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mentono sapendo di mentine

lunedì 29 giugno 2009

"Perché trattate così bene Berlusconi?" Don Farinella scrive al cardinal Bagnasco

Da Repubblica su segnalazione di Walter

Questa lettera, scritta da don Paolo Farinella, prete e biblista della diocesi di Genova al suo vescovo e cardinale Angelo Bagnasco, è stata inviata qualche settimana fa e circola da giorni su internet. Riguarda la vicenda Berlusconi, vista con gli occhi di un sacerdote. Alla luce degli ultimi fatti e della presa di posizione di Famiglia Cristiana che ha chiesto alla Chiesa di parlare, i suoi contenuti diventano attualissimi.

Egregio sig. Cardinale,

viviamo nella stessa città e apparteniamo alla stessa Chiesa: lei vescovo, io prete. Lei è anche capo dei vescovi italiani, dividendosi al 50% tra Genova e Roma. A Genova si dice che lei è poco presente alla vita della diocesi e probabilmente a Roma diranno lo stesso in senso inverso. E' il destino dei commessi viaggiatori e dei cardinali a percentuale. Con questo documento pubblico, mi rivolgo al 50% del cardinale che fa il Presidente della Cei, ma anche al 50% del cardinale che fa il vescovo di Genova perché le scelte del primo interessano per caduta diretta il popolo della sua città.

Ho letto la sua prolusione alla 59a assemblea generale della Cei (24-29 maggio 2009) e anche la sua conferenza stampa del 29 maggio 2009. Mi ha colpito la delicatezza, quasi il fastidio con cui ha trattato - o meglio non ha trattato - la questione morale (o immorale?) che investe il nostro Paese a causa dei comportamenti del presidente del consiglio, ormai dimostrati in modo inequivocabile: frequentazione abituale di minorenni, spergiuro sui figli, uso della falsità come strumento di governo, pianificazione della bugia sui mass media sotto controllo, calunnia come lotta politica.

Lei e il segretario della Cei avete stemperato le parole fino a diluirle in brodino bevibile anche dalle novizie di un convento. Eppure le accuse sono gravi e le fonti certe: la moglie accusa pubblicamente il marito presidente del consiglio di "frequentare minorenni", dichiara che deve essere trattato "come un malato", lo descrive come il "drago al quale vanno offerte vergini in sacrificio". Le interviste pubblicate da un solo (sic!) quotidiano italiano nel deserto dell'omertà di tutti gli altri e da quasi tutta la stampa estera, hanno confermato, oltre ogni dubbio, che il presidente del consiglio ha mentito spudoratamente alla Nazione e continua a mentire sui suoi processi giudiziari, sull'inazione del suo governo. Una sentenza di tribunale di 1° grado ha certificato che egli è corruttore di testimoni chiamati in giudizio e usa la bugia come strumento ordinario di vita e di governo. Eppure si fa vanto della morale cattolica: Dio, Patria, Famiglia. In una tv compiacente ha trasformato in suo privato in un affaire pubblico per utilizzarlo a scopi elettorali, senza alcun ritegno etico e istituzionale.

Lei, sig. Cardinale, presenta il magistero dei vescovi (e del papa) come garante della Morale, centrata sulla persona e sui valori della famiglia, eppure né lei né i vescovi avete detto una parola inequivocabile su un uomo, capo del governo, che ha portato il nostro popolo al livello più basso del degrado morale, valorizzando gli istinti di seduzione, di forza/furbizia e di egoismo individuale. I vescovi assistono allo sfacelo morale del Paese ciechi e muti, afoni, sepolti in una cortina di incenso che impedisce loro di vedere la "verità" che è la nuda "realtà". Il vostro atteggiamento è recidivo perché avete usato lo stesso innocuo linguaggio con i respingimenti degli immigrati in violazione di tutti i dettami del diritto e dell'Etica e della Dottrina sociale della Chiesa cattolica, con cui il governo è solito fare i gargarismi a vostro compiacimento e per vostra presa in giro. Avete fatto il diavolo a quattro contro le convivenze (Dico) e le tutele annesse, avete fatto fallire un referendum in nome dei supremi "principi non negoziabili" e ora non avete altro da dire se non che le vostre paroline sono "per tutti", cioè per nessuno.

Il popolo credente e diversamente credente si divide in due categorie: i disorientati e i rassegnati. I primi non capiscono perché non avete lesinato bacchettate all'integerrimo e cattolico praticante, Prof. Romano Prodi, mentre assolvete ogni immoralità di Berlusconi.
Non date forse un'assoluzione previa, quando vi sforzate di precisare che in campo etico voi "parlate per tutti"? Questa espressione vuota vi permette di non nominare individualmente alcuno e di salvare la capra della morale generica (cioè l'immoralità) e i cavoli degli interessi cospicui in cui siete coinvolti: nella stessa intervista lei ha avanzato la richiesta di maggiori finanziamenti per le scuole private, ponendo da sé in relazione i due fatti. E' forse un avvertimento che se non arrivano i finanziamenti, voi siete già pronti a scaricare il governo e l'attuale maggioranza che sta in piedi in forza del voto dei cattolici atei? Molti cominciano a lasciare la Chiesa e a devolvere l'8xmille ad altre confessioni religiose: lei sicuramente sa che le offerte alla Chiesa cattolica continuano a diminuire; deve, però, sapere che è una conseguenza diretta dell'inesistente magistero della Cei che ha mutato la profezia in diplomazia e la verità in servilismo.

I cattolici rassegnati stanno ancora peggio perché concludono che se i vescovi non condannano Berlusconi e il berlusconismo, significa che non è grave e passano sopra a stili di vita sessuale con harem incorporato, metodo di governo fondato sulla falsità, sulla bugia e sull'odio dell'avversario pur di vincere a tutti i costi. I cattolici lo votano e le donne cattoliche stravedono per un modello di corruttela, le cui tv e giornali senza scrupoli deformano moralmente il nostro popolo con "modelli televisivi" ignobili, rissosi e immorali.

Agli occhi della nostra gente voi, vescovi taciturni, siete corresponsabili e complici, sia che tacciate sia che, ancora più grave, tentiate di sminuire la portata delle responsabilità personali. Il popolo ha codificato questo reato con il detto: è tanto ladro chi ruba quanto chi para il sacco. Perché parate il sacco a Berlusconi e alla sua sconcia maggioranza? Perché non alzate la voce per dire che il nostro popolo è un popolo drogato dalla tv, al 50% di proprietà personale e per l'altro 50% sotto l'influenza diretta del presidente del consiglio? Perché non dite una parola sul conflitto d'interessi che sta schiacciando la legalità e i fondamentali etici del nostro Paese? Perché continuate a fornicare con un uomo immorale che predica i valori cattolici della famiglia e poi divorzia, si risposa, divorzia ancora e si circonda di minorenni per sollazzare la sua senile svirilità? Perché non dite che con uomini simili non avete nulla da spartire come credenti, come pastori e come garanti della morale cattolica? Perché non lo avete sconfessato quando ha respinto gli immigrati, consegnandoli a morte certa?

Non è lo stesso uomo che ha fatto un decreto per salvare ad ogni costo la vita vegetale di Eluana Englaro? Non siete voi gli stessi che difendete la vita "dal suo sorgere fino al suo concludersi naturale"? La vita dei neri vale meno di quella di una bianca? Fino a questo punto siete stati contaminati dall'eresia della Lega e del berlusconismo? Perché non dite che i cattolici che lo sostengono in qualsiasi modo, sono corresponsabili e complici dei suoi delitti che anche l'etica naturale condanna? Come sono lontani i tempi di Sant'Ambrogio che nel 390 impedì a Teodosio di entrare nel duomo di Milano perché "anche l'imperatore é nella Chiesa, non al disopra della Chiesa". Voi onorate un vitello d'oro.

Io e, mi creda, molti altri credenti pensiamo che lei e i vescovi avete perduto la vostra autorità e avete rinnegato il vostro magistero perché agite per interesse e non per verità. Per opportunismo, non per vangelo. Un governo dissipatore e una maggioranza, schiavi di un padrone che dispone di ingenti capitali provenienti da "mammona iniquitatis", si è reso disposto a saldarvi qualsiasi richiesta economica in base al principio che ogni uomo e istituzione hanno il loro prezzo. La promessa prevede il vostro silenzio che - è il caso di dirlo - è un silenzio d'oro? Quando il vostro silenzio non regge l'evidenza dell'ignominia dei fatti, voi, da esperti, pesate le parole e parlate a suocera perché nuora intenda, ma senza disturbarla troppo: "troncare, sopire ... sopire, troncare".

