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mentono sapendo di mentine

domenica 19 dicembre 2010

PIÙ NIENTE AL MONDO



Un monologo di: MASSIMO CARLOTTO
Interpretato da: GISELLA BEIN
Regia di: GIANNI BISSACA e RENZO SICCO
Regia video di: MARCO PEJROLO


Polpa di pomodoro, barattolo da 400 gr.0,24..Mozzarella bocconcino, 100 gr., 0,39..Detersivo Marsiglia, bucato a mano, 1euro e 15…Dentifricio al fluoro, 0,42..Caffè 4 pacchi da 250 gr., 3 euro e 39..Olio Extravergine, 1 litro, 2 euro e 75..Pesto alla genovese, 0,66..Il vermouth invece l’ho preso qui alla bottiglieria sotto casa. È l’unica cosa su cui non risparmio.

Una donna, seduta su di una poltrona ancora incelofanata, snocciola una serie di numeri apparentemente insignificanti, accanto alla fedele bottiglia di vermouth.
Solo ascoltandola, però, ci si rende conto del dramma in cui è immersa, senza distogliere l’attenzione dalle sue parole.
Massimo Carlotto racconta la tragica quotidianità di una famiglia torinese. Sullo sfondo una città che muta, la convivenza con gli extracomunitari, la mancanza di un lavoro decente, soprattutto l’assenza di prospettive per il futuro.
E la famiglia diventa il luogo in cui riversare tutte le angosce, il senso di frustrazione di una quotidianità sempre identica a se stessa. Lui, un ex-metalmeccanico FIAT, lavoratore a tempo determinato, porta a casa un misero stipendio; lei, costretta a fare la colf, lotta quotidianamente in una giungla di offerte per portare a casa la spesa. E poi c’è la piccola, una delusione come dice la mamma, tanto carina da poter lavorare in TV o da poter essere una battona d’altoborgo, perde le sue giornate a fare il pony-express.

Tristezza, povertà, paura del futuro, ma soprattutto la consapevolezza che si vorrebbe tutt’altro. E la famiglia, oltre a non saperla difendere dal dolore, sembra esserne addirittura la causa.
Lo spettacolo riflette un tema molto attuale ma troppo poco discusso. La realtà familiare italiana è mutata in modo radicale e sempre più spesso è proprio al suo interno che ha libero sfogo tutta la violenza repressa.
Il monologo di Carlotto, pubblicato dalle edizioni e/o, inaugura la nuova collana Assolo , nella quale sono inseriti racconti lunghi o romanzi brevi calati nella contemporaneità e che fotografano la realtà attuale, non necessariamente italiana.
Dunque un lavoro che sottolinea ed osserva le grandi trasformazioni dei nostri giorni, trasformazioni che spesso questa vita “frenetica” non ci fa notare con la giusta attenzione.

In viaggio con De Agostini verso la fine del mondo


Alla scoperta dell’esploratore piemontese a 50 anni dalla morte
ALESSANDRA COMAZZI

Teatro, cinema, fotografia, in nome di De Agostini e della «Fin del mundo». Al Teatro Agnelli di via Paolo Sarpi 111 va in scena un composito spettacolo formato da performance teatrale, film e incontro con i protagonisti: Alessandro Gaido di Piemonte Movie introduce Aldo Audisio, direttore Museo della Montagna, Davide Demichelis, regista, Elisabetta Gatto, antropologa, Renzo Sicco, Assemblea Teatro.
Quando si arriva a Ushuaia, capitale della Terra del Fuoco argentina, timbrano il passaporto: «Fin del mundo». In questo luogo dalla luce radente e dal freddo pungente, le alte montagne che sorgono dal mare gelato, arrivò un secolo fa Alberto Maria De Agostini, missionario salesiano, cartografo, esploratore, alpinista, fotografo, documentarista. E per 50 anni, fino al 1960, visse lì nella Terra del Fuoco, scalando, esplorando, aiutando i pochi abitanti autoctoni scampati agli eccidi.
Il sacerdote, originario di Pollone (Biella) e morto a Torino nel 1960, proprio il giorno di Natale, è protagonista di film, mostre, documentari. Il fratello maggiore, Giovanni, fondò l’Istituto Geografico De Agostini di Novara. Il nipote, Giovanni pure lui, che ora ha 65 anni, trascorse l'infanzia sognando quei luoghi lontani che lo zio gli descriveva durante i suoi brevi soggiorni in Piemonte.

Finalmente De Agostini junior è riuscito a compiere quel viaggio. Percorrendo gli stessi luoghi che lo zio esplorò. Insieme con lui, Davide Demichelis: e quel viaggio è diventato un film, «Fin del mundo», produzione Missioni Don Bosco. Demichelis è quel regista-documentarista («Il pianeta delle meraviglie, «Timbuctù», «Alle falde del Kilimangiaro»»), orgogliosamente nichelinese, che ha lasciato temporaneamente i suoi amati animali per girare «Radici», come il disco di Guccini, una serie di documentari sull'emigrazione, raccontata dai protagonisti in Italia e nel loro paese d'origine.

«Don Patagonia» si intitola invece lo spettacolo teatrale scritto da Laura Pariani (due volte finalista al Campiello), interpreti di stasera Marco Pejrolo e Angelo Scarafiotti. Come mai tutto questo fervore deagostiniano? Risponde Renzo Sicco di Assemblea Teatro: «La fascinazione del personaggio è potente. È l'attenzione ai grandi piemontesi dimenticati che ci ha portato a lui. Un grande. Lui sa che la battaglia degli indios è persa, ma la combatte ugualmente, al loro fianco. Perché è una buona battagia. È uno scienziato, un esempio vivente di come fede e scienza possano essere in unione, e non in contrasto».

Bruce Springsteen ''Songs From the Promise''

lunedì 29 novembre 2010

Il MIO TORINO FILM FESTIVAL - domenica 28 novembre

GLÜCKLICHE FÜGUNG di Isabelle Stever

un film tedesco, forse troppo

Il MIO TORINO FILM FESTIVAL - domenica 28 novembre

PRIZZI’'S HONOR di John Huston

un mago dell'ironia Huston

Il MIO TORINO FILM FESTIVAL - domenica 28 novembre

WHITE IRISH DRINKERS di John Gray

Una bella storia ben raccontata

Il MIO TORINO FILM FESTIVAL - domenica 28 novembre

THE MISFITS - GLI SPOSTATI di John Huston

Bravo questo Huston!

Il MIO TORINO FILM FESTIVAL - domenica 28 novembre

LAS MARIMBAS DEL INFIERNO di Julio Hernandez Cordon
Almeno uno ad un festival occorre beccarselo!

Il MIO TORINO FILM FESTIVAL - sabato 27 novembre

127 HOURS di Danny Boyle

bello e coinvolgente da farti aggrovigliare le budella (almeno le mie.)

IL MIO TORINO FILM FESTIVAL Sabato 27 novembre

SHEKARCHI di Rafi Pitts

Essenziale. Forse troppo.

Il MIO TORINO FILM FESTIVAL - sabato 27 novembre

THE INFIDEL DI Josh Appignanesi

Uno spassoso e intelligente tentativo allegramente riuscito di raccontare l'identità

domenica 28 novembre 2010

Il MIO TORINO FILM FESTIVAL - sabato 27 novembre

CONTRE TOI di Lola Dillon
IN_YOUR_HANDS_TRAILER
Claustrofobico e masochista con spruzzatina di sindrome di stoccolma.

Il MIO TORINO FILM FESTIVAL - venerdì 26 novembre

THIS MOVIE IS BROKEN Bruce McDonald


Sostanzialmente un concerto dei canadesi Broken Social Scene con una storiella di contorno

lunedì 15 novembre 2010

Erri De Luca


L'alpinista della scrittura. Poeta, autodidatta di diverse lingue, tra cui lo yiddish e l’ebraico antico, si racconta a Repubblica Tv cominciando dal suo ultimo libro "Il peso della farfalla". Intervista di Pietro Del Re (a cura di Silvia Garroni)

Aung San Suu Kyi davanti a casa sua, appena liberata.



