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mentono sapendo di mentine

mercoledì 26 marzo 2008

Giordano Bruno

Giordano Bruno nacque a Nola, presso Napoli, nel 1548, da una famiglia di modeste condizioni. Il padre Giovanni era un militare di professione e la madre Fraulissa Savolino apparteneva ad una famiglia di piccoli proprietari terrieri. Gli fu imposto il nome di battesimo di Filippo. Compì i primi studi nella città natale, da lui molto amata e spesso ricordata anche nei lavori più tardi, ma nel 1562 si trasferì a Napoli dove frequentò gli studi superiori e seguì lezioni private e pubbliche di dialettica, logica e mnemotecnica presso l’Università. Nel giugno 1565 decise di intraprendere la carriera ecclesiastica ed entrò, col nome di Giordano, nell’ordine domenicano dei predicatori nel convento di S. Domenico Maggiore. Si fa rilevare come l’età di 17 anni sia da considerare piuttosto elevata, nel contesto, per decisioni del genere.

Nel convento cominciò subito a manifestarsi il contrasto tra la sua personalità inquieta, dotata di viva intelligenza e voglia di conoscere e la necessità di sottostare alle rigorose regole di un ordine religioso: dopo circa un anno era già accusato di disprezzare il culto di Maria e dei Santi e corse il rischio di essere sottoposto a provvedimento disciplinare. Percorse peraltro rapidamente i vari gradi della carriera: suddiacono nel 1570, diacono nel 1571, sacerdote nel 1572 (celebrò la sua prima messa nella chiesa del convento di S. Bartolomeo in Campagna ), dottore in teologia nel 1575. Ma contemporaneamente allo studio serio e profondo dell’opera di S. Tommaso non rinunciò a leggere scritti di Erasmo da Rotterdam, rigorosamente proibiti e la cui scoperta causò l’apertura di un processo locale a suo carico, nel corso del quale emersero anche accuse di dubbi circa il dogma trinitario. Era il 1576 e l’Inquisizione aveva ormai da tempo dato clamorosi esempi di rigore e di efficienza per cui il B., temendo per la gravità delle accuse, fuggì da Napoli abbandonando l’abito ecclesiastico.

Ebbe così inizio la serie incredibile delle sue peregrinazioni, durante le quali si mantenne impartendo lezioni in varie discipline (geometria, astronomia, mnemotecnica, filosofia, etc.).Nell’arco di due anni (1577-1578) soggiornò a Noli, a Savona, a Torino, a Venezia e a Padova dove, su suggerimento di alcuni fratelli domenicani e pur in mancanza di una formale reintegrazione nell’ordine, rivestì l’abito. Dopo brevi soste a Bergamo e a Brescia, alla fine del 1578 si diresse verso Lione ma, giunto presso il convento domenicano di Chambery, fu sconsigliato di fermarsi in quella città di confine con i paesi riformati e soggetta a particolari controlli, per cui decise di recarsi nella non lontana Ginevra, la capitale del calvinismo.

Qui venne accolto da Gian Galeazzo Caracciolo marchese di Vico, esule dall’Italia e fondatore della locale comunità evangelica italiana. Deposto di nuovo l’abito e dopo una esperienza di "correttore di prime stampe" presso una tipografia, il B. aderì formalmente al calvinismo e fu immatricolato come docente nella locale università (maggio 1579). Già nell’agosto però, avendo pubblicato un libretto in cui stigmatizzava il titolare della cattedra di filosofia evidenziando ben venti errori nei quali costui sarebbe incorso in una sola lezione, fu accusato di diffamazione e quindi arrestato, processato e convinto a pentirsi sotto pena di scomunica. Il B. ammise la sua colpevolezza ma dovette lasciare Ginevra, non senza conservare in sé un forte risentimento.
Quasi per reazione si recò allora a Tolosa, in quegli anni baluardo dell’ortodossia cattolica nella Francia meridionale, dove cercò, senza ottenerla, l’assoluzione presso un confessore gesuita, ma poté comunque ottenere un posto di lettore di filosofia nella locale università e per due anni circa commentò il "De anima" di Aristotele.
Nel 1581 lasciò anche Tolosa, dove si profilava una recrudescenza delle lotte religiose tra cattolici e ugonotti e si recò a Parigi dove tenne, in qualità di "lettore straordinario" (quelli "ordinari" erano tenuti a frequentare la messa, cosa a lui interdetta come apostata e scomunicato) un corso in trenta lezioni sugli attributi divini in Tommaso d'Aquino.

La notizia del successo del corso pervenne al re Enrico III al quale B. dedicò subito dopo (1582) il suo "De umbris idearum" con l’annessa "Ars memoriae" ottenendo la nomina a "lettore straordinario e provvisionato". L’appartenenza al gruppo dei "lecteurs royaux" gli consentiva una certa autonomia anche nei confronti della Sorbona, della quale non mancò di criticare il conformismo aristotelico. E’ questo un periodo di grande fecondità nella produzione filosofica e letteraria del B., che pubblica in breve successione il "Cantus circaeus", il "De compendiosa architectura et complemento artis Lullii" e "Il Candelaio".

Con il favore del re divenne "gentilomo" (ma ben presto apprezzato amico) dell’ambasciatore di Francia in Inghilterra Michel de Castelnau, che raggiunse a Londra nell'aprile del 1583, e grazie al quale frequentò la corte della "diva" Elisabetta. Continuò qui a pubblicare opere importanti: "Ars reminiscendi", "Explicatio triginta sigillorum" e "Sigillus sigillorum" in unico volume e subito dopo la "Cena delle ceneri", il "De la causa, principio et uno", il "De infinito, universo et mondi" e lo "Spaccio della bestia trionfante". Nell’anno seguente, sempre a Londra, diede alle stampe "La cabala del cavallo pegaseo" e il "Degli eroici furori".

Quest'ultima opera, al pari dello Spaccio, è dedicata a sir Philip Sidney, nipote di Robert Dudley conte di Leicester. Alcuni di questi testi risentono di polemiche con l’Università di Oxford e con una parte dell’aristocrazia inglese. Venuto a contatto con la famosa università oxoniana, sospinto dall’irruenza del suo carattere, durante un dibattito mise in difficoltà, senza troppi riguardi, uno stimato docente: John Underhill, e restò così inviso a una parte dei suoi colleghi che non mancarono di manifestare in seguito la loro animosità. Ottenuto infatti, dopo alcuni mesi, l’incarico di tenere una serie di conferenze in latino sulla cosmologia, nelle quali difese tra l'altro le teorie di Niccolò Copernico sul movimento della terra, fu accusato di aver plagiato alcune opere di Marsilio Ficino e costretto a interrompere le lezioni. Ma al di là dei risentimenti personali, confliggevano con la temperie culturale e religiosa inglese del tempo alcune idee di fondo del B., quali appunto la sua cosmologia ed il suo antiaristotelismo. L’episodio del giorno delle ceneri del 1584 (14 febbraio) è significativo: il B. era stato invitato dal nobile inglese Sir Fulke Greville ad esporre le sue idee sull’universo.

Due dottori di Oxford presenti, anziché opporre argomento ad argomento, provocarono un acceso diverbio ed usarono espressioni che il B. ritenne offensive tanto da indurlo a licenziarsi dall’ospite. Da questo fatto nacque "La cena delle ceneri" che contiene acute e non sempre diplomatiche osservazioni sulla realtà inglese contemporanea, attenuate poi, anche per la reazione di alcuni che si sentivano ingiustamente coinvolti in tali giudizi, nel successivo "De la causa, principio et uno". Nei due dialoghi italiani, Bruno contrasta la cosmologia geocentrica di stampo aristotelico-tolemaico, ma supera anche le concezioni di Copernico, integrandole con la speculazione del "divino Cusano". Sulla scia della filosofia cusaniana, infatti, il Nolano immagina un cosmo animato, infinito, immutabile, all'interno del quale si agitano infiniti mondi simili al nostro.

Tornato in Francia a seguito del rientro del Castelnau, il B. si occupò di una recente scoperta di Fabrizio Mordente, il compasso differenziale, per presentare la quale scrisse - su invito dell’inventore - una prefazione in latino nella cui stesura prevalevano talmente le applicazioni che il B. faceva dello strumento per avvalorare le sue tesi filosofiche sul limite fisico della divisibilità, da oscurare o ridurre a un fatto "meccanico" l’invenzione. Offeso, il Mordente si affrettò a comprare tute le copie disponibili e le distrusse. Bruno rinfocolò la polemica pubblicando un dialogo dal titolo e dal tono sarcastico "Idiota triumphans seu de Mordentio inter geometras deo" che indirettamente rese più difficile la sua permanenza a Parigi, essendo il Mordente un cattolico ligio alla fazione del duca di Guisa, che di li a poco avrebbe raggiunto il massimo della sua parabola ascendente, mentre il B. ribadiva la sua fedeltà ad Enrico III. Reazioni negative suscitarono di li a poco a Cambrai le tesi fortemente antiaristoteliche contenute nell’opuscolo "Centum et viginti articuli de natura ed mundo adversos peripateticos" discusse a nome del maestro dal suo discepolo J. Hennequin. L’intervento critico di un giovane avvocato che B. sapeva appartenere alla sua stessa parte politica, convinsero il filosofo nolano che la permanenza a Parigi non era ulteriormente possibile. Di nuovo ramingo per l’Europa, il B. approda nel giugno 1586 a Wittemberg, in Germania, dove insegna per due anni nella locale università come "doctor italus", al termine dei quali si congeda (anche per il prevalere in città della parte calvinista) con una "Oratio valedictoria" con la quale ringrazia l’università per averlo accolto senza pregiudizi religiosi.

L’orazione contiene anche un caloroso elogio di Lutero per il suo coraggio nell’opporsi allo strapotere della Chiesa di Roma che ha grande valore come difesa della libertà religiosa ma non rinnega i convincimenti critici del B. circa la dottrina luterana rilevabili in altre opere (specialmente "Cabala" e "Spaccio"). Gli "eroici furori" sembravano al B. incompatibili con la paolina teologia della croce. Dopo un breve soggiorno nella Praga di Rodolfo II, cui dedicò gli "Articuli adversos mathematicos", alla fine del 1588 si reca a Helmstedt dove, per poter insegnare nella locale "Accademia Iulia" aderisce al luteranesimo.

Ma i problemi di fondo rimangono: dopo nemmeno un anno è scomunicato dal locale pastore Gilbert Voet per motivi non ben chiariti e che il B. sostiene fossero di natura privata. E’ in questa città comunque che vennero pubblicate gran parte delle opere c.d. "magiche": "De magia , De magia mathematica", "Theses de magia", ecc. Il 2 giugno 1590 il B. giunge a Francoforte dove chiede ma non ottiene il permesso di soggiorno e rimane precariamente ospitato in un convento di carmelitani.

Pubblicati tre poemi latini (De triplice minimo, De monade, De innumerabilis) e dopo alcuni mesi di permanenza a Zurigo dove tiene lezioni di filosofia, torna a Francoforte dove nella primavera del 1591 viene raggiunto da due lettere del nobile veneziano Giovanni Mocenigo che lo invitano a Venezia per insegnargli l’arte della memoria. I motivi per i quali B. si decise ad accettare l’invito, con tutti i rischi connessi ad un rientro in Italia, sono tuttora dibattuti tra gli studiosi. Probabilmente a ragione, Michele Ciliberto è convinto che convergessero in questa scelta una pluralità di cause. Scomunicato dalle chiese riformate non meno che dalla cattolica, in rotta con gli ambienti puritani e con la fazione allora dominante in Francia, era isolato e indesiderato a livello europeo. Aveva fiducia nella tradizionale autonomia della Repubblica veneta (dove di fatto sopravvivevano circoli aristocratici orientati in senso "liberale") rispetto al Papa, ed aspirava alla cattedra di matematica dell’università di Padova, allora vacante, che sarà poi di Galileo Galilei. A queste considerazioni, peraltro, il Ciliberto ne aggiunge un’altra, direttamente connessa con gli ultimi raggiungimenti della filosofia del nolano: una sorta di forte autocoscienza, di vocazione in senso riformatore, quasi si sentisse un "Mercurio mandato dagli dei" per diradare le tenebre del presente. Una cosa, rileva ancora Ciliberto, B. non aveva previsto: "che razza di uomo fosse il Mocenigo" (Giordano Bruno, cit. pagg. 259 sgg.).
Comunque sia, a fine marzo 1592 l’inquieto pellegrino giunge in casa Mocenigo a Venezia. Dopo alcuni mesi il patrizio veneziano, forse insoddisfatto nella sua aspettativa di mirabolanti tecniche magico-mnemoniche, forse anche indispettito per il carattere indipendente del B. che mal si adattava alla condizione di "famiglio", specialmente di una persona così insipiente (egli si apprestava tra l’altro ad andare a Francoforte per far stampare libri e continuava a sperare in una cattedra a Padova), contravvenendo alle più elementari regole dell’ospitalità, rinchiuse B. nelle sue stanze e lo denunciò alla locale Inquisizione asserendo di averlo sentito profferire bestemmie e frasi eretiche. Dopo un paio di mesi peraltro il processo, subito iniziato, si presentava in modo abbastanza favorevole al B., che si era difeso sostenendo di aver formulato ipotesi filosofiche e non teologiche e che per quanto riguardava le cose di fede si rimetteva pienamente alla dottrina della Chiesa chiedendo perdono per qualche frase sconsiderata che potesse aver pronunciato.

