Per millenni il monte anonimo, poi il Mont Maudit, inaccessibile e maledetto, il pilone di granito che chiude la Val d'Aosta e domina la catena alpina, visibile dalla lontana Ginevra: un pan di zucchero lontano che galleggia nell'azzurro del cielo. Per millenni né Italia, né Francia, né Savoia, troppo alto, troppo grande per appartenere a uno Stato o a un municipio.
Gli abitanti delle valli che lo circondano lo chiamavano Harp, che vuol dire "alta montagna", di cui abbiamo avuto notizia quando sui roccioni che dominavano Courmayeur apparvero in vernice bianca delle grandi "H" scritte dai separatisti. Le patrie che circondano il gigante finiscono sui ghiacciai sopra i quattromila metri, più in alto, si sono avventurati per secoli solo i raccoglitori di cristallo come Balmat, il primo scalatore della montagna.
Sopra i quattromila gli antichi non si avventuravano, agli antichi le altitudini non interessavano, le lasciavano ai camosci e alle marmotte, ecco perché sulle carte le disegnavano tutte uguali: a denti di sega senza nome.
Sopra i tremila niente è cambiato in questi secoli. La linea dei boschi è rimasta stabile, i ghiacciai camminano un po' su e un po' giù. Sono invece in mutamento continuo gli uomini, gli animali, le macchine, le case. Non ci sono più i gamberi di fiume nella Dora, i ranocchi nelle acque ferme del marais in Val Veny, i ballatoi di legno, i mulini ad acqua, gli spartineve trainati dai cavalli, le file dei muli che salivano i valichi, le slitte per le corvée, quando di neve ne veniva giù cinque o sei metri.
A Courmayeur, sotto il Bianco, si coltivava tra i turisti una necrofilia alpina: l'elenco di tutti i morti da slavina o da valanga. Si ripercorreva con zelo il loro ultimo cammino, riponendoci le domande inutili sulle sciagure avvenute. Perché avessero perso l'equilibrio in un passaggio facile, come Gervasutti, il grande alpinista chiamato il Fortissimo, in una elementare corda doppia. Nel regno del bianco c'era un altro svago canonico: riconoscere, ricordare, tutti i nome delle vette, o aiguilles, o denti, o picchi, o vedrette o combe, o laghi come corredo di favole e leggende. "E voi montagne ci guardate, ci guardate, ma non siete mai cadute".
Che ha voluto dire Elias Canetti? Che fra noi uomini e loro montagne c'è un rapporto impari, metafisico, le nostre mode contro la loro immobilità, le nostre passioni contro la loro indifferenza. Noi, che per secoli le abbiamo ignorate, improvvisamente abbiamo rivolto loro un'attenzione morbosa.
Ho intervistato scalatori famosi, ancor presi dalla montagna come una donna bellissima e assassina. La conquista del Monte Bianco è un compendio della cultura romantica dell'Europa felix prima delle guerre mondiali. Il gigante come un miraggio cui si davano mutevoli nomi: Alpis Albus, Saxus Albus, Malé, Maudit, e si immaginava che lassù, dietro la vetta, ci fosse un gigantesco serbatoio di neve da cui scendevano le lingue di ghiaccio. Arrivò per primo in vetta Balmat, con un medico di Chamonix, e poi fu la volta dello scienziato ginevrino De Saussure, che restò per tre ore sulla vetta coi suoi strumenti scientifici, e poi fu il turno di una donna, Henriette d'Angeville, che aveva per motto "vouloir c'est pouvoir".
Meno romantica la scalata di un'altra donna, Marie Paradis, una valligiana portata su di peso dalle guide di Chamonix, per fare reclame sui giornali. C'è stata anche la Courmayeur degli antifascisti, le amate montagne che gli antifascisti torinesi vedevano in fondo ai corsi alberati e diritti delle loro città. Amate perché sicure per le loro amicizie e per i loro discorsi, perché il fascismo era degli aviatori, dei bersaglieri e non degli alpini.
La Repubblica (11 marzo 2008)
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