Ute Lemper Torino 5 novembre

Uto Ughi Torino 27 Ottobre

giovedì 14 ottobre 2010

40% Le mani libere del destino


Sinopsi
Lucio ha passato la prima parte della sua vita a mettersi nei guai. Un’adolescenza vissuta nell’anonimato della periferia, la droga, i traffici, i problemi con la Legge, sono stati l’abisso da cui si è ritratto appena in tempo.
Quando esce dalla comunità di recupero, comincia a lavorare in una cooperativa sociale dove incontra una pittoresca tribù di personaggi con alle spalle storie altrettanto complicate. Dopo i conflitti iniziali con Alfred, il suo collega albanese, oltre che rivale nella squadra di calcio, Lucio entra a far parte del gruppo.
Ma quando il passato sembra riaffacciarsi con i pericoli e le tentazioni di sempre, saranno proprio i suoi compagni a salvarlo da un finale già scritto.
La produzione
Prodotto dalla Cooperativa Sociale Arcobaleno, il film è stato girato in DVCPROHD 1080 e si avvale, a parte alcune eccezioni come Luciana Littizzetto, di attori esordienti e degli stessi lavoratori della Cooperativa. Una commedia neo realista dai risvolti ironicamente “noir”, che ha, fra gli altri, l’intento di far conoscere l’esperienza delle imprese sociali, spesso misconosciuta e equivocata.

martedì 12 ottobre 2010

Escursione in Val Lunga con Walter Nones e Karl Unterkircher


Un'escursione in Val Lunga, splendida traversa della Val Gardena in Dolomiti, tra luoghi storici dell'alpinismo e natura incontaminata. Ecco un ricordo di Walter Nones e Karl Unterkircher, che tre anni fa ci hanno fatto da guida in questo indimenticabile viaggio di Montagna.tv nel 2007, durante il quale abbiamo visitato anche la base dell’Aiut Alpin Dolomites e il Centro Carabinieri Addestramento Alpino di Selva Val Gardena. Oggi, non ci sono più, entrambi scomparsi in Himalaya a due anni di distanza l'uno dall'altro nel tentativo di aprire una via nuova.
Dal sito di Montagna TV
GUARDA IL VIDEO

martedì 5 ottobre 2010

Dal sito di Walter Nones

SELVA DI VAL GARDENA (BZ), 04 OTTOBRE 2010

Man mano che le ore passano mi rendo sempre più conto di quanto ci mancherà la presenza di Walter. Magnifico compagno, uomo semplice ma di grandi valori morali. Ringrazio tutte le persone che stanno vicino ai miei piccoli a me, a mamma Rita, Maurizio e a tutta la famiglia.

Mi danno forza tutti i Vostri messaggi di vicinanza che mi stanno giungendo.
Penso con affetto a Giovanni e Manuel che oggi hanno raggiunto Walter, e al loro stato d’animo. Un pensiero di ringraziamento và agli sherpa, che Walter tanto rispettava che con spirito di amicizia l’hanno riportato al campo ABC.

Con Giovanni ci siamo sentiti oggi. Mi ha riferito che sabato avevano tentato di arrivare alla base dello sperone roccioso che caratterizza la parete sud Ovest del Cho Oyu. La situazione meteo se pur discreta era caratterizzata da forte vento. Giovanni e Manuel erano al campo intermedio 6.300 mt già la sera per riposarsi, mentre Walter, che non risentiva della quota aveva deciso di bivaccare a circa 7.000 mt, per non dovere ripetere la salita il giorno dopo. Voleva dare un’occhiata alla parete da vicino e fare alcune foto per poi riunirsi ai compagni al campo intermedio e consultarsi con loro su come programmare i prossimi giorni.

Io l’ho sentito al telefono sabato sera e mi ha riferito che si sarebbe mosso alle prime luci dell’alba in condizioni di sicurezza per evitare rischi inutili. Eravamo d’accordo di risentirci la sera al suo rientro.

Una prima ipotesi, ma attendiamo maggiori dettagli, è che Walter nello smontare la sua tendina è stato investito da una forte raffica di vento. Complice l’effetto vela creatosi con il telo tenda, ne abbia provocato la caduta nel vuoto.
Ciao Walter, ciao amore. Sento che nel nostro cuore ci sarai per sempre come le montagne che hai tanto amato.

Manuela, Patrik, Erik.

VAI AL SITO

lunedì 4 ottobre 2010

Morto l'alpinista Walter Nones


Era partito il 6 settembre da Monaco di Baviera alla volta del Cho Oyu insieme alle due guide alpine Giovanni Macaluso e Manuel Nocker, ma Walter Nones, carabiniere di 39 anni, non ce l'ha fatta. E' morto questa mattina mentre tentava di trovare una nuova via sul lato sud ovest del massiccio. A stroncare il suo sogno sembra sia stata una valanga.

LE FOTO DELLA SPEDIZIONE

A dare la notizia è stata la moglie, Manuela, sul blog dello stesso alpinista: "Walter ha avuto un incidente questa mattina. Non potremo più riabbracciarlo, possiamo solo ricordarlo per il grande uomo speciale che era. Non ci sono ancora informazioni precise sull'accaduto quindi chiedo rispetto da parte dei mezzi d'informazione nel diffondere la notizia". Nones sarebbe dovuto tornare a casa dai due figli piccoli il 20 ottobre.

"Non è un'ossessione - aveva spiegato alla vigilia della partenza di quella che è diventata la sua ultima spedizione -. L'alpinismo è passione, divertimento. Se ci saranno le condizioni per portare a termine il progetto alpinistico, bene. Altrimenti si torna indietro senza patemi d'animo". Nones aveva in mente una nuova linea sulla parete sud ovest del Cho Oyu, tra la via slovacca del 2006 e quella giapponese del 1994, lungo un tratto di roccia tra i 7.000 e i 7.500 metri di altitudine.

"Dopo la tragedia del Nanga Parbat, solo ora - aveva detto l'alpinista - ho la mente sufficientemente sgombra per affrontare una nuova spedizione. E' chiaro che certe esperienze ti rimangono impresse come un marchio, che la vita è fatta di momenti di gioia e di dolore, ma voglio guardare avanti".

Nato a Cavalese il 5 novembre 1971, Walter Nones era trentino di origine ma da tempo viveva in Valgardena, Alto Adige. Era guida alpina, maestro di alpinismo e appuntato dei carabinieri. Vantava fra l'altro, la conquista, nel 2004, del K2 senza ossigeno.

Solo due anni fa mentre scalava la parete Rakhiot del Nanga Parbat, sull'Himalaya, aveva assistito alla morte del compagno di avventura Karl Unterkircher che cadde in un crepaccio. La vicenda tenne con il fiato sospeso non solo gli appassionati di alpinismo italiani. Il corpo di Unterkircher non venne recuperato. I due compagni furono salvati con gli elicotteri a 5.700 metri dopo un odissea di dieci giorni. "Hanno mostrato di essere eccellenti alpinisti" disse allora Reinhold Messner.

Stavolta la salma di Nones sarà restituita alla moglie e ai due piccoli figli di due e cinque anni. Sembra sia stata recuperata dai due compagni di scalata: il collega di Arma Giovanni Macaluso, 46 anni, di Bressanone, con cui Nones aveva già condiviso due esperienze extraeuropee sul McKinley, in Alaska (1999) e sull'Aconcagua, in Argentina (2003) e Manuel Nocker, 30 anni, aspirante guida alpina di Selva, alla prima esperienza extraeuropea.

giovedì 26 agosto 2010

Quell'ansa segreta del Po


Viaggio lungo il Parco fluviale alla confluenza con la Dora Baltea
Di MARCO ALBINO FERRARI

CHIVASSO
Seguo gli scarponi di Enrica che mordono sicuri il suolo argilloso reso duro dal sole. Non c'è sentiero, ma sassi, e terra da tempo digiuna d'acqua, e arbusti di biancospino in un saliscendi continuo tra grosse vene di rena allungate nella direzione dei flutti. Non si vede una goccia in questo piccolo deserto di confine tra campagna e fiume. Su tutto spira un vento meraviglioso, teso, dominante, gelido. Eppure non è vento, mi corregge Enrica senza voltarsi: «Non sbagliarti, questa è l'aria mossa dalla corrente del fiume. Sentirai fra poco…».
Pare che oltre l'ampia lunata della Dora Baltea alla confluenza col Po, ci sia uno degli spettacoli fluviali più suggestivi della zona. Così mi hanno assicurato, avvertendomi anche che nel labirinto dei greti distesi sulla campagna mobile non sarebbe stato facile trovarlo. Ma mi fido di Enrica: ci arriveremo.


Enrica Fantini ha le spalle larghe da atleta, e una pelle luminosa e abbronzata. Tiene i pollici infilati sotto gli spallacci dello zaino, e socchiude gli occhi nella luce accecante del mattino di agosto. È un architetto specializzato in paesaggio, ma da qualche anno ha intrapreso una nuova professione: l'accompagnatrice naturalistica. E lavora anche per il Parco fluviale del Po torinese, dove stiamo camminando. Mi ha spiegato che in Piemonte l'iter per diventare guida naturalistica consiste in un corso di 400 ore, tra lezioni di zoologia, botanica, storia del territorio, meteorologia, pronto soccorso. Una professione che ammiro, perché all'interno dei confini delle sue competenze tende a stimolare soprattutto il piacere dell'osservazione. A cui spesso si associa lo stupore. Ho capito che Enrica non si limita a comporre didascalie puntuali ai quadri visivi che attraversiamo, ma cerca nessi, crea connessioni per interpretare gli aspetti peculiari del paesaggio. Non è poco.