Ebbe inoltre attestazioni favorevoli o per lo meno non ostili da parte di diversi testimoni del patriziato veneto. Quando tutto faceva sperare in una prossima assoluzione, giunse improvvisamente da Roma la richiesta del trasferimento del processo al tribunale centrale del S. Uffizio. La prima risposta del senato, geloso custode dell’autonomia della Serenissima, fu negativa, ma dietro le insistenze vaticane, nella considerazione che l’inquisito non era cittadino veneziano e che il suo processo era iniziato prima del suo arrivo nella città lagunare (ci si riferiva ai fatti del 1575) giunse alla fine il nulla-osta e nel febbraio 1593 il gran peregrinare del B. terminò in una cella del nuovo palazzo del S. Uffizio, fatto costruire da Pio V nei pressi di Porta Cavalleggeri.
Del processo, che si protrasse per ben sei anni e durante il quale per una volta almeno si ricorse con ogni probabilità alla tortura, ci rimane una "sommario", ritrovato stranamente nell’archivio personale di Pio IX e pubblicato da A. Mercati nel 1942. Si tratta quasi certamente di una sintesi compilata ad uso dei giudici, per consentire loro una visione d’insieme che non era facile avere nella gran congerie dei documenti originali.
Un fondamentale studio di questo estratto è contenuto nel libro di L. Firpo "Il processo di Giordano Bruno", Napoli, 1949, al quale si rinvia per i particolari drammatici e significativi dell’intricato procedimento che, oltre a fornire numerosi dati sulla vita del B., mostra il progressivo sgretolamento della sua tesi difensiva della separatezza tra il piano filosofico (sul quale, soltanto, lui asseriva di aver speculato) e quello teologico, che non gli interessava.
Decisivo al riguardo fu l'ingresso nel tribunale nel 1597 del teologo gesuita Roberto Bellarmino, chiamato ad esaminare gli atti processuali e soprattutto le opere a stampa per enuclearne il contenuto eterodosso.
Quando il nolano, che pure durante il processo aveva cercato di dissimulare, attenuare e talvolta anche accettato di ripudiare talune sue posizioni in più aperto conflitto con la dottrina cattolica si trovò di fronte alla necessità - per salvarsi - di rifiutare in blocco le sue idee, giudicate radicalmente incompatibili con l’ortodossia cristiana, si irrigidì in un fermo e sprezzante rifiuto e fu la fine.

Il 20 gennaio 1600 Clemente VIII, considerando ormai provate le accuse e rifiutando la richiesta di ulteriore tortura avanzata dai cardinali, ordinò che l’imputato, "eretico impenitente", pertinace , ostinato", fosse consegnato al braccio secolare. Ciò significava, nonostante la presenza nella sentenza della solita ipocrita formula che invocava la clemenza del Governatore, la morte per rogo. L’8 febbraio la sentenza fu letta nella casa del Cardinal Madruzzo e fu allora che il B., come riferisce un attendibile testimone oculare (lo Schopp) rivolto ai giudici pronunciò la famosa frase "Forse avete più paura voi che emanate questa sentenza che io che la ricevo" (trad. dal latino). Il successivo giovedi 17 febbraio 1600 - anno santo - venne condotto a Campo de’ Fiori con la lingua in giova" cioè con una mordacchia che gli impediva di parlare e qui, spogliato nudo e legato a un palo venne bruciato vivo ostentatamente distogliendo lo sguardo da un crocefisso, del quale stava condividendo la sorte ma che gli volevano far apparire come carnefice. Aveva messo in pratica e purtroppo sperimentato sulla sua pelle una considerazione di molti anni prima e cioè che "dove importa l’onore, l’utilità pubblica, la dignità e perfezione del proprio essere, la cura delle divine leggi e naturali, ivi non ti smuovi per terrori che minacciano morte" (Dialoghi Ital. a cura di G. Gentile Firenze 1985 pp. 698-99). Nel sommario del processo ci sono tramandati i capi d’accusa (24) ma non quelli ritenuti provati nella sentenza, che peraltro ci sono così riferiti dallo Schopp, a memoria:

1. Negare la transustanziazione;
2. Mettere in dubbio la verginità di Maria;
3. Aver soggiornato in paese d’eretici, vivendo alla loro guisa;
4. Aver scritto contro il papa lo "Spaccio della bestia trionfante";
5. Sostenere l’esistenza di mondi innumerevoli ed eterni;
6. Asserire la metempsicosi e la possibilità che un anima sola informi due corpi;
7. Ritenere la magia buona e lecita;
8. Identificare lo Spirito Santo con l’anima del mondo;
9. Affermare che Mosé simulò i suoi miracoli e inventò la legge;
10. Dichiarare che la sacra scrittura non è che un sogno;
11 .Ritenere che perfino i demoni si salveranno;
12. Opinare l’esistenza dei preadamiti;
13. Asserire che Cristo non è Dio, ma ingannatore e mago e che a buon diritto fu impiccato;
14. Asserire che anche i profeti e gli apostoli furono maghi e che quasi tutti vennero a mala fine.

Di tali errori il quarto risulta manifestamente infondato essendo lo "Spaccio" piuttosto antiluterano che antipapista; le volgari invettive contro Cristo, i profeti e gli apostoli dei nn. 13 e 14 sono evidentemente echi di sfoghi contingenti di una persona esasperata. Dove il contrasto con l’Istituzione appare insanabile è piuttosto con il nucleo centrale della dottrina del B., adombrato nei punti 5, 6 e 8. Non è qui il caso di approfondire il sistema filosofico del nolano, ma il solo pensare che la terra, da centro di un limitato universo, oggetto specifico e privilegiato dell’azione creatrice di Dio, diventi un minuscolo puntolino in un universo infinito e tra mondi infiniti; che tale universo è pervaso e vivificato da uno spirito divino immanente; che nel continuo trasformarsi della vita anche le anime, immortali, informano corpi diversi, ecc. rendeva le Scritture, Cristo, la Vergine, i profeti e i dogmi come imperfettissime ombre di una realtà che la filosofia mostrava ben più grande, e tutt’al più utili a tenere quieti i popoli. Probabilmente le idee di Bruno non sarebbero mai riuscite a far presa sulle masse, a sollecitare scismi lontanamente paragonabili a quello luterano; ma insomma di trattava, in un certo senso, di un tentativo di sostituire una nuova "summa" sull’universo a quella tradizionale di S. Tommaso. E questo fu considerato un pericoloso esempio, un attentato alla supremazia della teologia sulla filosofia, della religione sulla ragiOpere di Giordano Bruno

1568/71 (?)


Arca di Noè (andata persa)

1576 (?)

"Gli pensier gai" (non pubblicata)
"Tronco d'acqua viva" (non pubblicata)

1576/81
Lezioni sulla sfera (non pubblicata)
Lezioni sul "De Anima" di Aristotele (non pubblicata)

1577

De segni de'tempi (andata persa)

1579/81

Censure contro il De la Faye (andata persa)
Clavis Magna (andata persa)

1581/82

De’ predicamenti di Dio (andata persa)

1582

Candelaio
De umbris idearum
Cantus circaeus
De compendiosa architectura
Purgatorio de l’Inferno (andata persa)

1583

Ars reminiscendi
Explicatio triginta sigillorum
Sigillus sigillorum

1584/85

La cena de le ceneri
De la causa
Principio et uno
De l'infinito
Universo et mondi
Spaccio de la bestia trionfante
Cabala del cavallo pegaseo
De gl'heroici furori

1585

Arbor philosophorum (andata persa)
Figuratio Aristotelici Physici auditus
Dialogi duo de Fabricii Mordentis prope divina adinventione
120 Articuli adversus Peripateticus

1586

De Lampade combinatoria
De progressu et lampade venatoria logicorum
Artificium perorandi
Animadversiones circa lampadem lullianam
Lampas triginta statuarum
Oratio valedictoria

1587

Lezioni sull’"Organo" di Aristotele (andata persa)

1588

De specierum scrutinium

1589

De Magia
Theses de magia
De magia mathematica
De rerum principiis
Medicina lulliana
Summa terminorum metaphysicorum
De Imaginium
Signorum et idearum compositione
Oratio consolatoria

1589/91

Delle sette arti liberali (andata persa)
Delle sette arti inventive (andata persa)

1591

De triplici minimo et mensura
De monade
Numero et figura
De innumerabilibus
Immenso et infigurabili
De vinculis in genere
De rerum imaginibus (andata persa)
Templum Mnemosynes (andata persa)
De multiplici mundi vita (andata persa)
De naturae gestibus (andata persa)
De principiis veri (andata persa)
De astrologia (andata persa)
Sintesi del pensiero bruniano

Il pensiero di Giordano Bruno non può essere scisso dalla sua vicenda personale, dalla sua tragica fine. Un corrispondente di Keplero (che apprezzava l'opera di Bruno) gli confessava, nel 1608, di non essersi saputo dare ragione della fine del filosofo: dal momento che non credeva più in un Dio di giustizia, distributore supremo di pene e di premi nell'aldilà, perchè sopportare tanti patimenti soltanto per difendere la verità? Era una domanda grave, che ci fa pensare al diverso comportamento di Galileo e ci ripropone il problema del significato di tutta la cultura del Rinascimento, di cui Bruno costituisce insieme, il culmine e l'epilogo. Proprio rifiutandosi di rinnegare le proprie idee, lui che non credeva più nelle tavole dei valori, si faceva martire e confessore di altri valori e di un altro modo di concepire la vita. Egli, come altri uomini del Rinascimento, aveva affermato che la dignità dell'uomo, la sua nobiltà, il suo significato, dipendono dal suo agire; che il premio dell'azione è nel senso dell'azione, nella sua fecondità, in quello che l'azione dà per se stessa. Ma questa concezione della vita, che rompeva con una vecchia morale, non significava rifiuto di vincoli morali, bensì una morale nuova e più rigorosa intesa come responsabilità personale e profonda. Proprio quello che l'amico di Keplero non capiva nel gesto di Bruno costituiva la maggiore conquista di una civiltà di cui la fermezza del filosofo diventava il simbolo.

Ma Bruno significa anche un'altra conquista: l'uomo restituito a se stesso, reso padrone della propria sorte. Divenuto centro consapevole del proprio mondo, riconosce la grandezza e il significato della natura, dell'universo fisico che lo circonda, ne comprende l'immensità,le forze inesauribili, le forme infinite, l'estensione senza barriere. Rompe l'immagine casalinga di un mondo simile a una grande casa, fasciata e chiusa da sfere cristalline e immutabili. Liberato da una falsa concezione del divino, proprio nel punto in cui conquista l'autonomia morale, l'uomo ha il coraggio di liberarsi da una visione primitiva del mondo. Sa che egli non è il centro fisico dell'universo, anche se si accorge della potenza della propria ragione e delle proprie capacità. Per paradossale che possa sembrare, nel punto in cui il pensiero umano afferma la sua centralità nel mondo morale, distrugge la veduta puerile dell' antropomorfismo fisico attraverso la distruzione del geocentrismo. E ne nasce quella concezione del mondo fisico e del mondo morale che è stato caratteristica del mondo moderno, e che ha significato una doppia liberazione: dalle superstizioni prima e dai servaggi poi, sul terreno etico-politico; dalla soggezione alla natura, che non può essere dominata se non è affrontata "scientificamente". Orbene colui che trasformò l'ipotesi eliocentrica copernicana in una solenne concezione liberatrice, avanzando l'idea di mondi infiniti, di spazi senza confini; chi affrontò impavido l'idea dell'infinito universo e degli infiniti mondi, fu ancora Giordano Bruno.

Come la lotta contro la bestia trionfante del mito e della superstizione libera l'umanità sul piano morale e la restituisce integra a se stessa, così l'interpretazione dell'ipotesi astronomica di Copernico come concezione liberatrice della natura universale, libera la mente da quella antica barriera che le impediva di affrontare la natura com'è, senza timori, per esplorarla e trasformarla. Entro questa visione del mondo, matura una precisa concezione morale che fa corpo con essa, e che si articola in due momenti:
1) La liberazione dal vizio e dalla superstizione (fra loro indissolubili);
2) La conquista della virtù e della verità, indissolubili anch'esse.

La sua è un'etica di operosità, un elogio congiunto del lavoro manuale e di quello intellettuale. L'uomo - scrisse ancora - non contempli senza azione e non operi senza contemplazione. Soprattutto negli Eroici Furori si accentua la visione dell'infinito e la celebrazione dello sforzo che l'uomo fa per oltrepassare "eroicamente" tutti i limiti e tutti i confini. Che era un modo di sottolineare in forme poetiche l'inarrestabile slancio umano, oltre tutte le posizioni raggiunte, per la supremazia della verità.
Egli sta contro tutto il Medio Evo e lo scrolla dai cardini. Insegna che non vi è che un solo cielo, uno spazio infinito entro cui tutte le cose si muovono. In questo spazio sconfinato sfavillano innumerevoli stelle, folgoranti soli, anzi, sistemi di soli, poichè ogni sole, dice Bruno, è circondato di pianeti che egli, a somiglianza del nostro, chiama terre. Non vi sono che soli e terre e la ragione per cui vediamo soltanto i soli è la lontananza, che ci impedisce di vedere le terre opache. Tutti i movimenti nello spazio sono relativi; nessuna stella si trova al centro dell'universo, ma ognuna è centro del suo cielo nel suo sistema. In questo senso vi sono cieli innumerevoli. Non si dà un "sopra" e un "sotto" se non in senso relativo. Dicasi lo stesso della leggerezza e della gravità. Nessun corpo è in se' pesante, mo solo in rapporto al suo centro di attrazione. Bruno ha un presentimento della gravitazione universale nella seguente affermazione: i corpi si muovono liberamente nello spazio e si mantengono nella loro reciproca posizione grazie alla forza di attrazione. I soli si muovono attorno al loro asse, e oltre questo si ha un movimento nello spazio. Dal Cusano, Bruno conosce le macchie solari. Prima del Tycho Brahe, ricava dal movimento delle comete la prova che non esistono sfere fisse, alle quali stiano appiccicati i piani e meno ancora che si tratti di sfere di cristallo. Il mondo di Bruno è il mondo reale, come lo conosce la scienza contemporanea. Non sarà mai dimenticato che egli fu il primo che comprese la vera costituzione del cosmo. La sua concezione dell'infinito rovescia la concezione geocentrica della chiesa e sviluppa la concezione eliocentrica di Copernico. La personalità morale di Bruno s'intravede in questa risolutezza nel giungere alle conclusioni estreme. Dove il cauto astronomo trovava un limite o una barriera, egli non si arresta. Bruno non ha le positive cautele degli scienziati di mestiere, pieno com'è del convincimento del potere sterminato della ragione. Se Copernico si accontenta di rivoluzionare il sistema del nostro sole, egli non capisce perchè non si debba andare più in là.