Sig. Cardinale, ricorda il conte zio dei Promessi Sposi? "Veda vostra paternità; son cose, come io le dicevo, da finirsi tra di noi, da seppellirsi qui, cose che a rimestarle troppo ... si fa peggio. Lei sa cosa segue: quest'urti, queste picche, principiano talvolta da una bagattella, e vanno avanti, vanno avanti... A voler trovarne il fondo, o non se ne viene a capo, o vengon fuori cent'altri imbrogli. Sopire, troncare, padre molto reverendo: troncare, sopire" (A. Manzoni, Promessi Sposi, cap. IX). Dobbiamo pensare che le accuse di pedofilia al presidente del consiglio e le bugie provate al Paese siano una "bagatella" per il cui perdono bastano "cinque Pater, Ave e Gloria"? La situazione è stata descritta in modo feroce e offensivo per voi dall'ex presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, che voi non avete smentito: "Alla Chiesa molto importa dei comportamenti privati. Ma tra un devoto monogamo [leggi: Prodi] che contesta certe sue direttive e uno sciupa femmine che invece dà una mano concreta, la Chiesa dice bravo allo sciupa femmine. Ecclesia casta et meretrix" (La Stampa, 8-5-2009).

Mi permetta di richiamare alla sua memoria, un passo di un Padre della Chiesa, l'integerrimo sant'Ilario di Poitier, che già nel sec. IV metteva in guardia dalle lusinghe e dai regali dell'imperatore Costanzo, il Berlusconi cesarista di turno: "Noi non abbiamo più un imperatore anticristiano che ci perseguita, ma dobbiamo lottare contro un persecutore ancora più insidioso, un nemico che lusinga; non ci flagella la schiena ma ci accarezza il ventre; non ci confisca i beni (dandoci così la vita), ma ci arricchisce per darci la morte; non ci spinge verso la libertà mettendoci in carcere, ma verso la schiavitù invitandoci e onorandoci nel palazzo; non ci colpisce il corpo, ma prende possesso del cuore; non ci taglia la testa con la spada, ma ci uccide l'anima con il denaro" (Ilario di Poitiers, Contro l'imperatore Costanzo 5).

Egregio sig. Cardinale, in nome di quel Dio che lei dice di rappresentare, ci dia un saggio di profezia, un sussurro di vangelo, un lampo estivo di coerenza di fede e di credibilità. Se non può farlo il 50% di pertinenza del presidente della Cei "per interessi superiori", lo faccia almeno il 50% di competenza del vescovo di una città dove tanta, tantissima gente si sta allontanando dalla vita della Chiesa a motivo della morale elastica dei vescovi italiani, basata sul principio di opportunismo che è la negazione della verità e del tessuto connettivo della convivenza civile.

Lei ha parlato di "emergenza educativa" che è anche il tema proposto per il prossimo decennio e si è lamentato dei "modelli negativi della tv". Suppongo che lei sappia che le tv non nascono sotto l'arco di Tito, ma hanno un proprietario che è capo del governo e nella duplice veste condiziona programmi, pubblicità, economia, modelli e stili di vita, etica e comportamenti dei giovani ai quali non sa offrire altro che la prospettiva del "velinismo" o in subordine di parlamentare alle dirette dipendenze del capo che elargisce posti al parlamento come premi di fedeltà a chi si dimostra più servizievole, specialmente se donne. Dicono le cronache che il sultano abbia gongolato di fronte alla sua reazione perché temeva peggio e, se lo dice lui che è un esperto, possiamo credergli. Ora con la benedizione del vostro solletico, può continuare nella sua lasciva intraprendenza e nella tratta delle minorenni da immolare sull'altare del tempio del suo narcisismo paranoico, a beneficio del paese di Berlusconistan, come la stampa inglese ha definito l'Italia.

Egregio sig. Cardinale, possiamo sperare ancora che i vescovi esercitino il servizio della loro autorità con autorevolezza, senza alchimie a copertura dei ricchi potenti e a danno della limpidezza delle verità come insegna Giovanni Battista che all'Erode di turno grida senza paura per la sua stessa vita: "Non licet"? Al Precursore la sua parola di condanna costò la vita, mentre a voi il vostro "tacere" porta fortuna.

In attesa di un suo riscontro porgo distinti saluti.

Genova 31 maggio 2009
Paolo Farinella, prete

(24 giugno 2009)

domenica 28 giugno 2009

Niente di nuovo sul fronte occidentale


Ancora adolescenti, Paul Borner e i suoi compagni vengono strappati ai banchi di scuola per essere inviati al fronte delle Fiandre, dove affronteranno una realtà di morte e distruzione. La vita diventerà allora soltanto sopravvivenza, un angoscioso aggrapparsi agli istinti di conservazione e un disperato rinsaldare i vincoli di cameratismo per fugare la paura e trovare reciproco sostegno. Un sostegno che tuttavia si affievolirà sempre più, perché uno dopo l'altro i compagni cadranno e Paul Borner, proprio quando avrà ritrovato la forza di guardare al futuro e l'armistizio sarà imminente, morirà colpito da un'ultima granata, mentre il bollettino militare grottescamente annuncerà: "Niente di nuovo sul fronte occidentale". Pubblicato nel 1929, quasi un decennio dopo la fine della Prima guerra mondiale, questo romanzo-diario - uno dei primi best seller del Novecento, anche grazie alla trasposizione cinematografica che ne venne fatta - formula un messaggio pacifista che ai toni vigorosi dell'impegno civile preferisce quelli struggenti della malinconia e che enormemente contribuì alla sua fortuna.

lunedì 22 giugno 2009

Revolutionary Road...

BLOG DA TEHERAN

Neda uccisa dalla polizia


E' già diventata un simbolo per l'opposizione iraniana la ragazza sanguinante ripresa da un video che, secondo gli oppositori, sarebbe rimasta uccisa ieri a Teheran negli scontri con i sostenitori del governo.
Secondo vari siti internet e i social network Youtube e Twitter, la ragazza di chiamava Neda. Secondo un post trasmesso da Twitter apparso sul sito di opposizione loftan.org, la strada di Teheran dove la ragazza sarebbe stata uccisa, via Amirabad, sarebbe stata ribattezzata dai contestatori "via Neda"
IL VIDEO

venerdì 19 giugno 2009

La telecamera sotto il chador

L'ha nascosta la regista Rakhshan Bani-Etemad per girare un film sul voto delle donne in Iran
Il titolo: 'Siamo la metà della popolazione in Iran'.
IL VIDEO

lunedì 15 giugno 2009

SOSTIENE PEREIRA di Antonio Tabucchi




recensione di Coletti, V., L'Indice 1994, n. 5
(recensione pubblicata per l'edizione del 1994)

Il dottor Pereira è un giornalista di Lisbona. Dirige la pagina culturale di un modesto giornale di regime nel Portogallo salazarista della fine degli anni trenta. Della realtà non gli interessa più nulla; dialoga col ritratto della moglie morta; scrive o pensa di scrivere necrologi di grandi autori; traduce testi altrui. Ma, un giorno, assume un collaboratore, Monteiro Rossi, un bizzarro giovane che, anche per la suggestione di Marta, la sua ragazza, fa politica clandestina e attiva tra gli antifascisti. Poco dopo, conosce il dottor (Cardoso, un medico che vuole fuggire dal Portogallo asfissiato e mortificato dalla dittatura. La realtà rientra così nella vita del placido e disilluso Pereira e lui se ne lascia progressivamente, pacificamente coinvolgere, fino a solidarizzare con gli amici antisalazaristi e a dare ospitalità in casa propria a Monteiro Rossi braccato dalla polizia segreta. E anche se non riesce a proteggere il suo giovane amico, tosto scoperto e ucciso a manganellate, Pereira lo vendicherà, denunciandone apertamente l'assassinio in un articolo fatto uscire sul giornale, con una beffa al regime del paese, da cui se ne andrà senza rimpianti.