Abbiamo lasciato la sterrata in una delle zone di esondazione, nella vasta golena tra Borgo Revel e Crescentino, pochi chilometri a est di Chivasso. Ci troviamo nel fondo di un catino che raccoglie le acque di buona parte delle Alpi Occidentali. Sembra, in un certo senso, di stare al centro di un enorme scolo naturale. Da Tornio a qui entrano nel Po la Dora Riparia, la Stura di Lanzo, il torrente Malone, l'Orco, la Dora Baltea. Ogni affluente con la sua storia e le sue determinazioni simboliche trascinate nel punto più basso della pianura. L'Orco, ad esempio, è stato considerato fin da tempi remoti il fiume dei metalli: nelle sue acque si cercava l'oro (Eva d'Or, veniva anche chiamato) e intorno al suo bacino montano si è sviluppata la metallurgia e la tradizione dello stampaggio a caldo. Siamo nel centro di un semicerchio circondato per diversi mesi l'anno da cime imbiancate di neve. Neve che prima o poi arriverà quaggiù. All'intera area nel 2006 si è provveduto a riconoscere un nome significativo: «Po confluenze nord ovest»; così hanno voluto il Parco fluviale del Po torinese insieme agli amministratori provinciali. Si sono favoriti processi di rinaturalizzazione, e soprattutto si è deciso di considerare da un'unica prospettiva d'insieme il complesso dei sedimenti che la storia, antica e contemporanea, ha lasciato intorno al fiume.

È la valorizzazione più intelligente in chiave turistica del così detto «paesaggio culturale» (che meriterebbe di essere presa ad esempio per altri tratti del Grande Fiume). Si sono posti sullo stesso piano siti archeologici, chiese, castelli, abbazie, la centrale termoelettrica di Chivasso, e anche le maestose chiaviche ottocentesche della presa del Canale Cavour. Il cruciale Canale Cavour che dagli Anni Sessanta dell'Ottocento soddisfa con l'acqua del Po l'immensa sete delle risaie del Vercellese e del Novarese (due litri al secondo per ettaro, da aprile a settembre).

«Qui il terreno è mobile», mi spiega Enrica camminando veloce verso il fiume. «Quando c'è siccità spuntano nuovi campi agricoli; quando arriva la piena le acque colmano un fitto sistema di lanche e morte di fiume fra i più ricchi di fauna del Po. Ed ibrida è anche la fauna: animali selvatici e animali più vicini all'uomo: fagiani, lepri, cinghiali, uccelli di passo come il cavaliere d'Italia, e gabbiani e cormorani legati alle discariche di Torino. Una convivenza tra estremi. Bello, non ti pare?».

Mi viene da pensare che tutto, qui, in questo luogo di confluenze, è ibridazione, convergenza, disordine: rimarrà deluso chi insegue l'endemico, o, peggio, l'ingenuo mito della purezza.

«Eccola!», esclama Enrica fermando i suoi passi sulla riva. «Volevi il punto più potente dell'intera area delle confluenze? Ora ci siamo».

Oltre l'ultima sponda franosa, si spalanca il Po con le sue acque ancora quasi limpide. Si muove mansueto formando piccoli mulinelli che punteggiano la superficie liscia. Sono acque su cui ci si può specchiare, acque placide del sogno di narciso. Il Po, come il Danubio, nasce da un filo d'acqua che zampilla ridente: è più avanti che crescerà fino a diventare il Grande Fiume. Già grande sgorga invece la Dora dalle bocche dei ghiacciai. «La Dora è la somma di tutto il mondo glaciale della Valle d'Aosta. La sua acqua ribolle furiosa. È bianca, viva, gelida, satura delle sospensioni limose dei graniti erosi dal ghiaccio. Il limo è il simbolo stesso della fecondità, e al il suo biancore potrebbe ricordare il latte, che dà vita, che fertilizza i campi. Quanta maternità c'è nella Dora!», esclama felice Enrica.

Vedo la Dora entrare nel Po con una furia spaventosa. Lei bianca, il Po trasparente. E per decine di metri le due acque rimangono separate. Solo più avanti l'acqua dei ghiacciai si insinua nel lento movimento del Grande Fiume imprimendo onda su onda nuova energia. «La Dora andrà a una decina di chilometri all'ora. Dunque meno di 12 ore fa, ogni sua goccia era un granello di ghiaccio del Miage, della Brenva, del Rutor, del Lys. La senti?, anche l'aria dei due fiumi si mischia esattamente come l'acqua». Un fenomeno simile si trova nel centro di Lione: il Rodano, grande fiume glaciale, trapassa potente la città e si incontra con le acque calme della Saona: è in quel punto che sorge il nuovo Museo delle Confluenze, i cui architetti hanno enfatizzato le peculiarità del luogo giocando sulla simbologia dell'ibridazione.

Qui invece lo spettacolo del Po che incontra l'acqua di fusione dei più alti ghiacciai delle Alpi non lo vede nessuno in questa calda giornata d'agosto. Basterebbe seguire i passi di un accompagnatore naturalistico per capire come gli spettacoli più inattesi sono proprio nascosti dietro casa. Magari oltre un antico complesso industriale.
Le altre tappe
da sito de La Stampa

domenica 15 agosto 2010

SARAMAGO: CON CAINO E CONTRO LA BIBBIA


«Mi risulta difficile comprendere come il popolo ebraico abbia scelto per testo sacro l' Antico Testamento. È un tale miscuglio di assurdità che non può essere stato inventato da un uomo solo. Ci vollero generazioni e generazioni per produrre questa mostruosità». Parola di José Saramago. A vent' anni dall' uscita del Vangelo secondo Gesù Cristo, in cui riscrisse il Nuovo Testamento, il premio Nobel torna a occuparsi dei testi sacrie di religione. Lo fa alla sua maniera, da ateo convinto e mai pentito. Da scrittore spesso al centro di aspre polemiche. Lo fa con Caín, il nuovo romanzo che a ottobre uscirà in Portogallo, America Latina e Spagna. È la reinterpretazione del primo fratricidio tramandato dalla Bibbia: Caino, primogenito di Adamo ed Eva che uccide il fratello Abele. Da ieri, il blog dell' autore portoghese (blog.josesaramago.org) annuncia l' uscita del libro con un comunicato di Pilar del Río, moglie e traduttrice di Saramago, e un breve trailer. Sulle immagini - alcune incisioni di episodi biblici - scorre una domanda: «Che diavolo di Dio è questo che, per innalzare Abele, disprezza Caino?». Interrogato via e-mail dall' edizione online di El País, il Nobel ottantaseienne ha aggiunto: «Dio, il demonio, il bene, il male, tutto questo è nella nostra testa. Non nel cielo o all' inferno, che pure abbiamo inventato. Non ci rendiamo conto del fatto che, avendo inventato Dio, ne siamo immediatamente divenuti schiavi». La sua lunga malattia, che lo ha portato a un passo dalla morte, non gli ha fatto cambiare idea: «Premettendo che Dio non esiste, se pure mi fosse apparso, che cosa gli avrei dovuto chiedere? Che mi prolungasse la vita? Moriremo quando dovremo morire. Mi hanno salvato i medici, mi ha salvato Pilar, mi ha salvato il cuore eccellente che ho ancora, nonostante l' età. Tutto il resto è letteratura, e della peggiore». Nonostante fosse in cantiere da anni, Caín è stato scritto a partire dallo scorso dicembre, in quattro mesi: «Sono stato preso da una sorta di trance - ha spiegato lo scrittore -. Non mi era mai capitata una cosa del genere. Per lo meno non di una tale intensità». Con il romanzo precedente, Il viaggio dell' elefante, il nuovo condivide l' ironia delle prime righe: «Non è stato scelto, né premeditato. L' ironia e lo humour appaiono all' inizio di entrambi i libri. Avrei potuto adottare un tono solenne, però trovo stupido rifiutare quello che mi viene offerto su un piatto d' argento». Annuncia la moglie Pilar del Río sul blog: «Saramago ha scritto un libro che non ci lascerà indifferenti, che provocherà nei lettori sconcerto e, forse, qualche angustia. Però, amici, la grande letteratura è fatta per conficcarsi in noi lettori come un coltello nella pancia. Non per addormentarci come se ci trovassimo in un fumoir di oppio e il mondo fosse pura fantasia». Non è la prima volta che Saramago fa affermazioni "forti" e che provocano polemiche. Basti pensare al clamore suscitato in Portogallo dall' uscita del suo Vangelo, nel 1991,a cui fu impedito dal governo di concorrere al Premio Europeo di Letteratura. O alle accuse di antisemitismo rivoltegli più volte. E ancora agli scritti nel suo blog contro Berlusconi e la politica italiana, gli stessi che la Einaudi ha rifiutato di tradurre (lo farà Bollati Boringhieri). A giudicare dalle premesse, succederà anche con Caín. DAL SITO DI REPUBBLICA 28 AGOSTO 2009

Attenti al cane

No al saccheggio delle risorse petrolifere in Basilicata...si all'annullamento dell'autorizzazione concessa all'Agip - Eni di trivellare un pozzo petrolifero nel centro abitato di Villa d'Agri.