Giordano Bruno nella teologia proclamò il panteismo. Nella cosmologia intuì l'infinità dello spazio. Nell'astronomia sostituì il sistema eliocentrico a quello geocentrico. Nella biologia affermò l'esistenza della vita in tutta la natura. Nella psicologia dimostrò il pampsichismo, cioè l'animismo universale. Nell'etica gettò le basi di una morale positiva, areligiosa e indipendente sostenendo che tutto l'universo è pervaso da una teleologia immanente, per cui si perfeziona e si migliora ogni cosa, essendo la natura causa, legge e finalità a se stessa. Distruttore dei pregiudizi dei suoi tempi, egli - soprattuto - ricostruì la scienza e la filosofia della natura; distrusse le antitesi della metafisica, nella filosofia e nella scienza. Combattè l'antitesi tra la forma e la materia, sostenuta dai filosofi dualisti. Combattè l'antitesi tra il cielo e la terra, sostenendo l'unità di questi, la teoria geocentrica e l'ipotesi della pluralità dei mondi. combattè l'antitesi tra lo spirito e la materia, tra l'anima e il corpo, tra il senso e l'intelletto, sostenuta dagli psicologi dualisti, conciliando questi termini, creduti contraddittori, e sostenendo l'unità dello spirito e della materia, l'inseparabilità dell'anima e del corpo e l'identità del senso e dell'intelletto. Contro le antitesi tra la causalità cosmica e la volontà divina, tra la necessità naturale e la libertà morale, tra la finalità trascendente e la finalità immanente, tra il bene ed il male, si sforzo di conciliare tutte queste antinomie, riportando i contrari all'unità assoluta, dove tutte le differenze restano eliminate. Contro il dualismo tra Dio e la Natura, sostenne che Dio non è una causa esteriore al mondo, ma un artista interiore, un principio efficiente, informativo dal di dentro. L'erroneo concetto del cristianesimo aveva scisso Dio dalla Natura, segregato la Natura dall'uomo. La Natura era decaduta, maledetta, asilo di demoni, di spiriti malvagi. L'unità nell'infinito o nell'immenso è il concetto fondamentale del brunismo. L'infinito non solo risplende nella massima esplicazione dell'universo, ma anche nell'opposto limite, cioè nella complicazione del minimo elemento, nella monade. In tutto c'è vita. L'universo è contenuto in potenza nella monade, così come nell'individuo è contenuta la specie, la nazione, l'umanità.

Bruno è stato spesso visto dai clericali quasi come un anticristo. Ora, occorre dire chiaro che Bruno criticò la Chiesa e il clero del suo tempo, scardinò molti dei dogmi del cristianesimo, ma non fu maestro di irreligiosità. Per lui ogni parte, anche minuscola dell'universo, è la divinità stessa. L'universo si confonde con la sostanza, cioè con Dio. La conoscenza del divino è razionale, cioè si giunge ad essa con la nostra ragione, ed è questa la forma più perfetta per conoscere la divinità. I preti non c'entrano niente. Ma negli Eroici Furori egli spiega che la divinità si conosce in due modi: per via di ragione e per contatto mistico. Bruno naturalmente dà dignità solo alla prima maniera. Coloro che conoscono Dio per ratto mistico - dice - sono simili all'"asino che porta i sacramenti". Conoscono il vero, ma non c'è merito. Vi sono per lui due modi di conoscere: quello che dà la filosofia e quello che dà la religione. Bruno sceglie il primo, ma non rigetta il secondo. Nel De Umbris Idearum dice che "la religione è l'ombra della verità: ma non è il contrario della verità". E' una conoscenza incerta, pallida, dubbia, una conoscenza contraddittoria escura, che non dà pieno affidamento, ma comunque è un grado della verità. L'ombra è un invito a passare nella luce. La religione deve intendersi come un invito ad assurgere alla filosofia. L'essenziale per Bruno, non è la religione, ma la morale. Una morale senza dogmi (come è stata giustamente definita), che elimina la necessità di una educazione ecclesiastica. Che mira alla liberazione attraverso lo sforzo e la volontà individuale. La filosofia bruniana è una filosofia dell'eroismo, diretta a liberare gli uomini dalla paura. Quando la paura - afferma - sia caduta dal nostro animo, noi siamo veramente uomini, parte consapevole, cioè, dell'infinito.


I maestri e le fonti

Si è discusso spesso su chi fossero i cosiddetti "invisibili" di Bruno. Coloro che prima di lui si erano scontrati con le dottrine e le chiusure mentali dei tempi. Quelli che con diversa passione avevano assaporato il piacere della conoscenza e avevano scelto di intraprendere il lungo cammino che porta alla ricerca della verità. La lettura di alcuni di questi autori, proibiti nel convento di San Domenico, dove Bruno studia, gli procurano le prime accuse di natura eretica. Quella di altri, che sarebbe riduttivo riportare in queste pagine (Platone, Aristotele, Socrate...), gli lasciano intravedere in positivo e negativo quello che di lì a poco diverrà il proprio pensiero filosofico. Sono le ombre di questi sapienti che lo sosterranno negli ultimi anni di vita, passati nel carcere in solitudine. Quelli che Bruno non tradirà mai con l'abiura, nel cui nome sopporterà torture e digiuni, ma soprattutto per le cui idee affronterà il tragico epilogo.


Ermete Trismegisto - Corpus Hermeticum
Tommaso D'Aquino (1126 - 1198)
Ibn Rushd - Averroè' (1126 - 1198)
Ramon Lull (1232 - 1316)
Niccolò Cusano (1400 - 1464)
Marsilio Ficino (1433 - 1499)
Pico della Mirandola (1463 - 1494)
Erasmo da Rotterdam (1469 - 1536)
Paracelso (1493 - 1541)
Tommaso Campanella (1568 - 1639)







Ermete Trismegisto - Corpus Hermeticum

I testi del Corpus Hermeticum e dell'ermetismo hanno una storia complessa. Le teorie ermetiche risalgono all'epoca dei Tolomei (II secolo a.C.), fiorite probabilmente in ambiente Alessandrino. La loro sistemazione scritta tuttavia va dal I secolo al III secolo d.C. L'ermetismo venne discusso da filosofi pagani e cristiani, influenzando sia le filosofie tardo-antiche e sia il nascente cristianesimo.
Il cristianesimo cercò di combattere le dottrine ermetiche dichiarandole eretiche. Infine nel VI secolo sembra che la letteratura ermetica si sia perduta nel nulla. Poi nel XI secolo Michele Psello, erudito bizantino, fa risorgere la tradizione ermetica e il Corpus Hermeticum. Con Psello, si può ritenere conclusa la formazione del corpus che giungerà in Occidente nel 1460.
I dialoghi ermetici vengono presentati come delle rivelazioni di Ermete Trismegisto ( Ermete tre volte grande) agli uomini, riguardo la natura divina, l'antropogonia, la cosmogonia, l'escatologia, la filosofia religiosa ed altro.
I personaggio dei testi ermetici, oltre a Ermete stesso, sono Iside, Aslepio, Ammone, Horus, il figlio di Iside e Agathos Daimon (che corrisponde a Kneph). Inoltre soltanto nei dialoghi ermetici appaiono personaggi come Poimandres, Tat e il sacerdote Bitys. Questi dialoghi sono naturalmente ambientati in Egitto. La figura di Ermete Trismegisto è estremamente interessante: Ermete fu identificato dai greci con il dio egiziano Thot (dio egizio Lunare della scrittura). Questa identificazione risale almeno ad Erodoto ed è presente in Platone nel "Fedro" (con il mito di Theut) e nel "Cratilo". Sappiamo quindi che Ermete e Thot erano associati all'invenzione della scrittura, alla medicina, al regno dei morti, alla capacità inventiva, alla frode e all'inganno.
Inoltre sia Thot che Ermete avevano un ruolo demiurgico. I greci vedevano l'Egitto come la terra della conoscenza perduta di un tempo estremamente remoto, quindi il fatto di possedere in lingua greca scritti composti dallo stesso dio Thot (Ermete), dava prestigio ai testi e conferiva loro importanza.
Chiaramente testi scritti dallo stesso dio della conoscenza erano qualcosa di incredibilmente importante e sacro. Una tradizione mitologica dice che l'Ermete dei testi del corpus era nipote del vero Ermete Trismegisto e aveva tradotto dagli originali egiziani gli scritti di suo nonno. Quindi se pensiamo che tutto ciò sia storico il "vero Ermete" sarebbe vissuto poco prima dell'arrivo dei Greci di Alessandro Magno in Egitto. Ma credo proprio che dietro alla figura di Ermete e delle arcane conoscenze dell'Egitto ellenistico, ci sia qualcosa di più importante. Probabilmente esisteva una sorta di setta che custodiva i segreti di Thot, ma allora qual'era la fonte principale delle conoscenze ermetiche? Lo stesso dio? E quando erano nate queste conoscenze?
Ipotizzando che il dio Thot fosse un uomo di eccezionali capacità che alla sua morte fosse stato divinizzato, lo potremmo collocare ai tempi del regno di Osiride. Osiride era a capo di un gruppo di superstiti di Atlantide e delle sue colonie diretti in Egitto circa nel 10000 a.C. Thot-Ermete, secondo Diodoro Siculo, era un grandissimo scienziato che aiutò Osiride nell'opera civilizzatrice in Egitto. Ecco cosa dice Diodoro nella sua Biblioteca Storica ( libro I, 15-16): "Tra tutti - aggiungono - Osiride teneva nel più alto grado di considerazione Ermes, perché fornito di naturale sagacia nell'introdurre innovazioni capaci di migliorare la vita associata.
Secondo la tradizione, infatti sono opera di Ermes l'articolazione del linguaggio comune, la denominazione di molti oggetti fino ad allora privi di nome, la scoperta dell'alfabeto e l'organizzazione dei rituali pertinenti agli onori e ai sacrifici divini. Egli fu il primo ad osservare l'ordinata disposizione degli astri e l'armonia dei suoni musicali secondo la loro natura; fu l'inventore della palestra e rivolse le sue cure allo sviluppo ritmico del corpo umano. Inventò anche la lira con tre corde fatte di nervi, imitando le stagioni dell'anno: adottò infatti tre toni, acuto, grave, medio, in sintonia rispettivamente con estate, inverno, primavera.
Anche i Greci furono da lui educati nell'arte dell'esposizione e dell'interpretazione, vale a dire l'arte dell'ermeneutica, e per questa ragione gli hanno dato appunto il nome di Ermes. In generale Osiride ebbe in lui il suo scriba e sacerdote: a lui comunicava ogni questione e ricorreva al suo consiglio nella stragrande maggioranza dei casi. Invece di Atena, come credono i Greci, sarebbe stato Ermes a scoprire la pianta dell'ulivo." Come si può capire Ermes era il "factotum" di Osiride.
Ermes svolse ogni genere di mansione e tentò di portare un po' di ordine nel disordine generale causato dalla fine della civiltà. Probabilmente Thot aveva lasciato dei testi dove cercava di preservare il suo sapere, che sono stati tramandati di generazione in generazione, forse, fino all'epoca ellenistica, certamente estremamente diversi dagli originali.






Tommaso D'Aquino (1232 - 1316)

Tommaso nacque nella famiglia dei conti di Aquino da Landolfo e Teodora verso il 1225. Da giovanissimo fu affidato ai monaci benedettini di Montecassino, dove ricevette la prima educazione. Verso i 18 anni Tommaso decise di entrare nell'ordine dei Domenicani e, nonostante le forti resistenze da parte della famiglia, resistette e scelse la sua vocazione. Tutta la vita di Tommaso fu spesa nello studio e nella contemplazione ed egli morì a neppure cinquant'anni, nel 1274, dopo aver lasciato moltissimi scritti. Fra essi ricordiamo : De ente et essentia, Summa contra Gentiles e Summa theologiae. Fu forse il pensatore più importante del Medioevo e la sua influenza, nell’ambito della Chiesa cattolica, è tuttora fondamentale. Era un uomo grande e grosso, bruno, un po’ calvo ed aveva l’aria pacifica e mite dello studioso. Per il suo carattere silenzioso lo chiamarono "il bue muto". Tutta la sua vita fu spesa nell’attività intellettuale e la sua stessa vita mistica la sua ricerca instancabile di Dio. Fu canonizzato nel 1323.
Tommaso elabora "cinque vie" per giungere a dimostrare che Dio esiste. La prima via è quella del moto, ed è desunta da Aristotele. Essa parte dal principio che tutto ciò che si muove è mosso da altro. Ora, se tutto ciò che è mosso a sua volta si muove, bisogna che anch’esso sia mosso da un’altra cosa e questa da un’altra ancora. Ma non è possibile andare all’infinito altrimenti non vi sarebbe un primo motore e neppure gli altri muoverebbero. E’ dunque necessario arrivare ad un primo motore non mosso da altro, e "tutti riconoscono che esso è Dio".
La seconda via è quella causale. Nel mondo vi è un ordine tra le cause efficienti (causa efficiente è ciò che da origine a qualcosa) ma è impossibile che una cosa sia causa efficiente di se stessa, perché altrimenti sarebbe prima di se stessa, dunque bisogna ammettere una prima causa efficiente "che tutti chiamano Dio". La terza via è basata sul rapporto tra il possibile e il necessario. Vi sono cose che possono essere e non essere: infatti alcune nascono e finiscono, il che vuol dire appunto che sono possibili, possono essere e non essere.
Ora, è impossibile che tutte le cose di tal natura siano sempre state, perché ciò che può non essere un tempo non esisteva. Se dunque tutte le cose possono non essere, in un dato momento non ci fu nulla nella realtà. Dunque non è vero che tutti gli esseri sono possibili ma bisogna ammettere che nella realtà vi sia anche un essere necessario, "e questo tutti dicono Dio". La quarta via è quella dei gradi di perfezione. Si trova nelle cose il più e il meno di ogni perfezione, cioè di bene, vero, bello ecc. Vi sarà dunque anche il grado massimo di tali perfezioni e "questo chiamiamo Dio".
La quinta via è quella desunta dal governo delle cose. I corpi fisici (pianeti, stelle ecc.) operano per un fine, come appare dal fatto che operano quasi sempre allo stesso modo per conseguire la perfezione; donde appare che non a caso, ma per una predisposizione, raggiungono il loro fine. Ora, ciò che è privo di intelligenza non tende al fine se non perché è diretto da un essere conoscitivo e intelligente, come la freccia viene scoccata dall’arciere. Vi è dunque un essere sommamente intelligente da cui tutte le cose naturali sono ordinate ad un fine, "e questo essere chiamiamo Dio".








