromettesse il futuro. "Il futuro, certo, quello deve ripartire e si deve ricominciare lasciandosi alle spalle il passato. Ma sembra fin troppo banale dire che c'è bisogno di una nuova politica in Italia, che inizi di nuovo a essere al servizio del Paese e non dell'ideologia. Mi piacerebbe tuttavia che ci fosse un'alternativa che non venisse da destra ma neppure da sinistra. Sono diventato sordo. Non ho più orecchie per la sinistra come non ne ho mai avute neppure per la destra. Ma per quest'ultima ho dovuto farmene crescere uno, però! Ho dovuto imparare ad accettare la compagnia di George Bush che ha fatto cose incredibili per l'Africa. E per questo, il mio giudizio su di lui non può essere completamente negativo. David Cameron, ad esempio, è stato colui che ha fatto i più grossi tagli di bilancio in Inghilterra, senza ridurre i fondi che erano stati devoluti agli aiuti umanitari. Si trovano amici anche nella destra; a volte non te lo aspetti e invece li trovi. Altre volte gente che credi amica non lo è. Prendi l'Africa. Il commercio e le sue regole, ad esempio. Gli africani non vogliono sentir parlare di restrizioni commerciali, vogliono giocare da battitori liberi. Non vogliono sentir parlare di embarghi con le norme delle politiche di aiuto dell'Unione Europea che si basano invece sul rispetto della politica agricola comune o su tariffe e dazi doganali imposti. A loro tutto questo non va giù. E se ne parli con la sinistra e spieghi come la pensano gli africani, ti dicono: "Ehi, ehi, vacci piano, stai calmino!". La sinistra va forte con l'Aids e gli aiuti. Allora, se stai morendo di Aids diamogli questi farmaci e finiamola li. Ma per il resto, nulla. Quindi, si finisce a pagare due dollari di sussidio al giorno per ogni mucca e non riusciamo a dare un dollaro al giorno a chi muore di Aids e ce ne sarebbero di dollari da dare. Ecco perché sono diventato sordo... Quindi via tutti e ripartiamo da capo. Voglio vedere politici in Parlamento che non siano più camuffati, senza più baffi e barbe finte".

Qui proprio non riesco che a rispondere sorridendo. La politica in Italia è una selva intricata, colma di dossier, veleni. Pensare alla politica come a un luogo dove poter trasformare le cose è difficile, quasi impossibile. Ma questo non sono capace di raccontarlo, forse mi fa male. Piuttosto chiedo a Bono della delegittimazione. Il suo impegno spesso viene deriso e attaccato, la rockstar milionaria che interviene a favore dei poveri, come una sorta di postura. Anche lui non è immune dalla macchina della delegittimazione, che i poteri usano sempre utilizzando l'esercito del risentimento, legioni di mediocri pronti ad eseguire l'ordine della maldicenza.

"Quando la gente si rende conto che non c'è via di scampo e che devono ascoltarti, allora devono o farti diventare un personaggio da prendere in giro, appiccicarti addosso favole irreali, farti diventare un personaggio appiattito, una caricatura, disegnata solo con pochi tratti. Senza tridimensionalità, questa è la delegittimazione. Tutti i nemici subiscono la delegittimazione. Lo si fa quando sei un nemico. In realtà penso questo: capisco benissimo il meccanismo e capisco benissimo che possa essere usato in modo offensivo e negativo. Ma pensa a qual era una delle più efficaci forme di protesta contro il nazismo negli anni '30, o contro il fascismo; erano i dadaisti, con il senso dell'umorismo. Che usavano come arma. Sai, i fascisti e i nazisti avevano tutte queste uniformi fantastiche, molto machiste. Come una sfilata di moda. Mentre i dadaisti è come se avessero levato loro i pantaloni e gli avessero messo il pisello all'aria. E mentre i nazisti combattevano tutti con manganelli, galera e repressione, non riuscivano a combattere lo humor. Impossibile, non c'è arma. Quindi alla delegittimazione rispondi con l'humor, ridi".