Edipo Re


EDIPO RE
da Sofocle a Pasolini

di Ulderico Pesce
con la collaborazione di
Maria Letizia Gorga

con
Maria Letizia Gorga Maximilian Nisi Ulderico Pesce

rielaborazioni e direzione musicale a cura di
Stefano de Meo e Pasquale Laino

tastiere Stefano De Meo
fiati Pasquale Laino

regia
Ulderico Pesce
con la consulenza artistica di
Anatolij Vasil’ev

Musiche tradizionali dei popoli Arberesh stanziati in Basilicata e Calabria,
canti Grecanici del salento e della tradizione pastorale lucanaLA STORIA NARRATA

Giocasta e Laio generano un bambino nonostante l’oracolo di Delfi gli abbia detto: “Se avrete un figlio, ucciderà il padre e farà l’amore con la madre”. Impauriti prendono il nuovo nato, gli legano i piedini ad un bastone, come se fosse un capretto, e lo consegnano ad un pastore fedele che dovrà ucciderlo sulla montagna.

I piedini del bambino sono molto gonfi per via delle strette della corda ecco perché il pastore, per pietà, non lo uccide, e lo chiama Edipo, che in greco antico significa “piedi gonfi”.

Edipo gioca con gli antichi campanacci delle vacche che il pastore usa per la transumanza, cresce e diventa grande. Ad un incrocio, senza saperlo, ammazzerà suo padre, in seguito, si accoppierà con sua madre.

IL NOSTRO EDIPO

Un testo scritto da Sofocle, reinterpretando il mito, nel 425 a.C., come può essere messo in scena oggi cercando di non tradirlo ma di renderlo, nello stesso tempo, comprensibile ad uno spettatore moderno?

Come sottrarsi dal desiderio di contaminare il testo fonte di Sofocle con la rilettura cinematografica di Pasolini? E ancora, come fare a non lasciarsi influenzare dagli studi di antropologia, legati al tema, portati avanti da Ernesto De Martino e altri studiosi?

Per la rilettura del testo e la messinscena di Edipo Re siamo partiti da questi interrogativi.

LA MORTE DI LAIO: IL RE GIUSTO

L’Edipo di Sofocle ha inizio con la pestilenza che affligge la città. Laio, il re giusto, è morto da tempo, sembra che la memoria di questo re sia in parte svanita. Solo il ritorno di Creonte dall’oracolo di Delfi, dove è stato mandato proprio da Edipo per sapere cosa fare per stroncare i mali che hanno invaso Tebe, riporta l’attenzione su Laio, il re giusto, e infatti il messaggio dell’oracolo è chiaro: “Per sconfiggere la morte che sconvolge Tebe si deve trovare l’assassino di Laio.”

Nella nostra messa inscena, la morte di Laio, il re giusto, acquista una posizione centrale tanto da iniziare con una sorta di “funerale” in suo ricordo. E’dalla morte di Laio che inizia il male, dalla sua uccisione avvenuta proprio per mano di Edipo. Con la morte del re Laio viene sconvolto un ordine cosmico dove l’armonia tra uomo, natura e Dio era totale, è questo sconvolgimento, provocato inconsapevolmente da Edipo, che porta la tragedia. La bara del re Laio nel nostro spettacolo starà sempre in scena e diventerà il letto dove Giocasta si accoppierà con Edipo, senza sapere che è proprio lei che lo ha generato, la stessa bara rappresenterà il luogo dove il pastore rivelerà ad Edipo la sua vera identità e quindi il suo passato. La bara diventa il simbolo di un passato e di un’identità del quale l’uomo moderno non può fare a meno di recuperare. Più Edipo dirà di voler vivere nel presente dimenticando il passato e più si avvicinerà tragicamente ad esso.

Sulla bara del padre, Edipo, riconquisterà il suo “essere primo”, la sua identità, solo allora potrà ripartire un modello di vita comunitaria infranto da Edipo che vedeva in stretto contatto l’uomo, l’ambiente, il paesaggio, la spiritualità, le leggi della vita “comunitaria”, lo Stato come forma di “vita in Comune” e la storia.

Si potrà obiettare che anche Laio ha la colpa di aver generato un figlio nonostante l’oracolo gli avesse predetto, e non vietato, che se avesse generato un figlio sarebbe morto per mano sua. Ma l’errore di Laio è un “dolce smarrimento provocato dall’amore per Giocasta” senza il quale errore non può partire il racconto.

Nella struttura narrativa sofoclea l’uccisione di Laio passa quasi in secondo piano rispetto all’incesto. Nella nostra messa in scena invece, riacquista importanza e centralità rappresentando la fine di un “mondo armonico”. Con Laio non solo muore un re giusto che riesce a governare in sintonia con la natura e il mondo degli Dei, ma muore “l’età dell’oro”, un’età arcaica, di tipo contadina e pastorale che viene sconfitta e distrutta dal mondo razionalistico, “tecnologico” e moderno di Edipo. Per dirla con le parole di Pasolini: “viene messo in crisi quel mondo contadino preindustriale dove i sentimenti umani si realizzavano con maggiore compiutezza rispetto ad oggi.”

venerdì 13 agosto 2010

Il paese delle prugne verdi


Non è sempre naturalistica la prosa di Herta Müller ne «Il paese delle prugne verdi» (Keller Editore, pp.254, euro 14). È, piuttosto, poetica, procede per immagini non ovunque facilmente decifrabili, e che però si dipanano man mano che si procede nella lettura. Non sappiamo se questa prosa criptica sia frutto della fervida immaginazione dell'autrice, del clima di terrore e segretezza vigente nella Romania degli anni '80 sotto Ceausescu, o di entrambi.
Certo è che, questo clima, lo rende bene. Rende bene l'atmosfera di un paese dove tutto doveva diventare altro se si voleva sopravvivere. Dove, se uno dissentiva anche di poco dal pensiero ufficiale, non poteva più chiamare le cose col loro nome. Nello scrivere ad altri dissenzienti non doveva scordare di mettere capelli nelle lettere: «Se dentro non c'è, vuol dire che la lettera è stata aperta». Né doveva dimenticare di scrivere «per l'interrogatorio una frase con forbicine per unghie... per la perquisizione una frase con scarpe, per il pedinamento una frase raffreddata».

Il titolo del libro allude alla credenza che se si mangiano troppe prugne verdi si muore di febbre. La Romania di Ceausescu è un paese di morte, senza prospettive, fatto di campagne polverose, di campi di girasoli anneriti, di villaggi cenciosi. Né è meglio la città coi suoi dormitori per studenti, i tram bucati dal cui pavimento si intravede la strada, le fabbriche e i parchi incolti dove le ragazze si danno agli operai del mattatoio in cambio di poche frattaglie. L'immagine dominante del mattatoio e degli operai che bevono sangue di animali sgozzati non descrive solo ciò che è, è anche metafora di un paese dove si è costretti a bere il sangue del prossimo, dove chiunque può denunciare l'altro e diventare complice del potere, dove non ci si può fidare nemmeno dell'amico più caro. Strani suicidi decimano le menti migliori di una generazione, strane morti non cessano nemmeno dopo che si è riusciti a espatriare, così che sulle esistenze grava una spada di Damocle, un'oscura minaccia. La prosa della Müller, irritante a tratti per eccesso criptico, riscatta con immagini limpide e potenti un materiale di per sé deprimente, una realtà a noi estranea o solo parzialmente nota. Tra i meriti del libro quello di rivelarcela e farla toccare con mano.

venerdì 6 agosto 2010

La maledizione di Gerlinde Kaltenbrunner sul K2 muore il compagno di cordata


Respinta per la quarta volta. E con un prezzo più salato delle altre: la perdita del suo compagno di scalata. La sfida tra Gerlinde Kaltenbrunner e il K2, l'unica cima che manca al suo palmares, ha assunto ormai i contorni di una maledizione. Il personaggio è già nella storia nell'alpinismo. Austriaca, 40 anni da compiere, ha già scalato tredici delle quattordici vette più alte della terra. Gli ottomila. Una cifra che da sola dà l'idea del sacrificio e delle difficoltà che deve affrontare chi si accosta a queste montagne. Per entrare nella leggenda, ed essere la prima donna ad averle scalate tutte senza aiutarsi con le bombole d'ossigeno, le manca appunto il K2.
La montagna "maledetta". Non una montagna qualsiasi. La "Grande Montagna" o la "Montagna Selvaggia", due tra i suoi nomi, è per altezza, con i suoi 8611 metri, solo la seconda vetta al mondo. Ma tenendo conto di altezza, pericolosità e difficoltà tecniche, è considerato dagli esperti del settore l'ottomila più impegnativo.