Ibn Rushd - Averroè (1126 - 1198)

Ibn Rushd (Abû al-Walîd Muhammad ibn Ahmad ibn Muhammad ibn Ahmad ibn Ahmad inb Rushd) nacque nel 1126 a Cordova e morì a Marrakech il 10 dicembre 1198. Nel XII secolo l'Andalusia faceva parte dell'impero degli Almohadi, impero che si estendeva a tutta l'Africa del Nord e durante il quale l'Occidente arabo conobbe gloria e ricchezza. Ibn Rushd era astronomo, medico, giurista e filosofo. Figlio di giuristi, appartenente quindi ad una classe sociale elevata, vissuto nella stabilità dell'impero almohade ebbe modo di costruirsi una cultura vastissima. Durante un viaggio a Marrakech notò una stella che non si poteva vedere sotto i cieli spagnoli: Canepe.
L'osservazione di questo fenomeno gli permise di intuire la rotondità della Terra. Durante un altro viaggio a Marrakech, Ibn Rushd conobbe Ibn Tufail, medico del Califfo Yûssûf ibn Ya'qûb e questi lo incaricò di tradurre e commentare le opere di Aristotele in quanto lui era troppo vecchio per tale mansione e le traduzioni fino allora esistenti erano troppo oscure. Ibn Rushd accettò e s'impegnò in un lavoro che durò più di 15 anni, ma l'opera del grande filosofo greco fu quasi interamente tradotta. Alla morte del Califfo, Ibn Rushd mantenne un posto di primissimo piano come medico di corte e confidente del successore di quest'ultimo Ya'qûb detto al-Mansûr "Il Vittorioso" per la strepitosa vittoria di Alarcos del 1195 contro Alfonso VIII di Castiglia e i principi cristiani di Spagna sempre più minacciosi.
Poi improvvisamente caddè in disgrazia, il sovrano lo esiliò e i discepoli lo rinnegano. I sovrani Almohadi cercavano sempre la compagnia dei "falâsifa" (i filosofi), li stimavano e non avevano mai manifestato ostilità fanatiche nei loro confronti. Se Ibn Rushd cadde ingiustamente in disgrazia, fu probabilmente a causa di circostanze forzate. Le sue dottrine filosofiche dovevano indisporre non poco i teologi limitati e i giuristi pedanti incapaci di interpretazione personale dei testi. Furono quindi ragioni di stato che obbligarono al-Mansûr ad allontanare Ibn Rushd anche perché la minima debolezza del sovrano sarebbe stata immediatamente sfruttata dai principi cristiani di Castiglia e León. Ritornata la calma al-Mansûr riabilitò Ibn Rushd che ritorno a Marrakech dove mori il 10 dicembre all'età di 72 anni. Le spoglie furono trasferite nella sua città nataleCordova.Ibn Rushd non si occupò solo di medicina o dei commenti all'opera di Aristotele scrisse anche molti libri di filosofia.
In particolare ricordiamo un trattato sulla non contraddizione tra filosofia e religione che lo pone al vertice della riflessione filosofica del suo tempo e non solo. Ibn Rushd sosteneva che i testi sacri sono legittimamenteinterpretati in modo diverso dal filosofo dal teologo o dal profano. La "verità" può quindi essere interpretata in modo diverso secondo la formazione intellettuale dell'individuo.
Questo approccio critico poteva suscitare le reazioni di molti, era in un certo senso "rivoluzionario" e lo sarebbe ancora oggi. Se i Musulmani che vennero dopo di lui non approfittarono dei suoi insegnamenti e ebbero verso le sue opere un approccio superficiale (molte erano diffuse in latino ed ebraico), non fu così per i Cristiani e gli Ebrei dai quali fu considerato una personalità ineguagliabile.
Le sue dottrine verranno insegnate in Europa fino al XVIII secolo, in particolare il trattato del De anima nella traduzione in latino di Micael Scott del 1230 e ciò nonostante le condanne dell'Inquisizione e del Concilio di Trento che consideravano eretiche e blasfeme le teorie di Averroè, anche se l'averroismo professato in Europa è solo un pallido riflesso della sua cosmologia. Molti filosofi e teologi europei devono molto a Ibn Rushd, tra questi citiamo i più conosciuti: San Tommaso d'Aquino, Bacone, Spinoza, Leibnitz.
Combatté apertamente contro le degenerazioni del pensiero aristotelico attuate dagli integralisti teologi musulmani e da Avicenna. Punto sostanziale é l'intervento di Dio nel mondo. Dio è atto puro. Se ne prova l'esistenza con i passaggi avicenniani a contingentia mundie dei gradi di perfezione: tali modalità di prove vennero poi accolte come terza e quarta prova da S.Tommaso. Non esiste una creazione ex nihil una volta per sempre, ma un continuo trarre le cose dalla potenza all'atto, dando per scontato che materia prima e mondo esistono ab aeterno, causati necessariamente da Dio fin dall'eternità. Filosofia e religione rivelata sono un'inscindibile verità, ma mentre la rivelazione - che è diretta a tutti gli uomini - mira al potenziamento della virtù attraverso il linguaggio semplice che colpisce il sentimento e l'immaginazione, spetta ai filosofi (non ai teologi) l'interpretazione e la dimostrazione scientifica dei dogmi forniti dalla rivelazione.








Ramon Lull (1232 - 1316)

Il suo nome italianizzato è Raimondo Lullo. E' l'autore di quel complicato ed ambizioso progetto di lingua conosciuto come Ars Magna. Lullo è un uomo del Duecento (morirà nel 1316 ), originario di Maiorca, città multietnica, in cui sono ugualmente forti le influenze del cristianesimo, dell'islamismo e dell'ebraismo. In un tale ambiente multilingue, Lullo - divenuto frate francescano - persegue lo scopo di creare una lingua filosofica che possa mostrare agli infedeli le inconfutabili verità del Vangelo. Secondo la leggenda, Lullo muore lapidato dagli stessi saraceni a cui si era presentato per convertirli. A parte l'esito infelice della vita di Lullo, fortuna maggiore ha avuto la sua Ars Magna, soprattutto durante il Rinascimento, su uomini come Cusano.
Il fascino dell'Ars Magna deriva dalla imponente organizzazione del sapere in categorie e nell'adozione della logica, entrambe di origine aristotelica. Lullo stabilisce un alfabeto di nove lettere (b,c,d,e,f,g,h,i,k), alle quali fa corrispondere nove dignità divine, o Principi Assoluti, nove Principi Relativi, nove Soggetti, nove Questioni, nove Virtù e nove Vizi. L'Ars Magna contempla poi delle figure che servono a realizzare la combinatoria delle lettere, e quindi delle dignità, dando origine a tutte le combinazioni possibili. Tali combinazioni corrispondono ad altrettante proposizioni necessariamente vere.
Tuttavia, il gran numero di combinazioni possibili porta all'eventualità di formulare proposizioni contrarie ai dogmi cristiani; ad esempio, applicando il sillogismo a determinate dignità, si può avere: "L'avarizia è differente dalla bontà, Dio è avaro, perciò Dio è differente dalla bontà". Lullo, dunque, procede accuratamente a scartare tutte le proposizioni "scomode", venendo meno al proposito di creare una lingua basata sulla logica e quindi necessaria.
Presupponendo un ordine predefinito del cosmo, l'Ars Magna nega la possibilità di pervenire ad ulteriori verità. Ricercare le possibili connessioni tra le diverse dignità non è uno strumento euristico, perché la realtà è già definita dalle categorie dell'arbor scientiarum: una categorizzazione "ad albero", appunto, che parte dalle nove dignità e si espande fino a definire tutti gli elementi della realtà, descrivendo la Grande Catena dell'Essere.
Questo è, in definitiva, il limite maggiore dell'opera di Lullo: aver considerato assoluta una data organizzazione del mondo, convinto che musulmani ed ebrei non avrebbero potuto far altro che convertirsi, di fronte a tali inconfutabili verità Durante il Medioevo, gli studi che si propongono di ritrovare (o di ricreare) la lingua prebabelica sono caratterizzati da un profondo misticismo. Una forte impronta a questi primi studi è data dalle ricerche di eruditi interpreti della Torah, il testo sacro ebraico; questa lunga tradizione prende il nome di cabalismo ("cabbala" in ebraico vuol dire "tradizione").
Tali studi influenzeranno profondamente i futuri orientamenti del neoplatonismo rinascimentale. Nel Mediovevo, dunque, tali ricerche hanno il loro riferimento diretto nel Vecchio Testamento, sia (come è ovvio) per la comunità dei cabbalisti, sia per la tradizione cristiana, che assume come testo di riferimento la Vulgata, prima traduzione in latino della Bibbia ad opera di San Gerolamo (III secolo d.C.). Un personaggio di rilievo è, in questo periodo, lo spagnolo Llull: inventore del primo sistematico progetto di lingua perfetta, basata su di una "organizzazione del contenuto" ritenuta universale.








Niccolò Cusano (1400 - 1464)

Niccolò Cusano nacque a Kues, in Germania, attorno al 1400. Studiò diritto e matematica a Padova e teologia a Colonia. A venticinque anni diventò prete, poi divenne vescovo di Bressanone e quindi cardinale. Il Concilio di Basilea lo incaricò di rappresentare la Chiesa Cattolica in una missione riconciliatrice in Grecia, allo scopo di sanare la spaccatura con la Chiesa Ortodossa. Pur fallendo, Cusano tornò in occidente con i testi originali dei classici greci e una folta rappresentanza di sapienti, i quali insegnarono il greco (lingua da secoli dimenticata), ai dotti italiani, contribuendo così allo sviluppo dell'umanesimo rinascimentale.
Le sue opere sono: La dotta ignoranza (1440), sua opera principale, Le congetture (1445), L'Idiota (1450), Il gioco della palla (1463). Ne "La dotta ignoranza" Cusano afferma, rispolverando una massima socratica, che "quanto meglio uno saprà che non si può sapere, tanto più sarà dotto." Posto che Dio è la perfezione assoluta e infinita, niente di quello che l'uomo può sapere e imparare raggiungerà mai questa perfezione. La conoscenza dell'uomo non sarà mai perfetta, ma costantemente perfettibile, la scienza degli uomini cerca la verità, ma la verità, come una preda sfuggente, non si farà mai raggiungere.
La conoscenza attraverso la ragione è un tentativo reiterato di cercare di misurare l'incommensurabile, è un tentativo di instaurare una proporzione fra il noto e l'ignoto. Questo tentativo è sempre graduale, del resto non si può conoscere direttamente l'ignoto intero senza una serie di tentativi successivi di avvicinamento.
Cusano porta l'esempio della misurazione di una circonferenza: l'uomo semplifica il problema ipotizzando la circonferenza come un poligono che abbia infiniti lati, ma l'infinito non è proprietà della geometria, scienza finita, e la circonferenza risulterà allora da una semplificazione mistificante.
Cusano usa in questo modo termini matematici e geometrici, i quali hanno la proprietà delle cose finite (e quindi umane), per mettere in luce l'impossibilità umana di conoscere e provare l'infinito attraverso la ragione, infinito che Cusano identifica in Dio.
Se l'infinito non è raggiungibile attraverso la ragione, lo è attraverso l'intelletto, il quale, seppur non arriva a una conoscenza certa del concetto, può arrivare a una sua intuizione. L'infinito è l'unità di tutte le conoscenze, anche quelle opposte, in quanto la perfezione assoluta implica la sintesi suprema tra tesi e antitesi. Questa coincidenza degli opposti fa si che in Dio siano presenti tutti i principi contrapposti che sono all'apparenza inconciliabili. Dio è sia affermazione che negazione.
In Dio convivono i contrari poiche Egli è l'assoluto. In Cusano vi è una continua tensione tra perfezione e impossibilità di raggiungerla, una sorta di sintesi impossibile tra assoluto e umano. L'umano è l'imperfetto perfettibile, il divino la perfezione assoluta in cui tutto trova una sintesi, ma proprio perché divina, impossibilitata a venire a contatto con l'umano. Di fronte all'impossibilità di definire in modo certo la natura infinita di Dio, l'uomo diventa uno spettatore della Creazione, ma non uno spettatore passivo. L'uomo è il fine ultimo della Creazione, creato per riconoscere il valore divino della Creazione stessa. Dio si può conoscere allora per teologia negativa (ciò che Dio non è) o per teologia positiva (Dio è l'infinito), la terza via è la parola di Cristo.
Cristo è anche Dio, quindi la sua infinità divina è per l'uomo un motivo di imitazione terrena, imitazione che sfocia necessariamente in una teologia del dialogo che può favorire, sul piano civile e storico dell'uomo, una riconciliazione dei dissidi (una empirica coincidenza degli opposti).