In questo romanzo salutiamo il ritorno, ad opera di uno dei più grandi tra i narratori contemporanei, di una tematica, se si può ancora usare la parola, più impegnata, meno letteraria e raffinata forse, ma anche più diretta, evidente e, in fin dei conti, più importante di quella da ultimo presente nei libri dello stesso Tabucchi e di tanti altri autori di questi anni. Il filtro del tempo, l'ambientazione anni trenta, i precisi e retrodatati contorni cronologici del racconto non ne impediscono infatti una lettura anche attuale o, per lo meno, lasciano intatto il fascino che i grandi motivi della politica, della libertà, della dignità esercitano, possono ancora esercitare in un bel romanzo. Peccato che a questa svolta verso la sostanza delle cose non faccia riscontro pieno e completo una parallela svolta nella scrittura, pur tanto diversa da quella abituale all'ultimo Tabucchi, ma ancora, temo, tentata di strizzare l'occhio agli addetti ai lavori della forma, a linguisti e narratologi, manipolatori vari del genere romanzo. Lo rivela il titolo, "Sostiene Pereira", che, ripetuto fino all'ossessione in tutto il libro, è anche il segno linguistico dominante della narrazione. È, o dovrebbe essere. Se un testo si svolge a partire da un: "tizio sostiene, afferma ecc.", infatti, occorre anche che esso, poi, sia orientato a svolgere tutto il tasso di ipoteticità che c'è in un fatto "sostenuto" e che quindi lo distanzi e discuta con altre ipotesi, lo interroghi con domande o, al limite, lo neghi clamorosamente. E, all'inizio, pare proprio che le cose stiano così. Il narratore-autore entra in dialogo col racconto del narratore-personaggio e avanza ipotesi, supposizioni, interloquisce: "Pare che Pereira stesse in redazione... Perché? Questo a Pereira è impossibile dirlo. Sarà perché suo padre..., sarà perché sua moglie..., sarà perché lui... ma il fatto è che..." si legge nei primi capitoli, quando il testo declina volentieri verso la subordinazione richiesta dal 'verbum opinandi', raddrizzata qua e là da affermazioni di cui il personaggio conserva tutta la responsabilità: "Sostiene Pereira che da principio si mise a leggere distrattamente l'articolo... Perché lo fece? Questo Pereira non è in grado di dirlo. Forse, perché quella rivista...., forse perché quel giorno..., o forse perché in quel momento... ma il fatto è che...". Poi, però, questo valore reale, non opzionale, del "sostiene Pereira" si perde o, perlomeno, il lettore lo smarrisce. La narrazione prende a svolgersi per frasi principali e passati remoti che non suggeriscono neppure alla lontana il dubbio del congiuntivo, la possibilità del condizionale, l'opinabilità dell'evento; si colloca in una netta, distaccata identità, allontanandosi, con la precisione ineluttabile dell'accaduto, dall'attualità, partecipe e ancora sgomenta, del testimone che rivive e "sostiene". Infine, il "[Pereira] sostiene" diventa un puro inciso ("Poi aprì la porta, sostiene"; "Pereira entrò in un caffè, sostiene, e ordin• un'acquavite") innocuo, neutro, senza riflessi formali nella disposizione del testo o della sua lingua; un inciampo che si potrebbe benissimo togliere senza che nulla venga a mancare nel libro. Perché Tabucchi, scrittore sorvegliato come pochi, abbia giocato con questo marchingegno (esibito al punto da diventare il titolo) senza poi, come avrebbe saputo fare benissimo (lo ha fatto benissimo in altre opere), disporre un'adeguata, conseguente strategia testuale, non so spiegarmi. Né riesco a convincermi che il verbo eponimo volesse essere solo un tic linguistico, una figura della ripetizione come il "beh pazienza" che il protagonista dice ogni volta che parla col ritratto della moglie o le molte limonate che beve durante il giorno; e non credo che il progressivo passaggio del valore di "sostiene" da quello dell'ipoteticità a quello della certezza, che, snaturandolo, lo assimila ai più diretti e tradizionali verbi e modi narrativi, sia figura di una fiducia progressivamente accordata dal romanziere al narratore personaggio. A ogni modo, il lettore non può fare a meno di interrogarsi su questo presente fasciato dal dubbio dell'opinabile, da questo segno tanto esposto, che sembra voler governare, orientare e segnare il testo intero e invece retrocede rapidamente a vistoso soprammobile stilistico e di fatto si defila, perdendo i propri originari connotati di affermazione decisa ma discutibile e lasciando libero campo a un passato accertato, ricostruito con esattezza, non più discusso evitato. Che sia la "morale" del libro, la "testimonianza" dichiarata nel sottotitolo, il suo modo di suggerire una lettura attualizzante?


recensione di Papuzzi, A., L'Indice 1994, n. 5

Quali ragioni spingono Pereira a una scelta che capovolge la sua vita? Perché un giornalista scrupoloso e avveduto, che conosce i trucchi del mestiere e che non nutre molte illusioni, promosso alla cultura dopo aver consumato una vita nella cronaca nera - "di lei mi fido, ha fatto il cronista per trent'anni", gli dice il direttore - manda tutto all'aria schierandosi dalla parte di un rivoluzionario? Perché Pereira non rimane tranquillo nel suo ufficio - "una squallida stanzetta", per carità, "dove ronzava un ventilatore asmatico e c'era sempre puzzo di fritto", però anche un porto franco, una nicchia appartata - a compilare la rubrica delle ricorrenze e a tradurre scrittori francesi, senza lode ma senza infamia, un intellettuale con ambizioni pari alle sue non eccelse qualità? Invece quest'uomo marginale, troppo grasso e sudato per il suo cuore malandato, consumatore impenitente di omelette fritte e limonate ghiacciate, vedovo di una moglie morta di tisi, avaro di sesso, senza figli, con un unico amico, si trasforma lentamente ma quasi invincibilmente, come se neppure dipendesse da lui, nell'eroe nostro malgrado che tutti una volta o l'altra vorremmo essere: il simbolo di un riscatto, tanto più lampante quanto meno prevedibile. Ma qual è la molla che fa di Pereira un uomo onesto fino all'esilio da quell'onest'uomo che era? In questo interrogativo è racchiuso il fascino dell'ultimo romanzo di Antonio Tabucchi.
È vero che siamo nell'estate del 1938, data sintomatica nella storia dell'Europa: l'estate in cui non si poté far finta di non vedere. È vero che il Portogallo del dittatore Salazar appoggia la crociata franchista contro la repubblica spagnola. È vero che Il "Lisboa", il giornale di Pereira, ignora il massacro di un carrettiere socialista e dedica invece la prima pagina "allo yacht più lussuoso del mondo". È vero che Pereira parla alla moglie in fotografia del figlio che non hanno avuto e si sorprende a riflettere sulla morte e sulla resurrezione dei corpi che non desidera. Ma è anche vero che Pereira non si è mai occupato di politica. Diffida della politica come di qualcosa di malsano e pericoloso: "Oh, fece Pereira, la mia gioventù se n'è andata da un pezzo, quanto alla politica, a parte che non me ne interesso molto, non mi piacciono le persone fanatiche, mi pare che il mondo sia pieno di fanatici". Ed è anche vero che Pereira conosce e applica a menadito le regole del gioco, per cui quando Monteiro Rossi, il giovane intellettuale che si è incautamente scelto come aiuto, gli porta un articoletto su Garc¡a Lorca, lui non esita a cestinarglielo: "Eh, no, trovò la forza di dire Pereira, niente Garc¡a Lorca, per favore, ci sono troppi aspetti della sua vita e della sua morte che non si addicono a un giornale come il 'Lisboa', non so se lei si rende conto...".
Mettiamola così: Pereira non avrebbe alcuna ragione per entrare in conflitto con la direzione del giornale. Non è un oppresso, non è un ribelle, è un cattolico che crede nella comunione delle anime. E questo spiega il titolo del libro, l'inciso ricorrente nella narrazione su cui tutti i critici si sono interrogati: "Sostiene Pereira". Quel sostiene è una difesa, una giustificazione, di fronte a un'inevitabile e attualissima obiezione, che potremmo condensare nel fatidico: chi te l'ha fatto fare? Il fatto è che Pereira è un giornalista. E i giornalisti hanno, o avrebbero, delle regole etiche da osservare, di cui vanno persino fieri: "Io non dipendo dal mio direttore nelle mie scelte letterarie", dice piccato Pereira al suo Monteiro Rossi. "La pagina culturale la dirigo io e io scelgo gli scrittori che mi interessano, perciò decido di affidarle il compito e le lascio campo libero, avrei voluto suggerirle Bernanos e Mauriac, perché mi piacciono, ma a questo punto non decido niente, a lei la decisione". A queste regole i giornalisti possono crederci o non crederci. I più non ci credono. Ma Pereira è fra i meno.
Non avesse questo neo, non fosse così individualista, sarebbe una perfetta riproduzione di tanti giornalisti giunti alla fine di una mediocre e onorata carriera: scettici ma scrupolosi, fedeli al mestiere anche se disillusi, contemporaneamente incapaci di negare la propria routiniera professionalità ma anche di ribellarsi ai diktat del vertice. Quante volte ricorda didatticamente a Monteiro Rossi che si deve scrivere con le ragioni dell'intelligenza: ''Altrimenti, se scrive con le ragioni del cuore, lei andrà incontro a grandi complicazioni". Lasci perdere Lorca e Ma rinetti , Majakovskij e D'Annunzio, gli dice infatti. Scriva piuttosto su Mauriac e Bernanos, sull'anima e sulla morte.
Però gli è rimasto un senso della dignità: gli sembra che oltre certi limiti un giornalista non possa compromettersi con le sottintese esigenze del giornale e del potere. Che cosa fare per esempio quando anche i cattolici Mauriac e Bernanos prendono posizione contro il franchismo? L'informazione culturale si rivela una trappola: in apparenza un terreno neutrale, sgombro dalla battaglia politica; in realtà un mondo in cui è perfino più difficile truccare le carte. Ma probabilmente l'autore ha voluto soprattutto farci capire che non ci sono angoli in cui un giornalista possa fingere di non essere un giornalista.
Ciò che Tabucchi mette in scena nelle duecento pagine di "Sostiene Pereira" è, in verità, un pentimento: "sento il bisogno di pentirmi, come se io fossi un'altra persona e non il Pereira che ha sempre fatto il giornalista", dice Pereira al medico Cardoso, che è la levatrice del ridestarsi della sua coscienza. Cucita in un tessuto narrativo animato da una specie di pietas - per personaggi che galleggiano come possono in quell'estate portoghese carica di afose minacce - il romanzo ci offre una deliziosa intuizione: la capacità di trasformare i fatti in notizie, che è l'arte del giornalista, la sua vocazione a sostituire alla realtà la rappresentazione della realtà, sono come un diaframma che lo spinge sempre più lontano dalle cose di cui scrive. Manipolatore di parole che gli servono per riprodursi, la vera etica del giornalista è un pentimento che gli consenta di tornare a contatto con il reale, sostiene Pereira.