La vittima. L'ultima vittima è stato proprio il compagno di cordata di Gerlinde Kaltenbrunnes: lo svedese Fredrik Ericsson, 35 anni. Alpinista e campione di sci estremo, Ericsson aveva deciso di accompagnare l'austriaca nel suo quarto tentativo, dopo che il 27 luglio la sua "bestia nera", le aveva detto no per la terza volta. La donna non aveva desistito e contando sulle buone previsioni aveva deciso di riprovarci questa notte. Anche lo svedese d'altronde aveva il suo sogno da coronare: scendere con gli sci dai tre ottomila più alti. Iniziando proprio dal K2.

L'incidente. L'incidente è avvenuto sul Collo di Bottiglia, a circa 8.350 metri di quota. E' un tratto di salita "maledetto". Nel 2008 vi persero la vita 11 alpinisti. Il peggioramento delle condizioni metereologiche aveva fatto desistere anche il marito della Kaltenbrunner, Ralf Dujmovits, che aveva rinunciato alla scalata per l'alto rischio di caduta sassi. Non Gerlinde e Fredrik, che erano partiti da soli decisi ad arrivare in cima. L'impresa è finita in tragedia. Ericcson è morto dopo un volo di quasi mille metri, precipitando fino al campo tre. La sua compagna di scalata è tornata indietro e accompagnata da altri alpinisti, sta lentamente tornando verso il campo base. Nel frattempo ha iniziato a nevicare ed è aumentato anche il pericolo valanghe.

Come Fait. La morte di Fredrik Ericcson si colora di un altro particolare inquietante. Lo svedese ha perso la vita sulla stessa cima dove, l'anno scorso, era morto il suo compagno di cordata, il trentino Michele Fait. Era la fine di giugno del 2009, quando i due tentarono la discesa con gli sci dal K2 ed Ericsson vide lo sciatore trentino precipitare in un canalone. Inutili i tentativi di soccorrere l'amico. Lo svedese non poteva ancora sapere che sul K2 lo avrebbe aspettato la stessa sorte. (06 agosto 2010) dal Sito di Repubbblica

BONO E SAVIANO


MI SVEGLIO e ricevo un messaggio. In genere sono guai, mi sollecitano per qualche scritto che ancora non ho consegnato, risultati di processi, inchieste, arresti. Ma questa volta si tratta di qualcosa di diverso: "Bono, il leader degli U2, è in Italia e vuole conoscerti". Chiedo spiegazioni. E dopo qualche secondo: "Sì, Bono ha letto il tuo libro le tue interviste, vuole conoscerti". Per qualche strana ragione pensi sempre che certe cose non abbiano carne e sangue ma siano come immateriali. Una di queste è la voce di Bono, la più bella voce maschile del rock mondiale. E quando quella voce ti dice "grazie per aver fatto tutti questi chilometri per me" la senti sovrapporsi all'urlo di "One" ("One love, One life") e hai come l'impressione di essere una groupie che perde ogni contegno dinanzi alla sua rockstar.
Bono mi accoglie in una villa presa in affitto. L'aria è davvero di casa, bambini che corrono ovunque, persino gli scoiattoli che zampettano in giardino, credo di non averne mai visto uno così vicino. Bono mi abbraccia e la sua è una gentilezza disarmante che mi dimostra quello di cui mi raccontavano, ossia la sua qualità di uomo rimasto uomo, senza divismi o posture. Anzi affamato di conoscere, capire, curioso del mondo e per nulla rinchiuso nella sua fortezza di note. Ha i soliti occhiali, ci sediamo a mangiare, e sembra avere una formula per me: "La prima anche se piccola vittoria contro le forze del male che ti circondano, è conservare il senso dell'umorismo. Quindi, devi combattere assolutamente, e lo fai essendo al di sopra di tutto, con il sorriso. Perché ridere - e ridi molto - è veramente la prova conclamata della libertà. Sai, quando ho pensato a questa cosa per la prima volta non ero affatto in pericolo, l'unico pericolo che avevo avvertito era quello di aver visto le mie chiappe nude pubblicate su un giornale. O di essere fotografato ubriaco all'uscita di un bar. Ecco ciò che ho capito, proprio all'inizio della mia popolarità, che questa sensazione di disagio, l'imbarazzo che provavo, poteva rendere brutto anche il viso più bello".

Bono mi racconta come sia fondamentale rimanere se stessi anche se intorno tutti cercano di prendere pezzi di te, di modificarti, di dannarti o esaltarti. Gli chiedo se gli manca vivere normalmente, campare come ogni essere umano occidentale. "Mi dispiace molto non riuscire a portare i miei bambini in giro. Una volta, era all'inizio della mia carriera, ho provato anche a camuffarmi: cappello e baffi da cowboy. Entro in un negozio, volevo comprare una chitarra e con un accento strano mi rivolsi al cassiere. Avevo pagato e stavo per uscire, quando questi si avvicina all'orecchio e mi dice: "Ok ok Bono ho capito, può bastare, tranquillo non lo dico a nessuno che sei tu..."".

Si alza gli occhiali, sorride. Gli occhi sono azzurrissimi e ha un po' di irlandesissime lentiggini. Un viso maturo, ma è proprio lui. Ora lo riconosco proprio come quando da ragazzino vedevo i suoi video in Vhs. Bono ha il profilo del ricercatore, studia il mondo, lo conosce. Fare musica per lui non è solo il più bel modo di stare al mondo, non è solo far divertire, ma il mezzo più straordinario per capire, comunicare, trasformare. "Voglio saperne di più, imparare di più sull'Italia. E questo perché ciò che sento e ciò che vedo non mi sembra combaciare. C'è uno squilibrio: vedo una cosa e ne provo invece un'altra".

A Bono come a molti stranieri è difficile comprendere le contraddizioni italiane; come se gli italiani tutti, di qualunque idea politica ed estrazione sociale, si accontentassero del peggio. I peggiori servizi, i peggiori politicanti, le peggiori istituzioni come se tutto fosse un sopportare. E mentre sopportano, agli italiani è solo dato intravedere grande talento, grandi capacità, ma sempre costretti, isolati, messi in difficoltà. "Ho proprio la sensazione che l'Italia sia come un luogo sacro, adoro i particolari italiani: la famiglia, l'aroma del caffè, il collo di una donna, ad esempio. Questi dettagli e il fuoco che c'è dentro la gente. So, sento che gli italiani potrebbero davvero assumersi un ruolo di preminenza, essere davvero grandi nel prestare aiuto ai poveri del mondo, nella lotta per la creazione di un nuovo capitalismo che sia "inclusivo" e non "esclusivo". Ma ora la politica non riesce a riflettere tutto ciò. Ed è cosi da molto tempo; anche quando c'era Prodi, che mi piaceva moltissimo. Nel 2005 i fondi erogati per gli aiuti umanitari erano lo 0,19% di quanto stabilito, nel 2009 lo 0,15%, quindi ancora meno. L'Inghilterra è passata dallo 0,7 allo 0,51, la Norvegia è all'1%, l'Irlanda allo 0,52%. Incredibile, no? Insomma c'è un vuoto da colmare tra ciò che provo e ciò che vedo. E sono certo che se riusciamo a spiegarlo, a spiegarlo meglio agli italiani, credo che saranno poi loro a dire ai loro leader che cosa fare. Forse non ce l'abbiamo fatta, finora, a spiegare queste cose in maniera chiara, allora c'è bisogno probabilmente di trovare gente che abbia la dote di saper veicolare queste informazioni. Ce la farà l'Italia ad avere un nuovo inizio?".

Difficile rispondere a una domanda così. Cerco di spiegare perché tutto è così ideologico, perché in Italia spesso sembra esserci una battaglia tra contrade, dove bisogna pensarla in serie, e quasi mai c'è un confronto sui fatti. La cappa delle ideologie anestetizza ogni dialogo come se compromettesse il futuro. "Il futuro, certo, quello deve ripartire e si deve ricominciare lasciandosi alle spalle il passato. Ma sembra fin troppo banale dire che c'è bisogno di una nuova politica in Italia, che inizi di nuovo a essere al servizio del Paese e non dell'ideologia. Mi piacerebbe tuttavia che ci fosse un'alternativa che non venisse da destra ma neppure da sinistra. Sono diventato sordo. Non ho più orecchie per la sinistra come non ne ho mai avute neppure per la destra. Ma per quest'ultima ho dovuto farmene crescere uno, però! Ho dovuto imparare ad accettare la compagnia di George Bush che ha fatto cose incredibili per l'Africa. E per questo, il mio giudizio su di lui non può essere completamente negativo. David Cameron, ad esempio, è stato colui che ha fatto i più grossi tagli di bilancio in Inghilterra, senza ridurre i fondi che erano stati devoluti agli aiuti umanitari. Si trovano amici anche nella destra; a volte non te lo aspetti e invece li trovi. Altre volte gente che credi amica non lo è. Prendi l'Africa. Il commercio e le sue regole, ad esempio. Gli africani non vogliono sentir parlare di restrizioni commerciali, vogliono giocare da battitori liberi. Non vogliono sentir parlare di embarghi con le norme delle politiche di aiuto dell'Unione Europea che si basano invece sul rispetto della politica agricola comune o su tariffe e dazi doganali imposti. A loro tutto questo non va giù. E se ne parli con la sinistra e spieghi come la pensano gli africani, ti dicono: "Ehi, ehi, vacci piano, stai calmino!". La sinistra va forte con l'Aids e gli aiuti. Allora, se stai morendo di Aids diamogli questi farmaci e finiamola li. Ma per il resto, nulla. Quindi, si finisce a pagare due dollari di sussidio al giorno per ogni mucca e non riusciamo a dare un dollaro al giorno a chi muore di Aids e ce ne sarebbero di dollari da dare. Ecco perché sono diventato sordo... Quindi via tutti e ripartiamo da capo. Voglio vedere politici in Parlamento che non siano più camuffati, senza più baffi e barbe finte".