Marsilio Ficino (1433 - 1499)

Il nome di Ficino è associato all'incarico affidatogli da Cosimo de' Medici di tradurre le opere di Platone, recentemente acquistate in Grecia. Per poterle tradurle il mecenate gli mise a disposizione una villa presso Firenze che succesivamente divenne un luogo di ferventi incontri culturali, la famosa Accademia Platonica.
Ficino tradusse non solo le opere di Platone, ma anche quelle di Porfirio, Proclo, Plotino, Dionigi Pseudo-Aeropagita, Orfeo, Esiodo e molti altri, contribuendo così a diffondere l'umanesimo analogamente alla missione di Cusano. Homo copula mundi. Nel nuovo clima del Rinascimento, Ficino è fautore di una teoria che riporta l'uomo al centro del mondo dopo i secoli del pessimismo antropologico cristiano.
Per Ficino l'uomo è copula mundi. Cosa significa? Significa che l'uomo è il termine medio tra il divino e il terreno. Il mondo esistente è diviso per gerarchie in cinque parti: al vertice c'è Dio, poi vengono gli angeli, quindi l'anima dell'uomo, la qualità, e per ultimo il corpo.
Quindi l'anima dell'uomo è il centro del mondo, il termine medio (copula), l'entità per mezzo della quale divino e terreno si incontrano. L'uomo ha la libertà di decidere se aspirare all'alto o perdersi nel basso. In sostanza, una posizione di privilegio data dalla coscienza e dall'intuito umano, il quale permette di percepire sia le cose divine che vivere le cose terrene.
Le origini della Rivelazione divina. Secondo Ficino, Il percorso della Rivelazione divina non è cominciato con il Cristianesimo, la sua verità cominciò a manifestarsi anche prima, nell'indagine e nelle opere degli studiosi pagani illustri, primo fra tutti Platone.
Le origini della Rivelazione cominciano con il persiano Zarathustra e con Ermete Trismegisto, mitico sapiente egiziano, continua con Pitagora, arriva a Platone e prosegue nei neoplatonici, Plotino e lo Pesudo-Aeropagita.








Pico della Mirandola (1463 - 1494)


Le opere più importanti di Pico della Mirandola sono le Conclusioni filosofiche, cabalistiche e teologiche del 1486, con la quale cerca di promuovere un riavvicinamento tra la Chiesa cattolica, la religione ebraica e quella islamica (le tre grandi religioni monoteiste rivelate) e La dignità dell'uomo (1487). La sua leggendaria capacità mnemonica gli permise di studiare le lingue ebraiche, l'arabo e il caldaico (lingue dell'antica Mesopotamia), oltre che il latino e il greco.
Il suo desiderio di rinconciliare le tre grandi religioni non andò a buon fine perchè alcune delle sue Conclusioni filosofiche vennero sospettate di eresia dalla Chiesa. Pico fu anche imprigionato per eresia e ottenne il perdono del papa solo grazie all'intervento di Lorenzo il Magnifico.
L'uomo camaleonte. Ne "La dignità dell'uomo" Pico espone il concetto dell'uomo camaleonte. Secondo Pico, Dio creò ogni essere vivente dotandolo di particolari qualità. Così ogni animale ha un particolare istinto che lo rende abile per una certa cosa. Quando Dio creò l'uomo non volle attribuirli solo una qualità ma preferì dotarlo di una parte di tutte le qualità. Quindi l'uomo si trova nella posizione potenziale di scegliere, come per Ficino, tra le "cose inferiori" e le "cose superiori".
L'uomo è un camaleonte che può servirsi a piacimento e secondo l'esigenza di una qualsiasi delle qualità che possiede, e questo gli da un vantaggio considerevole rispetto alle altre speci viventi. L'uomo è dotato quindi di una adattabilità invidiabile nonché del libero arbitrio. Questa libertà di realizzazione umana pone l'uomo al di sopra degli angeli stessi, i quali sono fissi nelle gerarchie celesti, senza alcuna possibilità di miglioramento.








Erasmo da Rotterdam (1469 - 1536)


Il vero nome era Jeert Jeerts, nacque a Rotterdam nel 1469 circa e morì a Basilea. Rimasto orfano fin dalla tenera età, spogliato del suo piccolo avere dai tutori visse disagiatamente. Educato da Steyn, prese nel 1492 convento degli Agostiniani gli ordini ma ottenne più tardi la dispensa dai voti dal Papa Giulio II. Fatti i corsi nel collegio fu poi a Parigi dove seguì Montaigne, in seguito in Inghilterra e a Torino, dove ottenne la laurea e venne a contatto con la teologia. E da qui poi a Venezia con l'umanesimo italiano. Tornato di nuovo in Inghilterra scrisse "L'Elogio della Pazzia" (1509), insegnò teologia all'Università di Cambridge e nel 1516 pubblicò a Basilea l'edizione del testo Nuovo Testamento in greco originale. Infine rientrò in patria, luogo che si confaceva più al suo spirito in quanto vi convivevano Cattolicesimo e la Riforma.
Qui iniziò con Lutero la sua polemica con alcuni scritti come il "De Libero Arbitrio" (1524). La sua figura di intellettuale, sia in campo filosofico che teologico, non si risolve in maniera completa, ma spesso si lascia guidare dalla necessità della polemica. Il suo grande sentimento classico si traduce nell'avversione, come tutti gli Umanisti e i Rinnovatori Religiosi, per la Scolastica. Non apprezza le discussioni astratte o i problemi metafisici o dialettici degli Scolastici perchè non interessano direttamente il sentimento umano e gli interessi sociali, ma sono freddi esercizi mentali. Come umanista e letterato dà grande importanza a ciò che scuote l'animo e commuove, tende ad essere più un ragionatore che un razionalista. Per questo apprezza più di tutti Socrate che meglio di Platone fu sempre a contatto con la vita dell'uomo. Lo sforzo di Erasmo è quello di mettere sulla stessa linea la fede con l'erudizione e il bello stile, come se fossero valori equivalenti. Vuole affermare la sostanziale identificazione dei valori più autentici del Cristianesimo con la sapienza antica. Cerca quindi di togliere al Cristianesimo le asprezze e le affermazioni assolute.
Cerca un equilibrio fra la pura moralità evangelica e la sobrietà e misura pagana; ne è testimonianza il suo latino duttile e colorito, pieno di psicologia, finezza e forza esortativa. La stessa funzione esercita nella lotta all'immoralità, agli abusi ecclesiastici, all'ignoranza e all'intolleranza delle astruserie dogmatiche e ironicamente si abbatte sulla grettezza e sugli eccessi dei razionalisti. Insiste molto sulla figura di Socrate soprattutto nel suo paragone con Cristo. Riconosce la somiglianza fra queste due personalità nella loro opposizione tra valori autentici e valori inconsistenti, nell'equilibrio e dominio di se stessi, in contrapposizione con i beni mondani ed esteriori. Mostrando la somiglianza fra Socrate e Cristo, Erasmo vuole concretizzare con i comportamenti dei due più illustri rappresentanti, la coincidenzatra etica cristiana e etica pagana. Erasmo satireggiò la degenerazione di un epoca corrotta, i vizi dei laici come quelli degli ecclesiastici e da principio vide in Lutero il riformatore dei costumi e il polemista contro i privati teologi.
La satira erasmiana, apparentemente spregiudicata, è densa di motivi etici. Per lui la Pazzia infatti è l'illusione, la menzogna di cui la vita dell'uomo si ammanta per nascondere la sua cruda realtà, ma il principale obiettivo della polemica è costituito dal clero e dallo stato della Chiesa.
Devozioni degne di riso sono per Erasmo l'accendere candele dinanzi ad immagini in pieno giorno o intraprendere peregrinazioni in luoghi dove nessun motivo plausibile spinge ad andare. Erasmo crede nella fedeltà allo spirito del vangelo, rifiuta ogni fanatismo e dogmatismo della dottrina cristiana dimostrando di aver fatto sua la più alta lezione dell'Umanesimo proprio in questo senso critico e sereno, nella sua prudenza e ricerca di misura. Erasmo intende il rinnovamento religioso come la coscienza umana che ritorna alle origini del Cristianesimo e studia con la filologia i testi sacri per ritrovarne l'autentico significato.
Come umanista il suo compito si ferma qui, fa parte del mondo dei dotti e come tale è contrario a coinvolgere con la religione, forze politiche o sociali estranee al mondo della cultura. Per questo, quando Lutero nel 1519 gli chiede di appoggiare la Riforma, pur approvandone i principi che in massima parte lui stesso ha indicato, si rifiuta di seguirlo nell'opera rivoluzionaria.







Paracelso (1493 - 1541)


Philippus Theophrastus Bombast von Hohenheim (detto Paracelsus) nacque il 14 novembre del 1493 a Einsiedeln, un villaggio vicino alla città di Zurigo, in Svizzera. Suo padre, Guglielmo Bombast di Hohenheim, era un medico discendente dell'antica e celebre famiglia Bombast detta di Hohenheim dalla sua antica residenza. Nella prima giovinezza, Paracelso ricevette un’istruzione scientifica da suo padre, che gli insegnò i rudimenti dell'Alchimia, della chirurgia e della medicina. In seguito continuò gli studi sotto la guida dei monaci del convento di Sant'Andrea (nella valle di Savon) e sotto l'egida dei dotti vescovi Eberhardt Baumgartner, Mathias Scheydt di Rottgach e Mathias Schacht di Freisingen.
Successivamente fu istruito dal celebre Johann Trithemius di Spanheim, uno dei maggiori adepti della Magia, dell'Alchimia e dell'Astrologia del suo tempo, venerato nel seicento, insieme ad Agrippa von Nettesheim, come uno dei maggiori luminari dell’Arte Spagirica (Alchimia Esterna). Sotto la guida di questo maestro Paracelso coltivò e mise in pratica il suo talento e il suo amore per l’occulto. Il giovane Theophrastus assunse probabilmente in quel periodo il suo soprannome latinizzato "Paracelsus" intendendo accentuare la sua convinzione di essere superiore all’arte medica del passato.
Visitò la Germania, l'Italia (dove forse si laureò in medicina presso l’Università di Ferrara), la Francia, la Spagna, l'Olanda, la Danimarca, la Svezia, l’Inghilterra, la Polonia, la Russia e molte altre regioni dell’est europeo. Forse si recò anche in India, e dopo essere stato fatto prigioniero dai Tartari e portato al cospetto del Khan, ne accompagnò il figlio a Costantinopoli nel 1521. Secondo la relazione di Van Helmont, là ricevette la Pietra Filosofale. La leggenda narra che l'adepto da cui Paracelso ricevette questa pietra fu un certo Solomone Trismosinus (o Pleiffer) compatriota di Paracelso.
Si dice che questo Trismosinus fosse anche in possesso della Panacea Universale; e si afferma che sia stato visto, ancora vivo, da un viaggiatore francese, alla fine del diciassettesimo secolo. Nel 1525 Paracelso giunse a Basilea, e nel 1527, per raccomandazione di Ecolampadio, fu nominato dal Consiglio Cittadino professore di fisica, medicina e chirurgia ricevendo un onorario notevole. Le sue lezioni non erano come quelle dei suoi colleghi: semplici ripetizioni delle teorie di Galeno, Ippocrate e Avicenna. Paracelso insegnava le sue proprie dottrine indipendentemente dalle opinioni altrui, ottenendo il plauso dei suoi studenti e facendo inorridire i suoi ortodossi colleghi. Il 24 giugno del 1527 bruciò pubblicamente in piazza gli scritti di Galeno e di Avicenna, ripetendo le parole sacramentali: "Così ogni mala cosa si disperda nel fumo!"
La crescente ostilità dei medici accademici e una lite giudiziaria costrinsero Paracelso, nel febbraio del 1528, ad abbandonare Basilea. Paracelso riprese la sua vita randagia vagabondando per il paese, come aveva fatto in gioventù, vivendo in villaggi, taverne e osterie. Numerosi discepoli lo seguirono, attratti dal desiderio di sapere o dalla brama di acquistare la sua arte e valersene a proprio profitto. Il più noto dei suoi seguaci fu Johannes Oporinus, che per tre anni lo servì come segretario e che poi divenne professore di greco, scrittore conosciuto, libraio e stampatore a Basilea. Paracelso era decisamente reticente nel confidare i suoi segreti, anche con i propri discepoli. Oporinus, dopo aver abbandonato il proprio maestro, parlò duramente di lui, schierandosi con i suoi nemici. Ma dopo la morte di Paracelso, egli si rammaricò della propria indiscrezione ed espresse grande venerazione per lui.
Paracelso fu a Colmar nel 1528, e a Esslingen e a Norimberga tra 1529 e il 1530. I "medici regolari" di Norimberga lo denunciarono come ciarlatano e impostore. Per confutare le loro accuse egli chiese al Consiglio Cittadino di affidargli la cura di alcuni pazienti che erano stati dichiarati incurabili. I successi ottenuti da Paracelso non mutarono la sua fortuna, ma accrebbero le ostilità degli accademici condannandolo a nuovi e continui vagabondaggi. Morì il 24 settembre 1541, all'età di quarantotto anni e tre giorni in una stanzetta della locanda del "Cavallo Bianco" lungo il fiume. Il suo corpo fu sepolto nel cimitero della chiesa di San Sebastiano, conformemente alla sua volontà. Il Principe Arcivescovo ordinò due solenni funerali. Sulla tomba fu eretta una piramide, al centro della quale fu posto il suo ritratto. Grava ancora un mistero sulla sua morte: molti biografi sostengano che egli morì di morte violenta, dovutaa veleno o a ferite. Nulla avvalora però questa tesi. Il cranio di Paracelso fu ripetutamente esaminato: esso presentava in realtà una frattura lungo l'osso temporale, ma non ci sono prove che facciano supporre che tale ferita glisia stata inferta in vita.
Paracelso non ebbe pace nemmeno nella tomba: fu dissepolto innumerevoli volte (sette spostamenti delle spoglie sono documentati) e le sue ossa furono scompigliate e trafugate.