domenica 14 giugno 2009

IRAN GLI SCONTRI DOPO LE ELEZIONI

Il presidente uscente ultraconservatore Mahmud Ahmadinejad è stato proclamato vincitore delle presidenziali in Iran, con un vantaggio schiacciante sul candidato moderato Mir Hossein Mussavi, che inutilmente ha protestato denunciando pesanti brogli. Per tutta la giornata e anche in nottata i sostenitori di Mussavi sono scesi in piazza a Teheran scontrandosi con le forze antisommossa dei Pasdaran, con un bilancio di diversi feriti e arrestati
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sabato 13 giugno 2009

Cordial saluti, di Andrea Bajani


La sua vita in azienda è fatta di giornate passate a scrivere lettere di licenziamento, guardando i colleghi "in esubero" che ripongono gli oggetti personali dentro piccole scatole e si avviano lentamente verso casa. La sua vita fuori dall'ufficio, invece, è l'invenzione di una paternità: un ciclone messo in movimento da Martina e Federico, che sono troppo piccoli per diventare grandi e aspettano il ritorno del padre dall'ospedale. Dopo tante parole sprecate per congedare la gente, bisognerà trovarne di intatte per spiegare a loro due che non tutte le cose finiscono, e non tutti i saluti sono degli addii. Un romanzo feroce e malinconico, un ironico abbecedario della vita aziendale, e della vita in generale.

venerdì 5 giugno 2009

Per un nuovo inizio. Il discorso di Obama ai musulmani


Cairo, Egitto, 4 giugno 2009 - È un onore per me trovarmi qui al Cairo, in questa città antichissima, ed essere ospite di due importantissime istituzioni: da oltre un migliaio di anni l'Università Al-Azhar è il faro della cultura islamica e da oltre un secolo l'Università del Cairo è la culla del progresso di questo paese.
Queste due istituzioni rappresentano l'alleanza di tradizione e progresso.
Sono grato per questa ospitalità e l'accoglienza che il popolo egiziano mi riserva, sono anche fiero di avere con me le buone intenzioni del popolo americano, e potervi salutare con il saluto di pace delle comunità musulmane d'America: assalaamu alaykum.

Mi trovo qui in un periodo di grande tensione tra gli Stati Uniti e i musulmani di tutto il pianeta, una tensione che ha le sue cause nelle forze storiche che trascendono qualsiasi dibattito politico attuale. Il rapporto tra Islam e Occidente ha alle spalle secoli di convivenza e cooperazione, ma pure di conflitti e di guerre di religione. In tempi più vicini a noi, questa tensione è stata acuita dal colonialismo che ha negato diritti e opportunità a molti musulmani, e dalla Guerra Fredda durante la quale i paesi a maggioranza musulmana molto spesso furono trattati come paesi per procura, nei quali non si teneva conto delle loro relative aspirazioni; inoltre i cambiamenti portati dal processo di modernizzazione e dalla globalizzazione hanno spinto molti musulmani a considerare l'Occidente nemico e ostile verso le tradizioni dell'Islam.
Violenti estremisti hanno approfittato di queste tensioni esercitando pressioni su una minoranza piccola ma solida di musulmani.

Gli attentati dell'11 settembre 2001 e gli sforzi incessanti di questi estremisti per effettuare attentati contro civili innocenti hanno di conseguenza indotto alcune persone in America a considerare l'Islam come ostile non solo nei confronti dell'America e dei paesi occidentali in genere, ma anche dei diritti umani nel loro complesso e tutto ciò ha implicato altre paure, maggiori diffidenze.

Finché i nostri rapporti si baseranno sulle nostre reciproche differenze, daremo maggiore potere a coloro che aspirano all'odio invece che alla pace, quelli che si danno da fare per il conflitto invece che per la collaborazione che potrebbe aiutarci tutti a ottenere giustizia e a raggiungere la prosperità. Adesso dobbiamo mettere fine a questo ciclo di diffidenze e animosità.
Mi trovo qui oggi per cercare di dare un nuovo inizio al rapporto tra Stati Uniti e i musulmani di tutto il mondo, per un nuovo rapporto che si basi sull'interesse reciproco e sul rispetto; per un nuovo rapporto che si fondi su una verità ben precisa: America e Islam non si escludono a vicenda, non devono essere per forza in competizione. Al contrario, America e Islam possono avere posizioni convergenti, condividere i medesimi ideali, il senso della giustizia e del progresso, la tolleranza e la dignità dell'uomo.

Sono consapevole che questo importante cambiamento non potrà avvenire in un istante: nessun discorso potrà cancellare del tutto una diffidenza che dura da anni. Sono anche consapevole di non essere in grado, nel tempo che avrò a disposizione, di porre rimedio a ogni complicata questione che ci ha portati fino a questo punto. Sono in ogni caso convinto che se intendiamo andare avanti dovremo da ora in poi aprirci, rivelare ciò che abbiamo nel cuore e che troppo spesso diciamo soltanto a porte chiuse. Dovremo darci da fare per promuovere uno sforzo duraturo per ascoltarci, per imparare uno dall'altro, per rispettarci, per cercare un terreno di intesa. Nel Corano si legge: «Siate consci di Dio e dite solo la verità». Io cercherò di farlo, di dire la verità quanto meglio possibile, con umiltà di fronte all'importante compito che mi sta davanti, decisamente convinto che gli interessi che condividiamo perché apparteniamo a un unico genere umano sono molto più potenti delle forze che ci respingono.

In parte, le mie opinioni si basano sulla mia stessa esperienza: sono cristiano, ma mio padre proveniva dal Kenya e aveva una famiglia che per generazioni intere era stata musulmana. Quando ero piccolo ho passato molti anni in Indonesia, e ascoltavo sempre al chiarore delle prime luci dell'alba e al calare delle tenebre la chiamata dell'azaan. Da giovane ho poi prestato servizio in alcune comunità di Chicago presso le quali molte persone trovavano dignità e tranquillità interiore nella loro fede musulmana.

Da studente di Storia ho imparato quanto la civiltà sia debitrice nei confronti dell'Islam: è stato l'Islam infatti - in centri di cultura come l'Università Al-Azhar - a tenere alta la fiaccola del sapere per molti secoli, preparando la strada al Rinascimento europeo e all'Illuminismo; sono state le comunità musulmane con l'innovazione a sviluppare scienze varie, come l'algebra, e strumenti per la navigazione come la bussola magnetica; a far avanzare la scrittura e la stampa; la comprensione di come si propagano le malattie e come sia possibile curarle. La cultura islamica ci ha donato arcate maestose e cuspidi elevate; poesie immortali e musiche celesti; calligrafie eleganti e luoghi per meditare: per tutta la sua storia, l'Islam ha dimostrato a parole e con azioni la possibilità di vivere in piena tolleranza religiosa e uguaglianza tra le razze.
L'Islam ha avuto una parte di grande rilievo nella storia americana: la prima nazione a riconoscere il mio paese fu il Marocco. Il nostro secondo presidente, John Adams, firmando il Trattato di Tripoli nel 1796 scrisse: "Gli Stati Uniti non hanno di per sé alcun motivo di ostilità nei confronti delle leggi, della religione e dello stile di vita dei musulmani". Dalla fondazione degli Stati Uniti, i musulmani americani hanno valorizzato il mio paese, combattuto nelle guerre, prestato servizio nel governo, lottato per i diritti civili, fondato aziende, insegnato nelle nostre università. Hanno avuto la meglio in molteplici sport, vinto Premi Nobel, costruito i nostri edifici più alti e acceso anche la Torcia Olimpica. Quando poco tempo fa il primo musulmano americano è stato eletto al Congresso degli Stati Uniti, ha giurato di difendere la nostra Costituzione sullo stesso Corano che uno dei nostri Padri Fondatori - Thomas Jefferson - conservava nella propria biblioteca.