Qui proprio non riesco che a rispondere sorridendo. La politica in Italia è una selva intricata, colma di dossier, veleni. Pensare alla politica come a un luogo dove poter trasformare le cose è difficile, quasi impossibile. Ma questo non sono capace di raccontarlo, forse mi fa male. Piuttosto chiedo a Bono della delegittimazione. Il suo impegno spesso viene deriso e attaccato, la rockstar milionaria che interviene a favore dei poveri, come una sorta di postura. Anche lui non è immune dalla macchina della delegittimazione, che i poteri usano sempre utilizzando l'esercito del risentimento, legioni di mediocri pronti ad eseguire l'ordine della maldicenza.

"Quando la gente si rende conto che non c'è via di scampo e che devono ascoltarti, allora devono o farti diventare un personaggio da prendere in giro, appiccicarti addosso favole irreali, farti diventare un personaggio appiattito, una caricatura, disegnata solo con pochi tratti. Senza tridimensionalità, questa è la delegittimazione. Tutti i nemici subiscono la delegittimazione. Lo si fa quando sei un nemico. In realtà penso questo: capisco benissimo il meccanismo e capisco benissimo che possa essere usato in modo offensivo e negativo. Ma pensa a qual era una delle più efficaci forme di protesta contro il nazismo negli anni '30, o contro il fascismo; erano i dadaisti, con il senso dell'umorismo. Che usavano come arma. Sai, i fascisti e i nazisti avevano tutte queste uniformi fantastiche, molto machiste. Come una sfilata di moda. Mentre i dadaisti è come se avessero levato loro i pantaloni e gli avessero messo il pisello all'aria. E mentre i nazisti combattevano tutti con manganelli, galera e repressione, non riuscivano a combattere lo humor. Impossibile, non c'è arma. Quindi alla delegittimazione rispondi con l'humor, ridi".

L'equilibrio che Bono è riuscito a costruire ha qualcosa di miracoloso. Parlare di grandi temi a milioni di persone, mentre saltano, cantano, si divertono. Entrare in una grande festa e cercare di far capire che quella felicità deve essere condivisa. Che combattere la povertà ti riguarda e non pretende che tu debba cadere nella miseria o nella rinuncia. Ma aumenta la tua felicità. È riuscito a coinvolgere milioni di ragazzi di diverse generazioni non temendo la retorica, non avendo paura di sbagliare. Se fai sbagli, meglio che non fare. Tutto questo cercando di essere concreto. Finanziando progetti. Capendo che c'è un modo sano di fare danaro e di usare il danaro. "Soldi significa corruzione e, quindi, se vuoi i soldi devi essere corrotto. Se tu invece dici: "Ok, voglio guadagnare, ma sono uno per bene, non ci credono". "A chi la dai a bere?", ti dicono. In Irlanda c'era in passato, per motivi diversi, lo stesso tipo di mentalità. Aver successo, significava essere colluso con il nemico. Che erano gli Inglesi. E anche dopo l'indipendenza, se avevi successo, significava essere colluso con il nemico. E quindi, c'era un rapporto davvero molto strano con il successo. Gli U2 hanno cercato di far ripartire l'orologio da questo punto di vista. E sono felice di poter affermare, che la maggior parte della gente in Irlanda, ora, ha cambiato idea su di noi. Per lo meno, il fatto che abbiamo avuto successo non è più visto negativamente. Per arrivare a ciò, però, hanno dovuto far ripartire il computer e "riaccendere" un nuovo modo di ragionare. Ed è estremamente positivo che si sia riusciti a far ciò, almeno per noi. Se tu dipingi la Cappella Sistina, il fatto che a qualcuno possa dar fastidio, non sminuisce ciò che hai fatto".

Bono poteva non impegnarsi e non occuparsi della questione africana. Aveva ottenuto tutto quello che un artista può ottenere. E impegnarsi gli ha creato anzi una gran quantità di guai. Ma anche una felicità che la sola carriera non può darti. "Conosci Desmond Tutu vero? Lui ti ha difeso molto... È lui il Capo, il mio Boss, se vieni al mio concerto, te lo presento. È stato lui, con Mandela, ma lui in particolare, a chiedermi di portare avanti il progetto della Cancellazione del debito estero, la Debt Cancellation, che i Paesi Poveri hanno nei confronti di quelli ricchi. Lui ha fondato questa organizzazione che si chiama Truth and Reconciliation (Verità e Riconciliazione) e per me ciò che la sua organizzazione significa rappresenta l'"idea" più importante degli ultimi venticinque anni!".

Passa Edge. Cappellino sulla testa, timido. Bono lo chiama. "Non volevo disturbare... ma grazie per essere venuto". Tutta questa gentilezza reale mi solleva da ogni ansia, ora mi sento tranquillo. Finiamo di mangiare, si è fatto tardi Bono viene ripreso dal suo ufficio stampa, deve andare a provare. Ci salutiamo, e facciamo un po' di foto sceme che promettiamo di tenere solo per noi, come quella mentre, giochiamo a braccio di ferro dove ognuno cerca di far vincere l'altro. È strano ma mi ci voleva il più singolare dei pomeriggi per vivere una giornata tranquilla all'aria aperta e con molte risate. Bono mi abbraccia e dice: "Sei invitato al concerto, mi raccomando". Magari, gli rispondo, la vedo difficile: "No ma non questo tu sei invitato anche ai prossimi". Quali? "Tutti i nostri prossimi concerti, per tutta la vita". Mi è sembrato un augurio bellissimo e non ho trovato altre parole che un semplice thanks. Torno in auto e la mia scorta la ritrovo in macchina a canticchiare "One", la mia preferita. "One Love, one blood, one life. You got to do what you should". E già, proprio così... un amore, un sangue, una vita, devi fare ciò che devi...

Roberto Saviano DAL SITO DI REPUBBLICA

domenica 11 luglio 2010

VINICIO CAPOSSELA - SOLO SHOW


Il Solo Show di Capossela ha fatto tappa venerdì sera a Bene Vagienna trasformando per qualche ora la piazza in un gigantesco luna park d’altri tempi. Il concerto si apre con uno spettacolo di cabaret e magia (con tanto di fuochi artificiali) del mago Christopher Wonder che riappare più volte sul palco per esibirsi nei suoi numeri grotteschi e divertenti annaffiati da grandi sorsate di birra. Vinicio Capossela saluta il pubblico con il brano che apre il suo ultimo album ‘Il Gigante e il Mago’ ed è così, parola dopo parola, nota dopo nota, che riesce, insieme a tutta la sua band, a trascinare la piazza in un rabdomantico viaggio fatto di incanto, malinconia, eccitazione, illusione e entusiasmo. Il teatro ambulante di cui tutti sono ormai gli attori scende nei bassifondi incontrando e scontrandosi con Minotauri, uomini pignatta e uomini col colbacco, passa per ‘Al Colosseo’ al ritmo di una ‘Marcia del camposanto’ e si lascia ipnotizzare dal ritmo frenetico del ‘Ballo di San Vito’, il tutto sotto lo sguardo vigile della ‘Signora luna’. Compagne di questo viaggio sono le canzoni dei suoi 20 anni di carriera tra cui ‘Non è l’amore che va via’, ‘Che cossè l’amor’, ‘Guiro’, ‘Tanco del murazzo’ e ‘Scatà scatà’. Dopo due ore di musica il concerto si chiude com’è iniziato: con un Gigante e con un Mago decretando così, almeno per noi, la fine dell’illusione.



sabato 19 giugno 2010

"Dio è il silenzio dell'universo, e l'uomo è il grido che da senso a questo silenzio"


"Acho que na sociedade actual nos falta filosofia. Filosofia como espaço, lugar, método de refexão, que pode não ter um objectivo determinado, como a ciência, que avança para satisfazer objectivos. Falta-nos reflexão, pensar, precisamos do trabalho de pensar, e parece-me que, sem ideias, nao vamos a parte nenhuma".