Tommaso Campanella (1568 - 1639)

Nato a Stilo, in Calabria, nel 1568, Tommaso Campanella entrò nell'ordine dei domenicani quando era ancora molto giovane, ma, a causa delle sue idee in fatto di religione, si ritrovò ben presto nel mirino degli inquisitori, dai quali fu accusato di eresia e rinchiuso in carcere a Roma, nello stesso periodo di Giordano Bruno.
Nel 1599 tornò in Calabria, dove tentò di organizzare un'insurrezione contro il dominio spagnolo e di gettare le basi per una profonda riforma religiosa. Anche in questa occasione fu arrestato e condannato, ma riuscì a salvarsi dalle torture fingendosi pazzo. Il suo presunto stato mentale non poté, però evitargli il carcere: rimase rinchiuso per 27 anni, durante i quali trovò la forza per continuare a scrivere, specialmente di filosofia. Fu proprio durante la prigionia che compose un'opera dedicata a Galileo, del quale apprezzava incondizionatamente (e pericolosamente) il lavoro ed il pensiero.
Nel 1626 riacquistò una parziale libertà: uscì dal carcere ma rimase a Roma, sotto il controllo del Sant'Uffizio. Grazie alla benevolenza di papa Urbano VIII, anche questo vincolo venne in seguito eliminato ma, nel 1633, Campanella venne nuovamente accusato di eresia e di propaganda antispagnola, così, prima che la situazione precipitasse, decise di rifugiarsi a Parigi, sotto la protezione di Richelieu, e di dedicarsi alla pubblicazione dei suoi scritti. Morì nella capitale francese nel 1639. Insieme con Giordano Bruno e Bernardino Telesio, Tommaso Campanella fu uno dei principali anticipatori di alcuni importanti argomenti della filosofia moderna e il suo pensiero testimoniò di questo passaggio tra Medioevo e modernità oscillando tra la trascendenza tradizionale del cattolicesimo e l'immanentismo del naturalismo rinascimentale.

martedì 25 marzo 2008

Novara

Novara divenne municipium con Giulio Cesare e fu in epoca imperiale uno dei comuni più fiorenti dell’Italia settentrionale.
A questo periodo risalgono i numerosi reperti collocati presso i Musei Civici ed il Museo Lapidario, come pure le tracce della cinta muraria, ascrivibili al I sec. a. C., ancora conservate nella maglia urbana attuale, come quelle visibili in piazza Cavour. Le mura sono realizzate ad opus mixtum con ciottoli fluviali interi legati tra loro con malta alternati a basse fasce orizzontali di mattoni, secondo un modello costruttivo molto comune a quel tempo nell’Italia settentrionale.

La Basilica di San Gaudenzio e la Cupola Antonelliana
Il progetto della basilica novarese fu affidato all’architetto Pellegrino Pellegrini, detto il Tibaldi; i lavori ebbero inizio nel 1577, e furono completati nel 1659. All’interno, nello scurolo di Francesco Castelli, è custodito il corpo di S. Gaudenzio, patrono della città, mentre nella cappella della Natività è conservato un famoso polittico di Gaudenzio Ferrari (1516 ca.). All’esterno sorgono il campanile settecentesco di Benedetto Alfieri e la cupola di Alessandro Antonelli (1844 - 88), su cui svetta dal 1878 la statua del Salvatore, opera dello scultore Pietro Zucchi.
La Chiesa di San Marco (1607 – 1614)
L’ edificio fu costruito su progetto di Lorenzo Binaghi per i Padri Barnabiti nel luogo dove già sorgeva la chiesetta di San Marco. Fu il Vescovo Bascapè a porre la prima pietra nel 1607. La Chiesa è costituita da un’unica navata, sulla quale si aprono sei cappelle laterali, con cupola a base rettangolare. All’interno numerose opere dei secoli XVII e XVIII. Degni di particolare attenzione, per la raffinatezza d’intaglio e per la complessità compositiva, sono i confessionali ed il pulpito.

Il Broletto e il Museo Civico Novarese
Il complesso del Broletto è costituito da quattro edifici sorti in epoche diverse che propongono elementi architettonici, decorativi ed artistici disomogenei tra loro. Trovano qui sede il Palazzo dell’Arengo del XIII sec., il Palazzo del Podestà (fine XIV.– inizio del XV sec.), il Palazzetto dei Paratici (XIII sec.) con l’antistante loggetta settecentesca, ed infine il Palazzo della Referendaria (fine XIV-inizio XV sec.). Attualmente all’interno del Broletto sono conservate del Museo Novarese la sezione archeologica, con reperti locali, e la sezione storico-artistica, con opere che vanno dal Medioevo all’Ottocento.

Le Mura romane
Novara divenne municipium con Giulio Cesare e fu in epoca imperiale uno dei comuni più fiorenti dell’Italia settentrionale. A questo periodo risalgono i numerosi reperti collocati presso i Musei Civici ed il Museo Lapidario, come pure le tracce della cinta muraria, ascrivibili al I sec. a. C., ancora conservate nella maglia urbana attuale, come quelle visibili in piazza Cavour. Le mura sono realizzate ad opus mixtum con ciottoli fluviali interi legati tra loro con malta alternati a basse fasce orizzontali di mattoni, secondo un modello costruttivo molto comune a quel tempo nell’Italia settentrionale.

Il Duomo Neoclassico e la Cappella di San Siro
L’attuale struttura del Duomo risale alla seconda metà dell’Ottocento, costruita in stile neoclassico su progetto di Alessandro Antonelli. La parte più antica, e la sola che si è conservata del precedente Duomo romanico, è il pavimento a mosaico del presbiterio. Decora la navata centrale una serie di nove arazzi fiamminghi intessuti intorno al 1565 che narrano gli episodi della vita di Salomone.
Fra i dipinti ricordiamo le opere di Bernardino Lanino e Lo sposalizio mistico di S. Caterina di Gaudenzio Ferrari. Attigua alla sacrestia si trova la Cappella di San Siro, edificata nella seconda metà del XII sec. come oratorio privato del vescovo. Sulle tre pareti dell’aula sono raffigurate scene della vita di S. Siro e sulla volta il Cristo in Maestà, entrambi del XII sec.; sulla parete ad est si trova una Crocifissione dei primi del XIV sec
La Canonica
Il chiostro della Canonica raccoglie alcune epigrafi, lapidi, are e sarcofagi di grande interesse archeologico. Tra i reperti di maggiore interesse, segnaliamo la stele di Appia Faventina (I sec. d.C.), l’iscrizione celtica (metà II sec. a.C.) ed il Rilievo della Nave, bassorilievo in marmo murato in parete alla XXV arcata del chiostro.

Il Battistero
L’edificio paleocristiano, che sorge di fronte al Duomo, risale al IV-V sec. d.C. ed è il monumento più antico della città. All’interno del battistero, a base ottagonale, si alternano cappelle rettangolari e semicircolari; sono visibili antichi affreschi che illustrano scene dell’Apocalisse (sec. XI) e del Giudizio Universale (sec. XV).

Il Teatro CocciaIl teatro, inaugurato nel 1888, sorge nella zona dove già esisteva un teatro più antico, ma non ritenuto idoneo in relazione alle mutate esigenze della città. La facciata principale presenta aperture e paraste, ed i lati est, sud e ovest sviluppano un ampio portico architravato retto da colonne in granito. Internamente la sala è a ferro di cavallo, a quattro ordini che si concludono con la galleria. I palchi sono sorretti da colonnine in ghisa e sono decorati da cigni dorati. Questo monumento testimonia la grande tradizione musicale, vanto della città di Novara.

Il Castello Visconteo – Sforzesco
Nel 1357, durante il dominio di Galeazzo Visconti, fu eretto il castello sull’area dove già sorgeva una precedente fortificazione duecentesca. Ma è a partire dal 1472, con un radicale intervento di restauro, che il castello ebbe una ristrutturazione integrale per opera dell’architetto Bartolomeo Gadio, arrivando così all’aspetto definitivo austero e massiccio che tuttora conserva

mercoledì 12 marzo 2008

Mille miglia... lontano di Zhang Yimou

Mercoledì 12 marzo 2008, presso il Cinema Massimo - Sala Uno (via Verdi, 18 - Torino)
Proiezione del film Mille miglia... lontano di Zhang Yimou
Per informazioni: Centro Interculturale della Città di Torino corso Taranto, 160 Tel. 011/44.29710/29702
Orario proiezioni scuole: 9.30- 15-17.30-20
Orario proiezione pubblico: 17.30-22.30
Ingresso libero

martedì 11 marzo 2008

Dal caldo al gelo: così è impazzito il Monte Bianco

Cosa succede al Monte Bianco? Il 23 febbraio, nel cuore dell´inverno, a 3.500 m di quota la temperatura è salita fino a 8 gradi centigradi e valori ben sopra lo zero sono stati registrati per circa una settimana. In questi ultimi giorni, invece, all´approssimarsi della primavera, le temperature sono piombate fino a 23 gradi sottozero. E intanto i ghiacciai che fanno da corona al massiccio, si ritirano a una notevole velocità.

Secondo gli ultimi dati, che verranno resi noti nei prossimi giorni, quasi il 45% del ghiaccio è scomparso. Ma mentre tutto questo avviene al di sotto dei 4.000 m., al di sopra, si confermano i dati raccolti alcuni mesi or sono secondo i quali la calotta sommitale è aumentata di due metri di spessore e si è avuto un incremento della massa glaciale oltre i 4.000 metri, di circa 10.000 metri cubi in soli due anni. La montagna sembra avere un comportamento isterico.

I dati sulle temperature raccolti dalla stazione meteorologica "Aws-Gigante-Osram", impiantata sul Ghiacciaio del Gigante da ricercatori dell´Università di Milano a 3.450 metri, dimostrano un comportamento del tutto anomalo dell´energia solare che arriva sul ghiacciaio. Spiega Guglielmina Diolaiuti, responsabile della stazione del Monte Bianco: «Il ghiacciaio ha assorbito, in quest´inverno, il 31% dell´energia solare in arrivo. È un valore tipico delle stagioni aride. La neve è vecchia, scura, riflette meno la luce che invece assorbe, favorendo la fusione. È una situazione che concorre a deteriorare il manto nevoso e può mettere in crisi il ghiacciaio nel periodo estivo: se il ghiacciaio "si mangia" buona parte dell´accumulo di neve già in inverno, arriva in estate meno preparato al caldo e va incontro a perdite onerose». A conferma di ciò vi è il comportamento registrato negli ultimi decenni di alcuni ghiacciai del gruppo montuoso.

Il ghiacciaio della Lex Blanche, ad esempio, ha visto affiorare un gradino roccioso di 40-50 metri di altezza in seguito all´arretramento della lingua di ghiaccio principale. È l´apice di un andamento iniziato attorno al 1850. Perché fino alla fine del 1700, quando iniziarono le prime ascensioni al Monte Bianco, i ghiacciai della valle di Chamonix erano ben diversi da quelli di oggi. La Mer de Glace occupava la pianura dell´Arve, il ghiacciaio dei Bossons e l´Argentiere erano gonfi di ghiaccio. Oggi di tutto ciò non rimane nulla.

A tutto questo fa da contraltare l´aumento della calotta sommitale del Monte Bianco. Quel che sembra un paradosso lo spiega Yan Giezendanner, meteorologo di Chamonix: «Negli ultimi anni la montagna è stata raggiunta da perturbazioni oceaniche più intense. Oltre i 4.000 metri le precipitazioni sono state nevose, causando un aumento del volume di ghiaccio in quota».

Un segno di speranza? Spiega Claudio Smiraglia, glaciologo dell´università di Milano, responsabile delle ricerche sulle Alpi: «Il trend negativo di questi anni è assodato, ma qualche spiraglio c´è. Molti ghiacciai mettono in atto una "autoprotezione": la riduzione del ghiaccio lascia una copertura detritica che quando supera i 30 cm protegge il ghiaccio dai raggi solari abbattendo la diminuzione anche del 70%».

Anche sul ghiacciaio del Dosdé a 2.740 metri, tenuto in quest´ultimo periodo sotto osservazione, la stazione "Levissima" (in Valtellina) registra dati di forti escursioni termiche anomale. Un caso di "follia climatica" come sul Monte Bianco. Sottolinea Smiraglia: «Sul Dosdè il ghiaccio ha assorbito anche il 58% dell´energia solare in arrivo e questo spiega l´assottigliamento di ghiaccio di oltre un metro misurato l´anno scorso». Si può fare qualcosa per aiutare i ghiacciai alpini? «Si può agire in due modi. Da un lato riducendo l´effetto serra, dall´altro proteggendoli con teli, come lo scorso anno in Svizzera». Un primo test verrà eseguito nei prossimi mesi anche sul ghiacciaio del Dosdè, dove verranno coperti 100 metri quadrati.
di LUIGI BIGNAMI La Repubblica (11 marzo 2008)

IL REGNO DELLA NEVE di Giorgio Bocca

Per millenni il monte anonimo, poi il Mont Maudit, inaccessibile e maledetto, il pilone di granito che chiude la Val d'Aosta e domina la catena alpina, visibile dalla lontana Ginevra: un pan di zucchero lontano che galleggia nell'azzurro del cielo. Per millenni né Italia, né Francia, né Savoia, troppo alto, troppo grande per appartenere a uno Stato o a un municipio.