Dunque io ho conosciuto l'Islam in tre continenti, prima di arrivare qui, dove esso fu rivelato agli uomini per la prima volta. La mia esperienza ispira la mia opinione che un rapporto tra America e Islam deve basarsi su ciò che l'Islam è, non su ciò che non è. Credo che rientra negli obblighi e nelle mie responsabilità di presidente degli Stati Uniti battermi contro ogni stereotipo negativo dell'Islam, ovunque esso si manifesta.

Questo stesso principio deve applicarsi però anche alla percezione dell'America da parte dei musulmani: proprio come i musulmani non rientrano tutti in un generico stereotipo, così l'America non rientra in quel generico stereotipo di impero interessato solo al proprio vantaggio.
Gli Stati Uniti sono stati uno dei più importanti luoghi di origine del progresso che il mondo abbia mai conosciuto: nacquero con una rivoluzione contro un impero; furono fondati sull'ideale che tutti gli esseri umani nascono uguali e per dare concretezza a queste parole gli americani hanno versato sangue e si sono battuti per secoli, anche fuori dai loro confini, in ogni angolo del mondo; sono stati plasmati da ogni cultura, proveniente da ogni zona del pianeta, e si ispirano a un unico ideale: E pluribus unum, ovvero "Da molti, uno".

Si è molto discusso sul fatto che un afro-americano di nome Barack Hussein Obama potesse mai essere eletto presidente degli Stati Uniti, ma la mia non è una storia unica: il sogno della realizzazione personale non si è concretizzato per tutti in America, ma quel sogno, quella promessa, è anor oggi vivo per chiunque arrivi nella nostra patria, e ciò vale anche per i quasi sette milioni di musulmani americani che nel nostro paese hanno istruzione e stipendi più alti della media. La libertà in America anche la libertà di professare la propria religione: infatti in ogni Stato americano c'è almeno una moschea, e in totale se ne contano oltre 1.200.
Questo spiega per quale motivo il governo degli Stati Uniti si è rivolto ai tribunali per difendere il diritto delle donne e delle ragazze a indossare l'hijab e a punire quelli che vorrebbero proibirlo.
Non si discute: l'Islam è parte integrante dell'America, e io penso che l'America custodisca dentro di sé la verità che, a prescindere dalla razza, la religione, la posizione sociale, tutti condividiamo le stesse aspirazioni: quella di vivere in pace e sicurezza, di volere un'istruzione e un lavoro decoroso, di amare le nostre famiglie, le nostre comunità e il nostro Dio. Questo è ciò che abbiamo in comune e queste sono le speranze di tutto il genere umano.

Saper riconoscere la nostra comune appartenenza a un unico genere umano è solo l'inizio di quello che dobbiamo intraprendere. Le parole da sole non bastano a dare risposte concrete alle necessità dei nostri popoli che potranno essere soddisfatte qualora negli anni futuri sapremo agire con coraggio, se comprenderemo che le sfide che dobbiamo affrontare ci riguardano tutti e che se falliremo e non riusciremo a prevalere, ne subiremo tutti le conseguenze.
Abbiamo scoperto da poco che quando un sistema finanziario si indebolisce in una nazione, ne soffre la prosperità di tutte; che quando una nuova malattia contagia un uomo solo, tutti gli uomini sono in pericolo; quando una nazione vuole procurarsi una bomba atomica, il rischio di attacchi nucleari si moltiplica per tutte le nazioni; quando violenti estremisti agiscono in una striscia montagnosa lontana, la gente è a rischio anche al di là degli oceani; e quando degli innocenti disarmati sono sterminati in Bosnia e in Darfur, è la coscienza di tutti a uscirne infangata. Questo significa nel XXI secolo abitare uno stesso pianeta.

Questa è la responsabilità di ciascun essere umano. Si tratta di certo di una responsabilità difficoltosa di cui farsi carico: la storia umana è spesso stata tutto un susseguirsi di guerre tra nazioni e tribù che si dominavano per il loro tornaconto. Ma in questa nuova era, un atteggiamento simile si rivelerebbe autodistruttivo. Considerando quanto dipendiamo gli uni dagli altri, un eventuale ordine mondiale che dovesse sollevare una nazione o un gruppo di persone al di sopra di tutti gli altri sarebbe fatalmente destinato all'insuccesso. A prescindere da ciò che pensiamo del passato, non dobbiamo esserne prigionieri: i nostri problemi dobbiamo affrontarli collaborando, diventando soci, condividendo tutti insieme uno stesso progresso. Questo non vuol dire che dovremmo ignorare le cause e le tensioni, ma anzi, esattamente il contrario: dobbiamo affrontare le tensioni senza attendere oltre. E' con questo spirito che vorrei quindi passare a parlarvi quanto più chiaramente possibile di alcune questioni particolari che credo che dovremmo affrontare tutti insieme.
La prima questione che dobbiamo affrontare tutti insieme è la violenza estremista, in ogni sua forma: ad Ankara ho già detto sena equivoci che l'America non è, e non sarà mai, in guerra con l'Islam; in ogni caso, tuttavia, noi non daremo mai tregua agli estremisti violenti che rappresentano una grave minaccia per la nostra sicurezza, perché anche noi biasimiamo ciò che le persone di tutte le confessioni religiose biasimano, ovvero il massacro di uomini, donne e bambini innocenti. Come presidente ho il dovere, in primis, di proteggere il popolo americano.

La situazione in Afghanistan dimostra quali sono gli obiettivi americani e perché dobbiamo lavorare insieme: più di sette anni fa gli Stati Uniti lanciarono la caccia ad al Qaeda e ai Taliban con un forte sostegno internazionale. Non scegliemmo di farlo, ma dovemmo farlo per forza. Io so che alcuni mettono in discussione o motivano gli attentati dell'11 settembre, ma cerchiamo di essere chiari: quel giorno al-Qaeda sterminò quasi 3.000 persone,uomini, donne, bambini innocenti, americani e di molte altre nazioni, che non avevano fatto niente di male contro nessuno. Ma al-Qaeda scelse di proposito di massacrare quelle persone, rivendicò gli attentati, e ancora oggi proclama la propria intenzione di voler continuare a fare stragi di massa. Al-Qaeda ha affiliati e agenti in molti paesi, sta cercando di allargare il suo raggio di azione: queste non sono opinioni sulle quali fare polemica, ma dati di fatto da affrontare.