L'equilibrio che Bono è riuscito a costruire ha qualcosa di miracoloso. Parlare di grandi temi a milioni di persone, mentre saltano, cantano, si divertono. Entrare in una grande festa e cercare di far capire che quella felicità deve essere condivisa. Che combattere la povertà ti riguarda e non pretende che tu debba cadere nella miseria o nella rinuncia. Ma aumenta la tua felicità. È riuscito a coinvolgere milioni di ragazzi di diverse generazioni non temendo la retorica, non avendo paura di sbagliare. Se fai sbagli, meglio che non fare. Tutto questo cercando di essere concreto. Finanziando progetti. Capendo che c'è un modo sano di fare danaro e di usare il danaro. "Soldi significa corruzione e, quindi, se vuoi i soldi devi essere corrotto. Se tu invece dici: "Ok, voglio guadagnare, ma sono uno per bene, non ci credono". "A chi la dai a bere?", ti dicono. In Irlanda c'era in passato, per motivi diversi, lo stesso tipo di mentalità. Aver successo, significava essere colluso con il nemico. Che erano gli Inglesi. E anche dopo l'indipendenza, se avevi successo, significava essere colluso con il nemico. E quindi, c'era un rapporto davvero molto strano con il successo. Gli U2 hanno cercato di far ripartire l'orologio da questo punto di vista. E sono felice di poter affermare, che la maggior parte della gente in Irlanda, ora, ha cambiato idea su di noi. Per lo meno, il fatto che abbiamo avuto successo non è più visto negativamente. Per arrivare a ciò, però, hanno dovuto far ripartire il computer e "riaccendere" un nuovo modo di ragionare. Ed è estremamente positivo che si sia riusciti a far ciò, almeno per noi. Se tu dipingi la Cappella Sistina, il fatto che a qualcuno possa dar fastidio, non sminuisce ciò che hai fatto".

Bono poteva non impegnarsi e non occuparsi della questione africana. Aveva ottenuto tutto quello che un artista può ottenere. E impegnarsi gli ha creato anzi una gran quantità di guai. Ma anche una felicità che la sola carriera non può darti. "Conosci Desmond Tutu vero? Lui ti ha difeso molto... È lui il Capo, il mio Boss, se vieni al mio concerto, te lo presento. È stato lui, con Mandela, ma lui in particolare, a chiedermi di portare avanti il progetto della Cancellazione del debito estero, la Debt Cancellation, che i Paesi Poveri hanno nei confronti di quelli ricchi. Lui ha fondato questa organizzazione che si chiama Truth and Reconciliation (Verità e Riconciliazione) e per me ciò che la sua organizzazione significa rappresenta l'"idea" più importante degli ultimi venticinque anni!".

Passa Edge. Cappellino sulla testa, timido. Bono lo chiama. "Non volevo disturbare... ma grazie per essere venuto". Tutta questa gentilezza reale mi solleva da ogni ansia, ora mi sento tranquillo. Finiamo di mangiare, si è fatto tardi Bono viene ripreso dal suo ufficio stampa, deve andare a provare. Ci salutiamo, e facciamo un po' di foto sceme che promettiamo di tenere solo per noi, come quella mentre, giochiamo a braccio di ferro dove ognuno cerca di far vincere l'altro. È strano ma mi ci voleva il più singolare dei pomeriggi per vivere una giornata tranquilla all'aria aperta e con molte risate. Bono mi abbraccia e dice: "Sei invitato al concerto, mi raccomando". Magari, gli rispondo, la vedo difficile: "No ma non questo tu sei invitato anche ai prossimi". Quali? "Tutti i nostri prossimi concerti, per tutta la vita". Mi è sembrato un augurio bellissimo e non ho trovato altre parole che un semplice thanks. Torno in auto e la mia scorta la ritrovo in macchina a canticchiare "One", la mia preferita. "One Love, one blood, one life. You got to do what you should". E già, proprio così... un amore, un sangue, una vita, devi fare ciò che devi...

Roberto Saviano DAL SITO DI REPUBBLICA