Gli abitanti delle valli che lo circondano lo chiamavano Harp, che vuol dire "alta montagna", di cui abbiamo avuto notizia quando sui roccioni che dominavano Courmayeur apparvero in vernice bianca delle grandi "H" scritte dai separatisti. Le patrie che circondano il gigante finiscono sui ghiacciai sopra i quattromila metri, più in alto, si sono avventurati per secoli solo i raccoglitori di cristallo come Balmat, il primo scalatore della montagna.

Sopra i quattromila gli antichi non si avventuravano, agli antichi le altitudini non interessavano, le lasciavano ai camosci e alle marmotte, ecco perché sulle carte le disegnavano tutte uguali: a denti di sega senza nome.

Sopra i tremila niente è cambiato in questi secoli. La linea dei boschi è rimasta stabile, i ghiacciai camminano un po' su e un po' giù. Sono invece in mutamento continuo gli uomini, gli animali, le macchine, le case. Non ci sono più i gamberi di fiume nella Dora, i ranocchi nelle acque ferme del marais in Val Veny, i ballatoi di legno, i mulini ad acqua, gli spartineve trainati dai cavalli, le file dei muli che salivano i valichi, le slitte per le corvée, quando di neve ne veniva giù cinque o sei metri.

A Courmayeur, sotto il Bianco, si coltivava tra i turisti una necrofilia alpina: l'elenco di tutti i morti da slavina o da valanga. Si ripercorreva con zelo il loro ultimo cammino, riponendoci le domande inutili sulle sciagure avvenute. Perché avessero perso l'equilibrio in un passaggio facile, come Gervasutti, il grande alpinista chiamato il Fortissimo, in una elementare corda doppia. Nel regno del bianco c'era un altro svago canonico: riconoscere, ricordare, tutti i nome delle vette, o aiguilles, o denti, o picchi, o vedrette o combe, o laghi come corredo di favole e leggende. "E voi montagne ci guardate, ci guardate, ma non siete mai cadute".

Che ha voluto dire Elias Canetti? Che fra noi uomini e loro montagne c'è un rapporto impari, metafisico, le nostre mode contro la loro immobilità, le nostre passioni contro la loro indifferenza. Noi, che per secoli le abbiamo ignorate, improvvisamente abbiamo rivolto loro un'attenzione morbosa.

Ho intervistato scalatori famosi, ancor presi dalla montagna come una donna bellissima e assassina. La conquista del Monte Bianco è un compendio della cultura romantica dell'Europa felix prima delle guerre mondiali. Il gigante come un miraggio cui si davano mutevoli nomi: Alpis Albus, Saxus Albus, Malé, Maudit, e si immaginava che lassù, dietro la vetta, ci fosse un gigantesco serbatoio di neve da cui scendevano le lingue di ghiaccio. Arrivò per primo in vetta Balmat, con un medico di Chamonix, e poi fu la volta dello scienziato ginevrino De Saussure, che restò per tre ore sulla vetta coi suoi strumenti scientifici, e poi fu il turno di una donna, Henriette d'Angeville, che aveva per motto "vouloir c'est pouvoir".

Meno romantica la scalata di un'altra donna, Marie Paradis, una valligiana portata su di peso dalle guide di Chamonix, per fare reclame sui giornali. C'è stata anche la Courmayeur degli antifascisti, le amate montagne che gli antifascisti torinesi vedevano in fondo ai corsi alberati e diritti delle loro città. Amate perché sicure per le loro amicizie e per i loro discorsi, perché il fascismo era degli aviatori, dei bersaglieri e non degli alpini.

La Repubblica (11 marzo 2008)

lunedì 3 marzo 2008

L'ultima notte di Giordano Bruno

TEATRO AGNELLI
via Paolo Sarpi 111 – Torino
26, 27, 28 marzo 2008 -
ore 21.00
Assemblea Teatro
Presenta
L’ULTIMA NOTTEDI GIORDANO BRUNO










domenica 2 marzo 2008

BASILICA DI SANT'ANDREA (XIII secolo) VERCELLI



Storia

I lavori di costruzione erano cominciati all'inizio del 1219, ordinati e finanziati dal Cardinale Guala Bicheri, Legato Pontificio, appena tornato dall'Inghilterra ove aveva fama di essere il " salvatore di Enrico III e della Magna Charta".
In riconoscimento dei suoi alti servigi, il re Enrico III aveva donato al Cardinale l'Abbazia di S. Andrea di Chesterton, vicina a Cambridge, e il Cardinale , con le rendite di essa, inizio' a Vercelli la costruzione della nuova chiesa e del suo monastero. Passando da Parigi, egli aveva preso e condotto con sé i Canonici Sanvittorini perché dirigessero i lavori di costruzione della Basilica, alla quale egli stesso, con il Vescovo Ugone da Sessa, pose le fondamenta.

Nel 1224, il Cardinale Guala Bicheri, dimorando forse per l'ultima volta in città alla preseenza dell' Arcivescovo di Milano e del Vescovo di Vercelli, diede stabile ordinamento alla nuova casa della corporazione religiosa dei Sanvittorini e realizzo' un disegno con la costruzione della chiesa, consacrata insieme al Monastero di Sant' Andrea e all' Ospedale omonimo. Pero' la splendida Basilica non ebbe l'ultimo compimento che nel 1227, quando in Cardinale morì.

L'importanza della Basilica di Sant'Andrea nella storia dell'arte italiana deriva dal fatto che essa è una delle prime costruzioni in Italia in cui compaiono gli elementi dell'arte gotica. Durante i lunghi secoli delle invasioni barbariche non era tuttavia morta la grande arte costruttiva romana. Essa si era tramandata attraverso le maestranze dei paesi presso i laghi lombardi, le quali vennero piu' tardi chiamate con il nome generico di "Maestri Comencini" . Ad essi è dovuto quel primo rinascimento dell'architettura, ligio ai canoni dell'arte antica, che fu dagli operai esportato e diffuso in Europa e che si chiama Arte Romanica.

Da questa arte derivo' nel secolo XII in Francia una nuova architettura da noi impropriamente chiamata " gotica" , la quale ai muri massicci e all' arco tondo sostituì dei robusti pilastri, tra i quali con dinamico gioco di spinte e controspinte e di archi acuti contrastanti, si elevarono sempre piu' alte le costruzioni sacre e profane. I maggiori propagatori della nuova architettura furono i grandi ordini religiosi, soprattutto i Cistercensi, che nel corso del XII secolo costruirono prima i grandi monasteri e le loro chiese in Francia, poi valicarono i confini e introdussero la nuova arte all'estero. In Italia l'arte gotica compare per la prima voltanell'Abbazia di Fossanova poi in quella di Casamari poi in quella di Sant'Andrea in Vercelli.

Non si conosce con esattezza il nome dell'architetto dell'Abbazia di Sant'Andrea. Se si considera che le piante della basilica e del monastero riproducono esattamente la pianta delle costruzioni cistercesnsi si puo' supporre che egli fu probabilmente un monaco, forse il primo abate del monastero, Tommaso Gallo. Infatti i primi monaci Sanvittorini furono da Parigi condotti a Vercelli verso il 1216 dal Cardinale Guala Bicheri, reduce da una lunga residenza in Francia e Inghilterra come legato pontificio, e ne riportava in patria ingenti ricchezze. Nacquero allora l'idea e il disegno della chiesa e del monastero.

Caratteristica nell'architettura del Sant'Andrea è la presenza di elementi romanici e gotici, il che indusse alcuni criticia pensare che gli elementi gotici derivassero dal disegno originale dell'architetto e gli elementi romanici fossero dovuti alle maestranze locali. Ma l'insieme è tanto armonico el'inserirsi di stili diversi avviene con tanta eleganza che è impossibile non pensare ad un'unica mente creatrice.

Nel corso dei secoli due importanti gruppi di lavoro mutarono in qualche parte l'aspetto della Basilica:
il campanile sul principio del secolo XV;
il rifacimento del chiostro poco piu' di 100 anni dopo.
Originariamente, la cella campanaria era situata nella torre ottagona che si innalza sopra il tiburio, ma probabilmente alcune crepe nel tiburio stesso indussero il Cardinale Del Verme a costruire, sul modello ingrandito dei campanili della facciata, un nuovo campanile prossimo, ma staccato e un po' obliquo rispetto al braccio Sud del transetto della chiesa. Il portico originario del chiostro era molto diverso dall'attuale:le colonnine, a gruppi di quattro sono antiche, ma su di esse si appoggiava probabilmente un tetto a un solo spiovento, le cui grandi capriate di legno servivano come decorazione.

Verso il 1464 ai Sanvittorini si sostituirono i Canonici Regolari Lateranensi. Con loro si rinnovò il chiostro:alle vecchie capriate di legno si sostituì un sistema di volte a pieno centro appoggiato verso il cortile sulle antiche colonnine e verso i fabbricati incastrato nei muri. Il tutto fu decorato in cotto. Il tetto venne rialzato, tanto che ne furono otturate le finestre tonde della navata sinistra della chiesa e fu annullato il bellissimo portale dal chiostro alla chiesa.

Un recente restauro riaperse il portale d'ingresso dal chiostro alla basilica con la bellissima pila dell'acqua santa, scolpita nel marmo e rese visibili alcuni dettagli dell'antica costruzione.

Architettura
Il corpo della chiesa è ripartito in tre navate longitudinali; la navata centrale maggiore è uguale in larghezza e in altezza alla navata trasversa o transetto; le navate laterali o minori hanno una larghezza alquanto superiore alla metà della navata centrale. Questa e le navate minori sono divise in sei campate, così che per le tre navate risultano 18 campate coperte da volte gotiche a crociera a costoloni. La navata trasversale è a cinque campate; la centrale è in corrispondenza con la navata maggiore, che si prolunga sino all'abside.

All'incrocio di questa con il transetto si alza il tiburio a base medievale ottagonale, su cui si erge una torre campanaria pure ottogonale a due piani, sormontata come le altre torri da una cuspide piramidale di mattoni, foggiati nell'estremità esterna ad unghia di cavallo. Questa torre-cupola è costruzione tipica dei monasteri benedettini e cistercensi.

Caratteristici pure di questa basilica sono i piloni a fasce, con maschio rotondo, attorniato di colonnine di pietra di vario diametro, in corrispondenza degli archi e costoloni sovrapposti ai capitelli.
Quattro gugliette quadrate attorniano le cuspidi delle torri laterali , che si slanciano leggere. Sulla cuspide di sinistra svetta il gallo simbolo della vigilanza, su quella di destra spicca la croce detta di Sant'Andrea.

L'abside a pianta rettangolare è tipica delle chiese cistercensi, mentre le cuspidi della torre-cupola e dei campanili della facciata rispecchiano le consuetudini delle Chiese della Valle del Po.

Esterno
La facciata, pregevole anche per l'equilibrio crmatico, fonde motivi lombardo-emiliani (tetto a capanna, portali a tutto sesto, cornici marcapiano, apertura delle torri laterali, doppio ordine di loggette) con elementi provenzali e normanni (profonda strombatura dei portali, torri laterali e loro cuspidi, capitelli a crochet).
Tutta la facciata e buona parte delle fronti delle torri è costituita da pietra di colore verde-grigio proveniente da Pralungo, località sita tra Biella e Oropa, e da Oria sul lago d'Orta. La stessa pietra è presente con frequenza in altre parti della fabbrica. Tuttavia il materiale piu' abbondantemente impiegato è il laterizio, costituito da mattoni di dimensioni particolari e foggiati con argilla, probabilmente estratta dai luoghi prossimi al cantiere, poichè il terreno, oggi a risaia, che circonda la città di Vercalli è per un discreto spessore, adatto alla fabbricazione di mattoni. Relativamente alla calce usata è quasi certo che provennisse dal territorio di Sostegno. Altra pietra impiegata nel complesso abbaziale è la biona calcarenite del Monferrato.
Nella lunetta del portale centrale, attribuita a Benedetto Antelami, è rappresentato il martirio dell'apostolo Andrea. Il bassorilievo della lunetta era vivacemente e realisticamente colorato:una chiara traccia azzurra si distingue ancora sotto l'abito di Egea, vicino allo scanno sul quale siede. Il santo è rappresentato al centro legato ad una croce di rozza fattura; a destra due sgherri si apprestano a torturarlo nella loro convinta violenza, comandati dal proconsole romano Egea il cui gesto è misurato e raccolto. Il santo volge lo sguardo verso i tre fedeli che si avvicinano in atteggiamento dolente, ma senza esagerazione di dolore; una donna velata precede un vecchio che si rivolge pacato ad un giovane. Lo scultore medievale ha modellato il santo come figura di Cristo, protettore possente che vince l'ingiustizia di una morte violenta e trionfa in cielo.
Inoltre alla dignità delle figure dei credenti che si muovono quasi ieratici, si contrappone la linea piu' dinamica dei torturatori e del proconsole le cui teste formano un triangolo ideale. La orizzontalità delle braccia in croce del santo è contrastata in senso trasversale dai gesti del proconsole e dell'aguzzino che sta legando il braccio sinistro di Sant'Andrea alla croce. Nell'architrave sotto la lunetta è incisa l'iscrizione latina esplicativa:" Predica Andrea paziente. La plebe crede. Egea che ricusa di credere cade nelle insidie del demonio. Una devota e non poco pia donna compone nel sepolcro il corpo dell'apostolo" . In alto al centro della decorazione a motivi vegetali che circonda piacevolmente la lunetta è rappresentata la figura simbolizzante l'anima del santo portata in cielo da un angelo.
Le altre due lunette sono inferiori per fattura. In quella a sinistra è raffigurato il cardinale Guala Bicchieri mentre offre la chiesa a Sant'Andrea in trono; purtroppo un restauro ottocentesco na sostituì le teste. In quella di destra vi è una raggiera di colonnine con archi trilobi, non originale, ed inserita piu' tardi come si osserva dal mancato adattamento di un arco ogivale in un arco a tutto sesto.