"Penso che la società di oggi abbia bisogno di filosofia. Filosofia come spazio, luogo, metodo di riflessione, che può anche non avere un obiettivo concreto, come la scienza, che avanza per raggiungere nuovi obiettivi. Ci manca riflessione, abbiamo bisogno del lavoro di pensare, e mi sembra che, senza idee, non andiamo da nessuna parte"

giovedì 17 giugno 2010

Sandokan pentiti, il tuo potere è finito di ROBERTO SAVIANO

ORA che ti hanno arrestato anche il primo figlio, è giunto il tempo di collaborare con la giustizia, Francesco Schiavone. Sandokan ti chiama ormai la stampa, Cicciò o' barbone i paesani, Schiavone Francesco di Nicola, ti presentano i tuoi avvocati. E Nicola, come tuo padre, hai chiamato tuo figlio a cui hai dato lo stesso destino. Destino di killer. Accusato di aver ucciso tre persone, tre affiliati che avevano deciso di passare con l'altra famiglia, con i Bidognetti. Nessuno si sente sicuro nella tua famiglia, il tuo gruppo ormai non dà sicurezza. Non ti resta che pentirti. Questa mia lettera si apre così, non può iniziare diversamente, non può cominciare con un "caro". Perché caro non mi sei per nulla. Neanche riesco a porgertelo per formale cortesia, perché la cortesia rischia già di divenire una concessione che va oltre la forma. Scrivendo non userò né il "voi" che considereresti doveroso e di rispetto, né il "lei". Chi usa il "lei", lo so bene, per voi camorristi si difende dietro una forma perché non ha sostanza. Allora userò il tu, perché è soltanto a tu per tu che posso parlarti.

Sei in galera da più di dieci anni. Prima ti eri rinchiuso a Casal di Principe in una casa bunker sotterranea. È lì che ti hanno scovato e arrestato. Oggi hanno catturato tuo figlio in un buco analogo, solo più piccolo: stesso luogo, stessi arredi, simboli di un potere sterile - il televisore a cristalli liquidi - , divenuti più dozzinali con il trascorrere degli anni.

Persino stessa passione per la pittura. Cos'hai pensato quando hai saputo che l'hanno stanato, quando ti hanno riferito che a guidare il blitz identico a quello che ha portato alla tua cattura c'era lo stesso uomo, Guido Longo, allora capo della Dia napoletana, oggi questore di Caserta? Cosa hai pensato quando hai visto l'antimafia di Napoli diretta dal Pm Cafiero de Raho combattere ancora lì, non indebolita nonostante le mille difficoltà? Che sensazione ti ha generato scoprire che "Nic'ò barbone" si è arreso con il tuo stesso gesto, l'identico modo di alzare le mani, quasi si trattasse di un tuo clone, non di tuo figlio? Cosa provi ora che la moglie di Nicola subirà le stesse pene che ha subito tua moglie? I tuoi nipoti vivranno come i tuoi figli senza padre, con i soldi mensili versati da qualche tuo vicario e il destino da camorrista già scritto perché intorno tutti vogliono così, perché tu vuoi così. Cosa provi? È a questo che è valsa la tua scalata alla testa dell'organizzazione, con tutti gli ordini di morte che hai impartito, con tutti gli uomini un tempo tuoi sodali che hai ucciso addirittura letteralmente con le tue stesse mani?
Ogni tuo amico ti è divenuto nemico, hai fatto ammazzare Vincenzo De Falco con cui eri cresciuto, hai fatto ammazzare i parenti di Antonio Bardellino, l'uomo che ti aveva dato fiducia, potere e persino amicizia. Vi tradite l'un l'altro e sapete dal primo momento che questo accadrà anche a voi stessi. Perché questa è la vostra vita, uccidere i vostri più cari amici, distruggere coloro con cui siete cresciuti per non essere distrutti. E sarete distrutti da coloro che oggi vi sono amici, che oggi stanno crescendo nei vostri affari. Come ti sei sentito Francesco Schiavone Sandokan quando in una relazione che hai fatto consegnare ai tuoi legali affermi di vedere fantasmi che ti vengono a trovare nella tua cella? Come ti senti quando piangi, quando ti senti impazzire, quando fai il finto pazzo pur di uscire dalla galera? Quando vieni a sapere che l'altro tuo figlio, Emanuele, è stato arrestato come un qualunque tossico che vende hashish per avere soldi? Lui figlio del capo dell'impero del cemento che si fa beccare come un tossico qualsiasi? Quando il tuo ordine era quello di non far spacciare in paese e invece tuo figlio finisce per farlo a Rimini, come ti senti? L'unica speranza che hai è quella di pentirti, non devi continuare a indossare la maschera della tigre feroce, mentre sei diventato un gatto rinchiuso e castrato.

Castrato come Francesco Bidognetti, tuo alleato e allo stesso tempo rivale, ormai sull'orlo del pentimento, che deve per forza mantenere la pace con uomini che gli hanno ucciso parenti e alleati. Che deve vedere le sue donne tradirlo una alla volta. Un uomo che del comando ormai conserva soltanto il ricordo. Oggi ha difficoltà a mantenere il suo gruppo, i sequestri di beni e gli arresti lo stanno divorando. Eppure i tuoi uomini, quelli che tuo figlio avrebbe ucciso, erano disposti a passare con lui pur di non stare sotto il comando del tuo erede. Hai sempre saputo quale fosse il tuo destino. Fatturate miliardi di euro all'anno, il patrimonio del tuo clan è simile a quello di una manovra finanziaria, ma il vostro non è un destino da uomini. È solo un destino da criminali, coloro che si credono re e si ritrovano prigionieri. Con il wc accanto al tavolo dove mangiate, con un secondino che vi ispeziona, con i vostri figli che hanno vergogna di dire chi siete, e un vetro che vi impedisce di toccare finanche le mani delle vostre mogli.

Come sopporti questa ripetizione di un copione che tu stesso hai scritto sulla pelle della tua discendenza, che a sua volta doveva inciderla nella carne altrui? Sei fiero che il tuo primogenito rischi di finire i suoi giorni in carcere? Costretti a vivere come topi. Per mesi, anni. Condannati, già prima di ogni sentenza, a nascondervi, a mentire, a camuffarvi, a pagare uomini dello Stato per aiutarvi, a comprare politici per difendervi, a mercanteggiare promesse e favori in cambio di protezione e sotterfugi. Ma anche a costringere dei poveri vostri compaesani ad accogliervi sotto minacce, mentre alle vostre famiglie tocca farsi svegliare dalla polizia nel cuore della notte o farsi pedinare per giorni e giorni. È questa la sostanza del vostro impero. Hai avuto e hai ancora molti politici in pugno, condizioni gli appalti di molta parte di questo Paese. Proprio perché stai in galera e porti il peso del tuo potere, ti consideri migliore rispetto a imprenditori e parlamentari vicini che valuti codardi. Eppure di questa superiorità cosa ti rimane? Loro stanno fuori e tu sei dentro. Perché continua a difenderli il tuo silenzio? Cosa mai potrà compensare il tuo ergastolo e la distruzione continua della tua famiglia? Non lo vedi? Francesco Schiavone, che cos'hai ottenuto? L'ergastolo e un futuro sepolto in galera. Non hai più alcuna speranza di uscirne fuori finché sei vivo. E allora, che cosa pensi, che ragioni ti dai della tua vita?

Credo, in realtà, di sapere a cosa stai pensando. Che adesso gli affari fuori sono buoni. La crisi economica aumenta il business del clan la tua galera passa in secondo piano. Pensi che hanno anche promulgato leggi favorevoli. La legge sulle intercettazioni sarà d'ora in avanti il vostro scudo, con questa legge non avrebbero mai potuto arrestare tuo figlio, la legge sul processo breve potrà tornarvi utile. Avete politici alleati nei posti chiave, e (se verrà confermato quanto dichiarano le accuse dell'antimafia di Napoli) il sottosegretario allo sviluppo Nicola Cosentino è in diretto rapporto con la tua famiglia. Non perché tuo parente ma perché in affari con te. Quindi pensi di avere un ministero importante dove passano soldi e favori nelle tue mani.

Ma tu sei e rimani in galera però. Ricordi quello che ha detto Domenico Bidognetti su Nicola Ferraro quando si è pentito? L'ha accusato non perché anche Nicola Ferraro sia tuo parente, ma per gli affari che fa con te e tramite te. Ricordi? Dovresti saperlo. Lui ha dichiarato che "Nicola Ferraro prelevava i rifiuti speciali delle officine meccaniche, anzi fingeva di prelevare i rifiuti ma in realtà faceva delle false certificazioni e venivano smaltiti illegalmente". Lui leader casertano dell'Udeur molto legato a Clemente Mastella è stato arrestato nella retata che azzerò il partito. "Era un imprenditore molto vicino al clan dei casalesi. Prima era più vicino alla famiglia Schiavone, poi deve essersi avvicinato a Antonio Iovine". E poi - continua Domenico Bidognetti che conosci bene e tu stesso l'hai in qualche modo allevato - "a testimonianza dei buoni rapporti fra il Ferraro ed il clan, un anno fa Cicciariello (Francesco Schiavone, cugino omonimo di Sandokan n. d. r.) mi disse che voleva mandare a dire a Ferraro di intercedere presso il suo 'comparè Clemente Mastella Ministro della Giustizia, per fare revocare, un po' per volta, i 41 bis applicati a noi casalesi. Non so dire se poi Cicciariello attuò questo proposito".