Non lasciatevi ingannare: noi non desideriamo che i nostri soldati restino in Afghanistan, non abbiamo intenzione di aprire basi militari stabili: è anzi logorante per gli americani continuare a perdere i suoi giovani uomini e le sue giovani donne in questo modo. È difficile, costoso e politicamente complicato continuare quel conflitto, e saremmo felici di rimpatriare tutti i nostri soldati se potessimo essere certi che in Afghanistan e in Pakistan non ci sono più estremisti violenti che complottano di massacrare quanti più americani possibile, ma non possiamo ancora esserne certi.
È per questo motivo che abbiamo messo insieme una coalizione di 46 paesi: nonostante i costi, l'impegno dell'America non è mai venuto meno.
In realtà, nessuno di noi dovrebbe mai sopportare l'estremismo, che ha colpito e ucciso in molti Paesi. Ha ammazzato persone di ogni religione, più di chiunque altro proprio i musulmani. Le azioni degli estremisti sono incompatibili con i diritti umani, con il progresso delle nazioni, con lo stesso Islam. Il Corano dice infatti che chiunque uccide un innocente è come se uccidesse l'intero genere umano, e chiunque salva un solo uomo, in realtà salva tutto il genere umano. La fede intima di più di un miliardo di persone è decisamente più potente dell'odio vigliacco di pochi. L'Islam non è il problema nella lotta all'estremismo violento, ma anzi parte fondamentale della promozione della pace.
Noi siamo consapevoli che la sola forza militare non risolverà i problemi in Afghanistan e in Pakistan: per questo stiamo progettando di investire 1,5 miliardi di dollari l'anno per i prossimi cinque anni per aiutare i pachistani a costruire scuole, ospedali, strade, e aziende, e distribuiremo anche centinaia di milioni di dollari per aiutare gli sfollati, oltre a 2,8 miliardi di dollari che daremo agli afgani per fare altrettanto, affinché migliorino la loro situazione economica e offrano i servizi di base che la popolazione si aspetta. Vorrei ora affrontare la questione dell'Iraq: a differenza di quella in Afghanistan, la guerra in Iraq è stata decisa, e questa scelta è stata fonte di enormi polemiche nel mio paese e in tutto il mondo. Benché io sia convinto che in fin dei conti il popolo iracheno vive oggi molto meglio senza il dittatore Saddam Hussein, penso anche che quanto è successo in Iraq sia servito all'America per afferrare meglio come ricorrere ai negoziati diplomatici e quale è l'utilità di un consenso internazionale per risolvere, ogniqualvolta sia possibile, i problemi. A questo riguardo, vorrei citare le parole di Thomas Jefferson che disse: «Spero che la nostra saggezza cresca in misura proporzionale alla nostra forza e ci insegni che quanto meno ricorreremo alla seconda tanto più saggi diverremo».
Il mio paese ha adesso una doppia responsabilità, quella di aiutare l'Iraq a crearsi un futuro migliore e quello di lasciare l'Iraq agli iracheni. Ho già detto espressamente a questi ultimi che l'America non ambisce ad avere alcuna base in territorio iracheno, non ha pretese da accampare sul suo territorio o sulle sue risorse. La sovranità dell'Iraq è esclusivamente irachena. Per questo motivo le nostre brigate combattenti per mio ordine dovranno ritirarsi entro il prossimo mese di agosto: rispetteremo questo impegno e l'accordo siglato con il governo iracheno democraticamente eletto di ritirare il contingente combattente dalle città irachene entro il mese di luglio e tutti i nostri soldati entro il 2012.
Aiuteremo l'Iraq a formare gli uomini delle sue Forze di Sicurezza, e a sviluppare la sua economia, ma offriremo questo aiuto a un Iraq sicuro e unito in vesti di partner e non di occupanti.
Proprio come l'America non può sopportare la violenza esercitata dagli estremisti, non può in alcun modo sconfessare i propri principi: l'11 settembre ha arrecato un trauma sconvolgente al mio paese, il terrore e la rabbia che quegli attentati hanno provocato sono comprensibili, ma in qualche caso ci hanno portato ad agire in modo contrario ai nostri stessi ideali. Adesso stiamo cercando di cambiare drasticamente linea di condotta: io ho proibito in modo lampante di usare la tortura, e ho dato disposizioni affinché il carcere di Guantánamo chiuda i battenti entro i primi mesi dell'anno prossimo. L'America, da adesso in poi, si difenderà rispettando la sovranità altrui e la legalità delle altre nazioni: lo farà insieme alle comunità musulmane, anch'esse minacciate e quanto prima esse isoleranno gli estremisti e li respingeranno, tanto prima saremo tutti più sicuri.

La seconda più importante causa di tensione della quale dobbiamo occuparci è la situazione tra israeliani, palestinesi e mondo arabo. Sono noti i solidi rapporti che legano Israele e Stati Uniti: questo è un vincolo inestinguibile che risale indietro nel tempo, ed è motivato dal riconoscimento che l'aspirazione a una nazione ebraica è legittimo.
Il popolo ebraico è stato perseguitato per secoli in tutto il mondo e in Europa l'antisemitismo è culminato nell'Olocausto, uno sterminio senza precedenti: domani visiterò Buchenwald, uno dei molti campi di concentramento nei quali gli ebrei furono schiavizzati, torturati, uccisi anche con il gas dal Terzo Reich. Sei milioni di ebrei morirono: un numero superiore alla popolazione odierna di tutto Israele. Smentire questa realtà è immotivato, è un atteggiamento da ignoranti, e fomenta l'odio. Minacciare poi Israele di distruzione - o ripetere stereotipi vigliacchi sugli ebrei - è decisamente sbagliato, e serve soltanto a riportare alla mente degli israeliani il ricordo più doloroso della loro storia, intralciando la pace che il popolo di quella regione si merita a tutti gli effetti.
È innegabile del resto che il popolo palestinese - cristiano e musulmano - ha sofferto anch'esso nel tentativo di avere una propria patria: da più di 60 anni affronta tutte le dolorose conseguenze della dispersione.
In moltissimi vivono sempre nell'attesa, nei campi profughi di Cisgiordania, di Gaza, e dei paesi vicini, aspettando pace e sicurezza che non hanno mai conosciuto. Tutti i giorni palestinesi affrontano umiliazioni grandi e piccole legate all'occupazione del loro territorio. Vorrei far capire che la situazione per il popolo palestinese è insopportabile e che l'America non girerà le spalle alla legittima aspirazione del popolo palestinese alla dignità, all'opportunità, a uno stato tutto suo.
Invece, sono decenni che tutto è fermo e la situazione è in stallo: due popoli con le loro aspirazioni, la loro storia difficile alle spalle aspettano un compromesso sempre più difficile da raggiungere. È semplice puntare il dito. Per i palestinesi è semplice accusare la fondazione di Israele del loro essere profughi. Per gli israeliani è facile accusare gli incessanti attentati che hanno costellato l'intera sua storia, dentro i suoi confini e al di là di essi. Se però noi continueremo a guardare questo conflitto da una parte piuttosto che dall'altra, non riusciremo a vedere la verità: l'unica soluzione possibile per le aspirazioni di entrambi è quella dei due Stati, dove israeliani e palestinesi possono vivere nella pace e nella sicurezza. Questa soluzione è nell'interesse di Israele, della Palestina, dell'America e del mondo intero.
È quella alla quale alludo espressamente quando affermo di volermi dare da fare personalmente, con tutta la pazienza e la dedizione che questo importante obiettivo richiede. Le parti che hanno sottoscritto la Road Map hanno vincoli e obblighi precisi: per arrivare alla pace è fondamentale che loro, e noi tutti, onoriamo finalmente le nostre rispettive responsabilità.
I palestinesi devono abbandonare la violenza: la resistenza violenta e le stragi sono sbagliate e non portano a risultati. Per secoli in America gli uomini di colore hanno sofferto per le frustate quando erano schiavi e hanno patito l'umiliazione e la segregazione, ma non è stata la violenza a far loro ottenere uguali diritti come i bianchi. Ci sono riusciti solo con una pacifica e determinata insistenza sugli ideali di fondo dell'America.
La stessa cosa è accaduta ad altri popoli, in Sudafrica, in Asia meridionale, in Europa dell'Est e in Indonesia. Ciò insegna una semplice verità di fondo: la violenza è una strada a senso unico, e lanciare missili sui bambini nel sonno, o far saltare in aria donne anziane sugli autobus non è coraggio, non è forza. Non è così che si afferma l'autorità morale.
Anzi, così l'autorità morale capitola per sempre.
Adesso i palestinesi devono concentrarsi su ciò che possono costruire: l'Autorità Palestinese deve migliorare la sua capacità di governare con istituzioni che si mettano davvero al servizio dei bisogni della loro gente. Hamas ha qualche sostegno tra i palestinesi, ma deve anch'essa assumersi le sue responsabilità: per rivestire un ruolo determinante nelle aspirazioni dei palestinesi, per unire il suo popolo, Hamas deve farla finita con la violenza, riconoscendo gli accordi presi, impegnandosi per riconoscere il diritto a esistere di Israele.

Allo contempo, gli israeliani devono ammettere che proprio come il diritto a esistere di Israele non si può in alcun modo mettere in discussione, così è per la Palestina: gli Stati Uniti non approvano i continui insediamenti dei coloni israeliani, che violano i precedenti accordi e compromettono gli sforzi per la pace. È giunta l'ora che questi insediamenti di coloni siano chiusi. Israele deve dimostrare di mantenere le proprie promesse e assicurare ai palestinesi di vivere, lavorare, migliorare la loro società: la continua crisi umanitaria a Gaza è un assillo per le famiglie palestinese e non è di giovamento alla sicurezza di Israele. Né è di giovamento la costante mancanza di opportunità, di lavoro, di occasioni in Cisgiordania. La vita quotidiana del popolo palestinese deve migliorare se si vuole arrivare alla pace e Israele deve fare i passi necessari a rendere possibile questo miglioramento.

Infine, gli Stati Arabi devono ammettere che la loro Arab Peace Initiative è un primo passo importante, ma non esaurisce le loro responsabilità individuali. Il conflitto israelo-palestinese non deve più essere usato per distogliere l'attenzione delle nazioni arabe da altri problemi. Al contrario, deve essere di stimolo ad agire per aiutare i palestinesi a creare le istituzioni che saranno le fondamenta e la premessa del loro Stato; per riconoscere la legittimità di Israele; per scegliere il progresso al posto dell'autolesionistica attenzione verso il passato.