Interno
A dar luce all'interno, oltre i magnifici rosoni, concorrono nella navata laterale sinistra delle aperture di forma circolare. La pianta della chiesa è a croce latina e le tre navate longitudinali sono separate da pilastri fasciati da otto esili colonnine, di grande linearità e slancio, che sorreggono altre colonne funzionanti come base agli archi trasversali e alle nervature delle volte a crociera. Ogni navata è composta da sei campate e ad ogni campata rettangolare della navata centrale corrisponde una campata quadrata delle navatelle. Il transetto sporgente formato da campate rettangolari è coperto da una volta a cupola, inclusa in un tiburio ottagonale. Sul transetto si aprono quattro cappelle di pianta rettangolare. Oltre il vasto spazio quadrato del capocroce vi è il coro terminante con una impressionante parete rettilinea. Quattro piloni a fascio, di grande solidità , sorreggono la cupola e il carico del tiburio per mezzo di archi robustissimi:le trombe coniche del tiburio portano scolpiti su una mensola i simboli degli Evangelisti, di fattura antelamica. Lo spazio interno della cattedrale raggiunge il culmine nel coro, centro liturgico per eccellenza. In esso sono presenti 24 stalli a pozzetto, oltre alla cattedra centrale. Un grande rosone illumina la parete di fondo dell'abside:tre monofore slanciate a doppia strombatura, inquadrate da arcature sorrette da lunghe colonnine in pietra, accrescono la luminosità dello spazio oltre il capocroce. Degne di particolare attenzione sono le tarsie del corso ciquecentesco dovuto all'intagliatore cremonese Paolo Sacca che vi lavoro' dal 1511 al 1513. Particolarmente interessante è la tarsia nell'angolo destro, raffigurante la facciata del Sant'Andrea nascosta in parte da un muro merlato. Le vetrate, un tempo, dovevano essere colorate ad accrescere suggestione e insegnamento. L'ultima cappella a destra è occupata dal monumento funebre dell'abate Tommaso Gallo, risalente alla prima metà del XIV secolo: nella grande nicchia gotica sopra il sarcofago è affrescata la figura dello stesso abate in cattedra fra i suoi scolari(la tradizione vuole che fra i sei scolari presenti nei due banchi laterali vi sia S. Antonio da Padova, che si riconosce dall'aureola). Nella cuspide che si eleva sull'arcata abbiamo l'incoronazione della Vergine con angeli musicanti, affresco in cui si puo' rilevare una presenza di moduli lombardi. La parte piu' interessante è rappresentata dalle belle figure in altorilievo sul fronte del sarcofago, di uno stile non anteriore alla metà del '300. Al centro vi è la Beata Vergine col Bambino che si slancia verso l'abate Tommaso in ginocchio, presentato da Sant'Andrea. Al lato destro stanno S. Caterina d'Alessandria protettrice degli studi filosofici e Dionigi lo Pseudo-Areopagita rappresentante della teologia mistica, un neo platonico cristiano di cui Tommaso Gallo aveva commentato le opere. Accanto alla cappella dedicata a Tommaso Gallo vi è una cappella rifatta in stile neogotico nel 1844. Oltrepassando il presbiterio si giunge alle cappelle del transetto di sinistra.
La prima cappella che si incontra conserva un crocifisso ligneo generalmente attribuito alla fine del '400, probabilmente opera di artisti valsesiani, mentre la seconda cappella si ammira per la sua monastica severità .
Nella chiesa ci sono altri motivi di grande intensità estetica:diverse sculture nelle chiavi di volta, il motivo ricorrente della rosa, le decorazioni fantastiche alle basi dei pilastri ed i bellissimi rosoni.
Ai lati del transetto si fronteggiano due pesanti confessionali barocchi resi meno pomposi da vivaci putti. Si entra quindi nella sacrestia:al centro spicca un magnifico leggio, che un tempo si trovava nel coro a sorreggere i libri liturgici. E' composito in quanto le facce minori sono rinascimentali mentre intagli barocchi ornano le facce maggiori.
Sulla porta che introduce per una scala a chiocciola al dormitorio dei monaci spicca una graziosa Madonna di fattura gotica.
Dalla sacrestia si passa alla sala capitolare , una tra le piu' belle d'Italia. Quattro colonne centrali con bellissimi capitelli a crochet sorreggono nove raffinate campate, preziose per le nervature in laterizio a vista e con la campitura degli spicchi delle volte intonacate.
In un vano d'altare alla destra di chi entra sono posti due affreschi sovrapposti di scuola gaudenziana. Questa sala fu testimone di grandi eventi storici:qui ad esempio, nel 1310 alla presenza di Arrigo VII di Lussemburgo si concluse la pace efimera tra i Guelfi e i Ghibellini vercellesi.

Chiostro

Tornando verso la chiesa, attraverso un severo portale, si esce nel chiostro:subito alla sinistra si puo' ammirare la nicchia dell'acquasantiera sormontata da un arco trilobo poggiante su due coppie di colonnine, che affiancano la vaschetta rotonda dell'acqua santa, mentre in fondo si staglia la mano benedicente di Dio.
Nella parte settentrionale del chiostro vi è un'interessante mensola scanalata che ricorda le linee ondulate di alcuni capitelli del Battistero parmense.
Il chiostro si presenta rettangolare con arcate a pieno centro rette da colonnine dai capitelli a crochet, che a gruppi di quattro sono riunite su una sola base. Le volte del chiostro risalgono al primo '500 quando l'abate Pettenati riparo' il chiostro maggiore del monastero e lo riporto' all'antica bellezza. Altri elementi cinquecenteschi presenti nel complesso della costruzione, sono le cornici in cotto che ornano e sottolineano le arcate, il grande e raffinato finestrone, pure in cotto, che si presenta sopra il chiostro nel lato orientale dell'abbazia e forse i grandi oculi con interessanti cornici in tufo intagliato a foglie, perline, ovoli nella sopraelevazione dell'antico refettorio.
Di grande bellezza sono il portale che introduce alla sala capitolare e quello vicino alla nicchia dell'acqua santa:la lunetta che spicca su questo portale dalle magnifiche e policrome colonne era un tempo all'ingresso della sala capitolare. Al centro vi è l'agnello simbolo del Cristo attorniato dalle figure di San Giovanni Evangelista e San Giovanni Battista, mentre scende la colomba dello Spirito Santo.
All'angolo nord-est del chiostro stesso è conservato un salone con colonna centrale e un fluente capitello a crochet che regge quattro archi a pieno centro.
Scendendo verso la vera del pozzo si puo' apprezzare una serie di sculture(teste umane e animali) che decorano l'esterno a sottolineare la grazia delle mensole e degli archetti. Sopra i robusti speroni mediani della parete occidentale del transetto sono due busti coronati, Filippo Augusto di Francia ed Enrico III d'Inghilterra, entrambi collegati alla vita del Cardinale Guala Bicheri.
Uscendo all'esterno si ammira in tutta la mole dell'edificio l'alternanza del cotto e della pietra bianca che crea giochi di luce:prevale la serrata cortina di mattoni rossi alla base e nello stacco del tiburio, ma le loggette, i riquadri, le bifore, le trifore, il rosone del fronte posteriore contrastano efficacemente creando una sinfonia di due colori molto netti, rosso scuro e bianco, di notevole effetto.

Ospedale
Voltando le spalle alla Basilica, un poco a sinistra, si vede un portico con archi ogivali:appartiene al primo antico nucleo dell'Ospedale di Sant'Andrea, che viene segnalato tra le prime fondazioni ospedaliere italiane. La sua organizzazione si impose così rapidamente che già sul finire del XIV secolo inglobo' altri ospedali della città , assumendo il titolo di Ospedale Maggiore di Sant'Andrea che è rimasto fino ai giorni nostri.

Questa istituzione sorse sempre per la lungimiranza del Cardinale Guala Bicheri, che volle, accanto all'Abbazia, un luogo adatto ad accogliere i pellegrini transitanti in Vercelli. Infatti la destinazione iniziale fu dell' "ospitale", ossia dell'edificio che ospita; solo succesivamente (1246) sitrasformo' in "Ospedale" con il significato proprio del termine.

La fondazione risale al 1223. A tale epoca risale la parete nella quale si apre l'ingresso sormontato da una lunetta dipinta. In seguito si aggiunse il portico a sette arcate, ma coperto da capriate in vista con spiovente verso la via, e si costruirono le volte a crociera costolonate, rette da pilastri, dell'ampio ambiente interno. Le volte in muratura del portico furono edificate ancor piu' tardi(XVII) quando si aggiunse il soprastante piano.

Uno dei pochi esempi di pittura piemontese del XIII secolo è la lunetta posta sulla porta d'ingresso:secondo uno schema abituale della pittura romanica rapresenta Cristo in maestà , con a destra un santo di non sicura identificazione, e a sinistra, quasi sicuramente, Sant'Andrea che presenta il Cardinale Guala Bicheri a Cristo. Il Cardinale in ginocchio porge, con timido gesto, il modello di un edificio allusivo alla costruzione dell' " Ospedale" che cristianamente svolgeva una funzione caritativa, e quindi degna di essere offerta a Dio. L'affresco, per il tema trattato è da mettere in relazione con la lunetta di sinistra della Basilica. Nella parte inferiore, soprattutto a destra, si osservano le tracce di un altro affresco che, essendo dipinto sotto al primo, è piu' antico, anche se non di molto, e potrebbe estendersi per tutto il campo della lunetta.

Sull'architrave sottostante un'epigrafe ricordava i punti fondamentali dell'azione del Cardinale:le missioni a Parigi e in Inghilterra, la sua dottrina, ed infine la costruzione del Sant'Andrea e la scelta di Tommaso Gallo come primo abate.

Dalla porta corrispondente all'accesso al porticato si entra in un'ampia sala di forma rettangolare, longitudinalmente divisa in tre navi scandite ognuna in cinque campate. Le volte, di lineare e chiara forma tardogotiga, sono costolonate e si impostano su pilastri cruciformi che accolgono tutte le nervature strutturali.

Le chiavi degli archi che si intersecano sono scolpiti con motivi decorativi, simbolici, araldici o con figure di santi. Tra i tanti sono facilmente identificabili Sant'Andrea, Santa Cecilia, San Bernardino da Siena, Santa Caterina d'Alessandria; tutti modellati con piani ampi e morbidi, e con una certa ricerca di idealizzante bellezza nei volti che raggiunge un'alta espressione in quella di una santa che regge con una mano una teca e con l'altra un libro. Tali decorazioni plastiche risalgono agli inizi del XV secolo. In due chiavi è ripetuto uno stemma fasciato in un certo numero di pezze che potebbe rierirsi a quello degli Avogadro.

Sulla parete di fondo, alla sinistra dell'ingresso, è affrescato Cristo in croce con ai lati la Vergine e San Giovanni. La volta soprastante la Crocifissione reca sulle quattro vele le immagini degli Evangelisti.

Sulla parete immediatamente a destra della porta dalla quale si entra affiora un frammento di affresco, risalente alla metà del XV secolo, in cui si riconosce un santo vescovo benedicente, testimonianza di come le pareti della sala fossero, tutte o in parte, ricoperte da una decorazione pittorica.

Le lunette che decorano le pareti sono occupate da grandi tele secentesche, riproducenti fatti della vita di Cristo, racchiuse da cornici lignee del XVII secolo egregiamente intagliate e ricoperte da dorature.

Nella parte opposta all' affresco della Crocifissione si possono osservare due cantorie barocche, purtroppo prive di pannelli dipinti, che con graziosi putti musicaanti ingentilivano il complesso lavoro d'intaglio.

Subito a sinistra del portico gotico si nota la facciata a tre arcate di una costruzione demolita nella parte retrostante. E' quanto resta delle due corsie terminali del vecchio ospedale, che si disponevano a forma di croce. Queste corsie erano assai ampie:9 metri di larghezza e 15 di altezza per un'estensione, la maggiore, di 124 metri.

La facciata conclusa nel 1586, come ricorda la targa murata a sinistra sulla parete di fondo del pronao, è costituita da due parti:quella inferiore con tre arcate a sesto ribassato che introducono alla scala di accesso, e la parte superiore, spartita da quattro lesene di ordine composito tra le quali si inseriscono una finestra serliana e due nicchie. La composizione architettonica, semplice e ben equilibrta, si conclude in alto con un frontone triangolare.

Alla destra del portico gotico si dispone un'altra parte di quello che fu il vecchio ospedale, costruita tra il 1867 e il 1868 su progetto dell'ingegnere Ettore Tartara, ricordato qui per il bassorilievo situato nel timpano del frontone che si affaccia su Piazza Roma e per i 26 medaglioni che ne costituiscono la decorazione del fregio:opere tutte dello scultore ottocentesco Ercole Villa. Il bassorilievo del timpano svolge l'allegoria del conforto dato dalla scienza medica e dalle premurose cure; i medaglioni ritraggono illustri medici del mondo antico e moderno.

Sull'area occupata da questo settore del vecchio nosocomio fiorì, tra la seconda metà del '700 e la prima metà dell' '800, un Orto botanico per soddisfare le nacessità ospedaliere e didattiche collegate all'istituzione.