Ecco prima o poi, supponi, qualche politico amico attenuerà la tua pena e tornerai come quando eri giovane a vivere in carcere come in un hotel. Se non toccherà a te stesso, magari a Nicola, tuo figlio. Ti è stato consentito di incontrare un boss di Cosa Nostra, Giuseppe Graviano, mandante dell'uccisione di Don Puglisi, responsabile della morte di Falcone e Borsellino e delle stragi che nel '93 colpirono Firenze, Milano e Roma. Chissà cosa vi siete detti nei vostri colloqui durante l'ora d'aria al carcere di Opera, dove entrambi scontate il regime del 41 bis? Avete stretto alleanze, avete escogitato nuove strategie? Avete messo a punto degli strumenti per rivalervi su coloro che vi hanno punito, nel caso non fossero disposti a venire a patti? Avete vagheggiato di avere in mano, pur dal cortile di un carcere di massima sicurezza, il destino dell'Italia? Pensate che il vostro silenzio o una vostra mezza parola possa delegittimare i vertici del potere politico? Mettergli paura? Ingenuità, Schiavone. Non ti rendi conto che siete divenuti burattini pensando di essere burattinai. Ma non vedi quello che sta accadendo?

Ciclicamente appoggiate politici che vi fanno promesse, vi usano per ottenere ciò che gli torna utile, vi scaricano quando non servite più, quando intravedono delle alternative. Perché in questo Paese in cui il potere è sempre in mano a pochi e soliti, i soli di cui è certo che verranno prima o poi rimpiazzati da qualche rivale emergente siete voi.
La camorra è potente ma la sua forza si basa sul fatto che i camorristi continuamente cambiano, sono interscambiabili. I cimiteri sono pieni di camorristi indispensabili. Non stai vedendo che stanno eliminando il tuo gruppo? E quello di Bidognetti? E i fedeli Iovine e Zagaria? I due latitanti? Ancora liberi. Liberi di fare affari, di dirigerli. I tuoi reggenti diventati re nei fatti, perché non esiste nessuna incoronazione, mentre le detronizzazioni, quelle esistono, e prima o poi vengono scritte con il sangue, se non quello del sovrano decaduto, almeno quello dei suoi ultimi fedeli. È questo ciò che ti attende e lo sai. Loro ti tradiranno (se non lo stanno già facendo) proprio come tu hai tradito Antonio Bardellino e Mario Iovine.

Quattro anni fa feci un invito nella piazza di Casal di Principe. Lo feci alle persone, soprattutto ai ragazzi che erano lì presenti. Li invitai a cacciarvi dai nostri paesi, a disconoscervi la cittadinanza, a togliere il saluto alle vostre famiglie. "Michele Zagaria, Antonio Iovine, Francesco Schiavone, non valete niente". Urlai con lo stomaco e con la volontà di dimostrare che si potevano fare i vostri nomi, in quella piazza. Che non succede proprio nulla se si fanno. Che non sono impronunciabili, neanche quando si chiede non a una, due, o cinque persone, ma a molte, moltissime, di denunciarvi, di spingervi ad andarvene da Casal di Principe, San Cipriano d'Aversa, Casapesenna. A liberare queste terre. Tuo padre mi ha definito un buffone, non è l'unico a pensarla così. Tu stesso hai fatto scrivere dai tuoi avvocati che racconto menzogne. Sulle pareti di Casal di Principe mai è apparso un insulto a te, neanche dopo la strage di Casapesenna che avevi ordinato. Invece decine e decine le scritte contro di me, e appena si pronuncia il mio nome, i giovani delle mie zone mi riempiono di insulti. E quando vedono i tuoi figli, cosa fanno? Che cosa rappresentano questi ragazzi senza madre, senza padre, con gli occhi delle polizie sempre puntati addosso? Ti credi un uomo a far vivere così i tuoi figli? Tua moglie in prigione, i figli mollati ai parenti. È da uomo di onore, questo? Da uomo di rispetto?

Non è un uomo una persona che fa vivere così la propria famiglia. Questo lo sai nel profondo di te stesso. Una vecchia espressione napoletana identifica con un'espressione molto efficace un potere fatto solo di sbruffoneria: "guappi di cartone". Voi la usate per definire un uomo che parla e poi non agisce e ha paura. Io la uso per mostrare quanto sia codardo il vostro potere di morte, corrotto il vostro business, e che il vostro silenzio difende tutti quei colletti bianchi, imprenditori, editori, commercialisti, onorevoli, ingegneri che lavorando per voi pensando soltanto di lavorare per delle imprese di cui non vogliono conoscere l'origine. Guappo di cartone sei perché ordini esecuzioni di persone disarmate, fai sparare alle spalle a innocenti. Guappo di cartone perché temi ogni mossa che possa compromettere le tue entrate di danaro, perché sei disposto a perdere faccia e dignità per un versamento in euro. Guappo di cartone che costringi al silenzio della paura tutti i tuoi paesani se vogliono lavorare nelle tue imprese. Guappo di cartone perché non fai crescere nessuna impresa che con te e con i tuoi non faccia affari. Guappo di cartone perché avveleni la terra dove i tuoi avi avevano piantato le pesche, i meli, e ora la terra avvelenata non produce nulla se non cancro.

Può sembrarti assurdo ma siccome nessuno te lo chiede, te lo ripeto io un'altra volta. Collabora con la giustizia. Prima che tutti i tuoi figli finiscano in galera o ammazzati. Prima che le tue figlie siano costrette a matrimoni combinati per farti ancora contare qualcosa, prima che i tuoi nipoti debbano tutti legarsi attraverso matrimoni agli imprenditori locali per cercare di controllarli, sempre, ovunque, in ogni momento. Invita a pentirsi anche tuo fratello Walter. Fuori dal carcere si sentiva il protagonista di Scarface. Non c'era assessore, sindaco, segretario di partito o imprenditore che non volesse fare patti e affari con lui. E ora? Ora in galera lo divora una malattia, ha perso un figlio, è divenuto uno scheletro che cammina e implora ai giudici clemenza, lui che non l'ha mai data alla sua terra e ai suoi nemici. Per cosa taci ancora? Pensi che ti renda onore tutto questo? Pensi che ti rispettino coloro che il tuo silenzio difende? Tutti coloro che avete reso potenti, sensali con la coscienza pulita perché non sparavano, ma costruivano, smaltivano, votavano, governavano. Tutti questi non sono lì con voi. E andranno con chi comanda. Ieri eravate voi oggi sono altri, e domani altri ancora. Loro saranno amici di chi conta. Come sempre. E voi morirete in carcere.

Tu cosa vuoi, Francesco Schiavone? La tua morte? Rimpiangi di non essere finito ammazzato? Come tuo nipote Mario Schiavone "Menelik"? Facesti uccidere per vendicare la sua morte un carabiniere innocente Salvatore Nuvoletta, aveva vent'anni quando il clan dei casalesi chiese la sua testa, non fu lui ad uccidere in un conflitto a fuoco tuo nipote. E l'hai fatto ammazzare lo stesso. Tu e i tuoi uomini. Uccidendolo mentre era disarmato, mentre giocava con un bambino. Questo è onore?

Io sono cresciuto in terra di camorra e so come ragioni. Consideri smidollato chi ha paura di morire, chi ha paura del carcere. Sai che se vuoi davvero comandare sulla vita delle persone, devi pagarlo questo potere. Tu e i tuoi amici vincete perché sapete sacrificarvi mentre i politici e gli imprenditori di questo paese non sanno farlo. Quante volte ho sentito pronunciare queste parole dai miei conterranei. Ma non per tutti è così.

Prima o poi vi schiacceranno. Prima o poi tutti i vostri affari, il vostro cemento, i vostri voti, i vostri rifiuti tossici, tutto questo sarà destinato a finire. Non è la volontà che muta il destino delle cose, e tu, Schiavone, non sei che l'ennesimo di una catena infinita. Ma forse potresti fare un gesto, una scelta che compensi almeno in parte tutto quanto hai fatto. Mostra tutto. Sollevati dal tuo potere, dal potere dei tuoi affari, sottosegretari, sindaci, presidenti di provincia, sollevati dai veleni, dai morti, dalle dannate famiglie che credono di disporre di cose, persone, e animali come sovrani. Collabora con la giustizia, Schiavone. Invita a consegnarsi Antonio Iovine e Michele Zagaria. Sarebbe un gesto che ridarebbe a te e ai tuoi dignità di uomini. Provate ad essere uomini e non utili bestie feroci da business e accordi. Collabora con la giustizia, mostra che sei ancora un essere umano e non solo un agglomerato di cellule capace solo con rancore e avidità di strisciare di covo in covo, o di cella in cella.