L'America si allineerà con coloro che cercano la pace, e dirà apertamente ciò che si deciderà a porte chiuse con israeliani, palestinesi e arabi. Noi non possiamo imporvi. Lontano dai microfoni, però, molti musulmani ammettono che Israele non potrà scomparire, così come molti israeliani ammettono che uno Stato palestinese è necessario. È quindi arrivato il momento di agire per concretizzare ciò che tutti vogliono e sanno essere inconfutabile.
Si sono versate troppe lacrime. C'è stato troppo spargimento di sangue. Noi tutti abbiamo in comun la responsabilità di doverci dare da fare affinché un giorno le mamme israeliane e palestinesi possano vedere i loro figli crescere e giocare insieme senza paura; un giorno in cui la Terra Santa delle tre grandi religioni possa diventare quel luogo di pace che Dio voleva che fosse; quel giorno in cui Gerusalemme diverrà la dimora sicura ed eterna di ebrei, cristiani e musulmani uniti, la città di pace nella quale tutti i figli di Abramo convivranno come nella storia di Isra, quando Mosé, Gesù e Maometto (che la pace sia sempre con loro) si unirono in preghiera.

Terzo motivo di tensione è il nostro interesse nei diritti e nelle responsabilità delle nazioni verso le armi nucleari. Questo scottante argomento è stato motivo di grandi preoccupazioni per gli Stati Uniti e la Repubblica islamica iraniana: da molti anni Teheran ha preso le distanze, è ostile nei confronti del mio paese e in effetti tra i nostri popoli ci sono stati molti episodi violenti. In piena Guerra Fredda, gli Stati Uniti hanno partecipato al rovesciamento di un governo iraniano democraticamente eletto; dalla Rivoluzione Islamica in poi, l'Iran ha avuto un ruolo preciso facendo molti ostaggi e macchiandosi di episodi di violenza contro i soldati e i civili statunitensi. Tutto ciò è noto. Adesso, invece di rimanere invischiati nel passato, ho proposto apertamente alle autorità iraniane e al popolo iraniano di cambiare le cose, assicurando che il mio Paese è pronto ad andare oltre. La questione, adesso, non è tanto capire contro cosa sia l'Iran, ma quale futuro intenda scegliersi.

Sarà davvero difficile sorpassare interi decenni di diffidenza, ma andremo avanti lo stesso, con coraggio, con franchezza e con risoluzione.
I nostri paesi avranno molto di cui discutere, ma noi siamo disposti ad andare avanti in ogni caso, senza pregiudizi, rispettandoci a vicenda. È evidente che quando si tratta di armi nucleari si tocca un tema scottante: non è solo nell'interesse dell'America affrontarlo. Qui si tratta qui di fermare una corsa agli armamenti nucleari in Medio Oriente, che potrebbe portare l'intera regione e tutto il pianeta sull'orlo del baratro.
Comprendo chi protesta che alcuni paesi hanno le armi che altri non hanno, e nessuna nazione dovrebbe scegliere e decidere al posto delle altre quali debbano avere o meno l'atomica. Per questo ho ripetuto con forza l'impegno dell'America a fare il possibile per un futuro nel quale nessuna nazione abbia più armi nucleari. Tutte le nazioni - compreso l'ran - dovrebbero avere accesso all'energia nucleare a scopi pacifici, ma solo se rispettano i loro obblighi e le responsabilità incluse nel Trattato di Non Proliferazione. Questo è il fondamento del Trattato e deve essere rispettato da tutti coloro che lo hanno firmato. Spero vivamente che tutti i paesi nella regione condividano il mio obiettivo.
Il quarto argomento di cui voglio parlarvi è la democrazia. So che negli ultimi anni ci sono state molte polemiche su come debba essere incentivata la democrazia e molte di esse sono da rapportare alla guerra in Iraq. Sarò chiaro: nessun sistema di governo può o deve mai essere imposto da una nazione a un'altra. Questo non vuol dire, chiaramente, che il mio impegno nei confronti dei governi che riflettono il volere dei loro popoli è minore. Ciascuna nazione dà vita a questo principio a modo suo, sulla base delle tradizioni del suo popolo: l'America non pretende di sapere che cosa sia meglio per ogni nazione, così come noi non condizionerebbe mai il risultato di elezioni regolari e pacifiche. Sono però convinto che tutti i popoli aspirano alle medesime cose: la possibilità di parlare ed esprimersi liberamente, di decidere come vogliono essere governati; la fiducia nella legge e nell'equa amministrazione della giustizia; un governo trasparente che non si approfitti del popolo; la libertà di vivere come vuole. Questi non sono ideali americani esclusivi, ma diritti umani, ed è per questo che noi li appoggeremo ovunque.
La strada per realizzare queste cose è sicuramente tortuosa, ma una cosa è chiara: i governi più stabili, quelli di maggior successo, i più sicuri sono quelli che che proteggono e tutelano i diritti umani. Reprimere gli ideali non è mai servito a farli scomparire: l'America rispetta il diritto di tutte le persone pacifiche che rispettano la legalità a farsi sentire ovunque, anche quando sono in disaccordo con loro, e accetterà e riconoscerà tutti i governi pacificamente eletti, a condizione che governino rispettando i loro popoli.
Quest'ultimo punto è molto importante, perché ci sono persone che vogliono la democrazia soltanto quando non sono al potere, poi, una volta che si sono arrivate, sopprimere i diritti altrui con ferocia e spietatezza.
Non importa chi è al potere: deve essere il governo del popolo, eletto dal popolo a fissare l'unico metro di giudizio per coloro che sono al potere, e si deve rimanere al potere solo col consenso popolare, mai con la coercizione; rispettando i diritti delle minoranze e partecipando con uno spirito di tolleranza e di compromesso; mettendo gli interessi del popolo e lo sviluppo del processo politico in primo piano, anche sopra il proprio partito: senza questi elementi fondamentali, le elezioni non bastano a dar vita a una vera democrazia.

Il quinto argomento che vorrei affrontassimo tutti insieme è la libertà di religione: l'Islam è fiera della propria tradizione di tolleranza, constatabile nella storia dell'Andalusia e di Cordoba ai tempi dell'Inquisizione. Da bambino in Indonesia ho visto io stesso che i cristiani erano liberi di esercitare la loro pratica religiosa in un paese a stragrande maggioranza musulmana. È questo lo spirito che deve animarci anche oggi: gli uomini di tutti i paesi devono essere liberi di scegliere e praticare la loro fede sulla sola base delle loro convinzioni personali, la loro predisposizione, la loro anima, il loro cuore. La tolleranza è fondamentale perché la religione possa crescere, ma purtroppo essa è minacciata in molteplici modi.
In alcuni musulmani c'è la preoccupante tendenza a quantificare la propria fede in misura proporzionale al respingimento di tutte le altre.

La ricchezza della diversità religiosa deve essere sostenuta, invece, sia nel caso dei maroniti in Libano sia dei copti in Egitto, e anche le linee di separazione tra le varie confessioni religiose devono essere sfumate tra gli stessi musulmani, tenuto conto che le divisioni tra sunniti e shiiti hanno provocato violenze inaudite, specialmente in Iraq.
La libertà di religione è di cruciale importanza per la capacità di convivenza dei popoli. Dobbiamo sempre vagliare con attenzione le modalità con le quali la proteggiamo: per esempio, negli Stati Uniti le norme che regolano le donazioni agli enti di beneficienza hanno complicato gli obblighi religiosi per i musulmani senza che ce ne fosse bisogno. Per porvi rimedio ho promesso di lavorare con i musulmani americani in modo tale che possano obbedire al precetto dello zakat.
Similmente, è importante che i Paesi occidentali impediscano di proibire ai cittadini americani di praticare la religione loro ritengono più giusto, per esempio legiferando che cosa debba indossare una donna musulmana: in nessun caso possiamo nascondere l'ostilità nei confronti di una religione qualsiasi con la scusa del liberalismo. La fede dovrebbe avvicinarci e per questo stiamo studiando dei progetti in America che possano coinvolgere insieme cristiani, musulmani ed ebrei. Stiamo anche accogliendo positivamente vari sforzi come il dialogo interreligioso del re Abdullah dell'Arabia saudita e le autorità turche nell' Alliance of Civilizations. Ovunque nel mondo possiamo trasformare il dialogo in un servizio interreligioso, così da colmare la distanza tra i popoli e arrivare a interventi concreti, come combattere la malaria in Africa o portare aiuto e sollievo dopo un disastro naturale.
Il sesto problema di cui vorrei ci occupassimo tutti insieme riguarda le donne e i diritti delle donne: si discute molto di questo e per quanto mi riguarda respingo l'opinione di chi in Occidente pensa che se una donna sceglie di velarsi i capelli sia in qualche modo "meno uguale". So tuttavia con certezza che negare alle donne la possibilità di istruirsi significa sicuramente privare le donne di uguaglianza: non è casuale che i Paesi nei quali le donne possono studiare hanno maggiori probabilità di essere prosperi.
Su questo punto non vorrei ci fossero dubbi: la questione dell'eguaglianza delle donne non concerne l'Islam, tanto è vero che in Turchia, in Pakistan, in Bangladesh e in Indonesia e in altri paesi a maggioranza musulmana hanno eletto al governo una donna. Ma la battaglia per la parità dei diritti per le donne continua anche nella quotidianità americana e in altri Paesi di tutto il mondo.

