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mentono sapendo di mentine

lunedì 2 febbraio 2009

Un popolo arcaico fraterno e fedele

Repubblica — 01 febbraio 2009 pagina 30 sezione: CULTURA
Ho vissuto per venti mesi, i venti mesi della guerra partigiana, dall' 8 settembre del '43 al 25 aprile del '45, sulle montagne dei vinti, fra i montanari del Cuneese, un altro popolo, povero, arcaico, ma fraterno e fedele. Parlavamo tra noi la stessa lingua: l' occitano, la lingua d' oc, il provenzale dalle Alpi ai Pirenei, ma allora chi lo sapeva? Chi nel nostro gruppo salito da Cuneo alla borgata Damiani in Valle Grana sapeva di stare in uno dei centri della cultura occitana, il Comboscuro? Chi di noi diceva bo per dire sì? Nei primi giorni non ci fu tempo per conoscere il popolo dei vinti, la guerra di casa in cui venivamo trascinati fra terrore e stupore non concedeva distrazioni.
Strana guerra tra l' imprevedibile ferocia, gli incendi, le stragi e il paesaggio familiare, i luoghi e le conoscenze di sempre. Eravamo scesi allo sbocco delle valli nella pianura e da lì guardavamo il fumo degli incendi, a Boves riconoscevamo le case di campagna dei nostri amici, a volte i tedeschi sparavano cannonate anche nella nostra direzione, perché il terrore arrivasse dovunque, ti passava sopra, nel cielo azzurro e freddo del mattino come un treno merci, un rombo metallico che ti schiacciava. E subito tornavano la pace e il silenzio, il disegno dei campi, dei boschi, dei villaggi, intatto. In quel gelido rovente autunno il popolo dei vinti sulle montagne del Cuneese si era ricomposto, molti degli emigrati a coltivare fiori nelle serre del Nizzardo o della Provenza erano tornati nelle valli credendo di trovare riparo dalla guerra. E si trovavano in mezzo alla guerra più spietata, alla guerra partigiana. Per molti una sorpresa, un' allucinazione, una confusione in cui cercavano di sopravvivere: con chi stare? con i partigiani o con i tedeschi? Con chi parlava la loro lingua, con i partigiani. Un riconoscimento elementare di appartenenza, non politico ma decisivo, checché ne dicano oggi gli storici della "zona grigia", secondo cui gli italiani qualsiasi, anche i montanari, stavano a guardare, aspettavano di capire chi avrebbe vinto. A guardare? Ma dove erano questi storici? Non lo sanno che quando in un paese arrivavano le Brigate Nere o le Ss la gente chiudeva le porte e le finestre, faceva il deserto attorno al nemico? Fra i vinti ritornati nelle loro montagne c' erano i coraggiosi e i vili, i saggi e i mattocchi, le rocce fedeli e i povericristi. A uno degli storici della zona grigia ho scritto: «Caro professore, forse una memoria complessiva e condivisa di quei giorni è impossibile, forse ognuno di noi resta fermo alle sue personali esperienze. Ma voglio raccontargliene una, e poi mi dica se non è decisiva, chiara, convincente. A Capodanno del '45 con due brigate di Giustizia e Libertà partiamo dalla Valgrana per raggiungere con una marcia di oltre cento chilometri, armi e bagagli in spalla, le colline del vino e del pane bianco, le Langhe. Si camminava per i campi di neve ghiacciata, ci fermavamo per tirare il fiato nelle cascine, per scambiare due parole con i contadini. "Buon anno parin". "Sì - diceva il parin, il padre della famiglia - speriamo che sia l' ultimo". L' ultimo in cui sulla porta di casa bisognava appendere l' avviso del comando tedesco: "Chiunque ospiterà i partigiani sarà condannato a morte e la sua casa bruciata". Ebbene professore, in quei due giorni che durò la nostra marcia non mi venne mai il terribile sospetto che qualcuno dei contadini ci potesse tradire, nemmeno quando ci fermammo a dormire in una cascina dei Murazzi e si sentivano passare sulla provinciale i camion dei tedeschi». Fra i montanari vinti c' erano i forti come i deboli e i mattocchi. Uno forte come una roccia era Marella, il taglialegna della Valgrana a cui i tedeschi nel rastrellamento del dicembre '43 bruciarono la casa e la segheria. Andammo a trovarlo l' indomani che le macerie fumavano ancora e veniva giù dalle travi e sui muri l' acqua sciolta dal fuoco che ti sembrava che tutto stesse andandosene in quell' acqua sporca, e lui ci offriva il vino di una bottiglia rimasta intatta e diceva: «Un errore i tedeschi lo fanno sempre. Mi hanno bruciato la casa e la segheria. Non ho più niente da perdere. Posso solo combatterli». Ma i più forti di tutti erano i mattocchi e gli ubriaconi. I mattocchi in quella guerra sconosciuta avevano occhi febbrili e deliravano. Uno dei due fratelli tornati in una grangia sperduta nei boschi di Monterosso in Valgrana, vedendoci passare assieme ai soldati inglesi fuggiti da un campo di prigionia, ci correva dietro gridando al fratello: «Arrivano i rinforzi ai Damiani. Sun sbarcà gli inglès». Si chiamava Pinot ed era uomo di fantasia, ci indicava il luogo in cui avremmo messo l' aeroporto per arrivare in giornata da Nizza al fresco. E c' erano gli ubriaconi canterini e invulnerabili, avevano deciso il giorno in cui sarebbero partiti per la loro grande ciucca annuale, e quel giorno partivano, cascasse il mondo o cominciasse un rastrellamento. Il marito della Puni, l' ostessa della Margherita, se ne andò giù per il vallone di Combamala proprio il mattino che lo risalivano gli Alpenjaeger nazisti, che lo lasciarono passare. Eppure lo videro certamente, perché cantava a voce rauca che anche noi lo sentivamo dalla Margherita. Rimase via per venti giorni e tornò fresco e allegro come era partito, e la Puni fece finta che fosse il giorno stesso. C' erano anche i dispersi fra i vinti, dimenticati in qualche baita diroccata della montagna. La notte del 6 dicembre del '43, in fuga dai tugnin, insomma dai crucchi di Germania, salii al valico del monte Bram sotto una nevicata fitta, scesi per il vallone dell' Arma fin che vidi una lucina e bussai alla porta della grangia. Dentro c' era uno dei montanari vinti che stava consumando la sua cena, una broda giallastra in cui nuotava uno spaghetto bianco. Mi chiese «se volevo favorire». Lo ringraziai ma preferii andare nella stalla a dormire insieme a due mucche macilente. Nel buio sentivo i flop delle loro cacche che scivolavano a terra rasentando i miei scarponi. - GIORGIO BOCCA

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