Le nostre figlie possono dare alle nostre società un contributo uguale a quello dei nostri figli, e la nostra comune ricchezza si avvantaggerà consentendo a tutti gli esseri umani, uomini o donne che siano, di raggiungere il loro potenziale umano. Non penso che una donna per essere considerata uguale a un uomo debba prendere le medesime decisioni , e rispetto tutte le donne che nel mondo scelgono di vivere assolvendo ai loro compiti tradizionali. In ogni caso questa dovrebbe essere sempre e comunque una loro scelta. Gli Stati Uniti si assoceranno a qualsiasi paese a maggioranza musulmana che intenda sostenere il diritto delle bambine ad accedere all'istruzione, e voglia aiutare le giovani a cercarsi o crearsi un'occupazione tramite il microcredito,che tanto aiuta a realizzare i propri sogni.
Vorrei parlare infine di sviluppo economico e di opportunità, sapendo che per molti il volto della globalizzazione è contraddittorio: Internet e televisione possono facilitare la conoscenza, trasmettere informazione, ma al contempo forme di sessualità e di violenza offensive e insensate. Anche i commerci possono apportare ricchezza, ma al contempo grossi problemi e cambiamenti per le piccole comunità. In tutte le nazioni, America inclusa, questo cambiamento porta paura, timore, paura che per la modernità si possa perdere il controllo sulle scelte economiche, le scelte politiche, e ancora più importante le identità peculiari, ovvero ciò che abbiamo di più caro nelle nostre comunità, famiglie, tradizioni e religione.
Ma io so anche che il progresso umano è inarrestabile: non ci deve essere contraddizione tra sviluppo e tradizione; in paesi come Giappone e Corea del Sud l'economia continua a crescere e le tradizioni culturali restano invariate, come del resto avviene con lo straordinario progresso di paesi a maggioranza musulmana come Kuala Lumpur e Dubai. Nei tempi antichi come anche oggi, le comunità musulmane sono sempre state all'avanguardia dell'innovazione e dell'educazione.
Quanto ho detto è importante, perché nessuna strategia di sviluppo può basarsi solo su ciò che nasce dalla terra, né può essere sostenibile sul lungo periodo se molti giovani non hanno lavoro. Molti Stati del Golfo hanno vissuto in tempi recenti un'incredibile arricchimento dovuto al petrolio, e alcuni stanno programmando seriamente uno sviluppo a più ampio raggio. In ogni caso dobbiamo riconoscere che l'educazione e l'innovazione saranno la moneta corrente del XXI secolo che e in troppe comunità musulmane continuano a non essere previsti investimenti adeguati. Nel mio paese sto cercando di dare grande rilievo a investimenti di questo tipo: se prima l'America dipendeva dal petrolio e dal gas di questa regione del mondo, adesso intende procedere con qualcosa di completamente diverso.
Passando all'istruzione, espanderemo i nostri programmi di scambi culturali, aumentando le borse di studio (come quella di cui usufruì mio padre per studiare in America), incoraggiando un numero maggiore di americani a studiare nelle comunità musulmane. Procureremo agli studenti musulmani più promettenti la possibilità di studiare da interni, investiremo sull'insegnamento online per insegnanti e studenti di tutto il mondo; creeremo un nuovo network online, così che un ragazzino del Kansas possa scambiare in tempo reale informazioni con un ragazzino del Cairo.
Per quanto riguarda lo sviluppo economico, creeremo un nuovo ente di volontariato per le aziende che lavori con le controparti in paesi a maggioranza musulmana, organizzeremo un summit sull'imprenditoria per identificare in che modo stringere più stretti rapporti di collaborazione con i leader aziendali, le fondazioni, le grandi società, gli imprenditori degli Stati Uniti e delle comunità musulmane sparse nel mondo.
Dal punto di vista della scienza e della tecnologia, lanceremo un nuovo fondo per sostenere lo sviluppo tecnologico nei paesi a maggioranza musulmana, e aiutare la concretizzazione e la commercializzazione di alcune idee, creando nuovi posti di lavoro. Apriremo centri di eccellenza scientifica in Africa, in Medio Oriente e nel Sudest asiatico; sceglieremo nuovi inviati scientifici per a programmi che sviluppino nuove risorse energetiche, per creare posti di lavoro "verdi", seguire da vicino i successi, fornire acqua pulita e coltivare nuove specie. Oggi annuncerò anche un nuovo sforzo globale con l'Organizzazione della Conferenza Islamica avente l'obiettivo di sradicare la poliomielite, ed espanderemo le forme di collaborazione con le comunità musulmane per favorire e promuovere la salute delle donne e dei bambini.
Tutte queste cose dovremo farle insieme: gli americani sono pronti ad allearsi ai governi e ai cittadini di tutto il mondo, alle organizzazioni comunitarie, agli esponenti religiosi, alle aziende delle comunità musulmane di tutto il mondo per permettere a tutti i popoli di vivere una vita migliore.
I problemi di cui vi ho parlato non sono facili da risolvere, ma abbiamo la responsabilità di allearci per il bene e il futuro del mondo che vogliamo creare, un mondo nel quale gli estremisti non possano più minacciare i nostri popoli e nel quale i soldati americani possano tornare in patria; un mondo nel quale gli israeliani e i palestinesi siano al sicuro nei loro Stati e l'energia nucleare sia usata soltanto a scopi pacifici; un mondo nel quale i governi siano al servizio dei loro cittadini e i diritti di tutti i figli di Dio siano sempre rispettati. Questi sono interessi comuni, condivisi; questo è il mondo che vogliamo,ma potremo arrivarci soltanto insieme.

Molte persone - musulmane e non musulmane - mettono in dubbio la possibilità di dar vita a questo nuovo inizio: alcune sono impazienti di fomentare le divisioni, e intralciare in ogni modo il progresso. Alcune lasciano capire che è tutto inutile perché siamo predestinati a non andare d'accordo, e le civiltà sono predestinate a scontrarsi. Molte altre sono semplicemente scettiche, dubitano che un cambiamento possa mai aver luogo.
Ci sono paura e diffidenza: se sceglieremo di rimanere ancorati al passato, di sicuro non potremo mai fare passi avanti. Lo voglio dire con particolare chiarezza ai giovani di ogni religione e di ogni Paese: voi, più di chiunque altro, avete la possibilità di cambiare il mondo.

Tutti noi condividiamo questo pianeta per un solo istante nel tempo: la domanda quindi che dobbiamo porci è se preferiamo trascorrere questo istante a concentrarci su ciò che ci divide o se non sia preferibile impegnarci insieme, con un lungo e impegnativo sforzo, per trovare un terreno comune di intesa, per preparare tutti insieme il futuro che vogliamo dare ai nostri figli, e per rispettare la dignità di tutti gli esseri umani.

È più facile iniziare una guerra che finirla. È più facile accusare gli altri invece che guardarsi dentro. È più facile osservare le differenze di ciascuno di noi che le cose che abbiamo in comune, ma nostro dovere è scegliere lla strada giusta, non la più facile. C'è un unico comandamento dietro ogni religione: fate agli altri quello che vorreste che gli altri facessero a noi. Questa verità trascende nazioni e popoli. È un principio, un valore antico. Non è nero, non è bianco, non è marrone, non è cristiano, non è musulmano, non è ebreo. É un principio che si è andato affermando dalla notte dei tempi della civiltà, e che tuttora palpita nel cuore di miliardi di persone: è la fiducia nel prossimo, è la fiducia negli altri, ed è ciò che mi ha condotto qui oggi.

Abbiamo la possibilità di creare il mondo che vogliamo, ma soltanto se avremo il coraggio di dare il via a un nuovo inizio, tenendo a mente ciò che è nelle Sacre Scritture: il Corano dice: «Oh umanità! Sei stata creata maschio e femmina, e divisa in nazioni e tribù, così da poterti conoscere meglio». Nel Talmud si dice: «La Torah ha per unico scopo la promozione della pace». E la Santa Bibbia dice: «Beati coloro che portano la pace, perché saranno chiamati figli di Dio».
I popoli di tutta la Terra possono convivere in pace: noi sappiamo che questo è il volere di Dio, e che questo è il nostro dovere su questa Terra. Grazie, e che la pace di Dio resti sempre con voi.

4 giugno 2009