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mentono sapendo di mentine

venerdì 5 giugno 2009

Per un nuovo inizio. Il discorso di Obama ai musulmani


Cairo, Egitto, 4 giugno 2009 - È un onore per me trovarmi qui al Cairo, in questa città antichissima, ed essere ospite di due importantissime istituzioni: da oltre un migliaio di anni l'Università Al-Azhar è il faro della cultura islamica e da oltre un secolo l'Università del Cairo è la culla del progresso di questo paese.
Queste due istituzioni rappresentano l'alleanza di tradizione e progresso.
Sono grato per questa ospitalità e l'accoglienza che il popolo egiziano mi riserva, sono anche fiero di avere con me le buone intenzioni del popolo americano, e potervi salutare con il saluto di pace delle comunità musulmane d'America: assalaamu alaykum.

Mi trovo qui in un periodo di grande tensione tra gli Stati Uniti e i musulmani di tutto il pianeta, una tensione che ha le sue cause nelle forze storiche che trascendono qualsiasi dibattito politico attuale. Il rapporto tra Islam e Occidente ha alle spalle secoli di convivenza e cooperazione, ma pure di conflitti e di guerre di religione. In tempi più vicini a noi, questa tensione è stata acuita dal colonialismo che ha negato diritti e opportunità a molti musulmani, e dalla Guerra Fredda durante la quale i paesi a maggioranza musulmana molto spesso furono trattati come paesi per procura, nei quali non si teneva conto delle loro relative aspirazioni; inoltre i cambiamenti portati dal processo di modernizzazione e dalla globalizzazione hanno spinto molti musulmani a considerare l'Occidente nemico e ostile verso le tradizioni dell'Islam.
Violenti estremisti hanno approfittato di queste tensioni esercitando pressioni su una minoranza piccola ma solida di musulmani.

Gli attentati dell'11 settembre 2001 e gli sforzi incessanti di questi estremisti per effettuare attentati contro civili innocenti hanno di conseguenza indotto alcune persone in America a considerare l'Islam come ostile non solo nei confronti dell'America e dei paesi occidentali in genere, ma anche dei diritti umani nel loro complesso e tutto ciò ha implicato altre paure, maggiori diffidenze.

Finché i nostri rapporti si baseranno sulle nostre reciproche differenze, daremo maggiore potere a coloro che aspirano all'odio invece che alla pace, quelli che si danno da fare per il conflitto invece che per la collaborazione che potrebbe aiutarci tutti a ottenere giustizia e a raggiungere la prosperità. Adesso dobbiamo mettere fine a questo ciclo di diffidenze e animosità.
Mi trovo qui oggi per cercare di dare un nuovo inizio al rapporto tra Stati Uniti e i musulmani di tutto il mondo, per un nuovo rapporto che si basi sull'interesse reciproco e sul rispetto; per un nuovo rapporto che si fondi su una verità ben precisa: America e Islam non si escludono a vicenda, non devono essere per forza in competizione. Al contrario, America e Islam possono avere posizioni convergenti, condividere i medesimi ideali, il senso della giustizia e del progresso, la tolleranza e la dignità dell'uomo.

Sono consapevole che questo importante cambiamento non potrà avvenire in un istante: nessun discorso potrà cancellare del tutto una diffidenza che dura da anni. Sono anche consapevole di non essere in grado, nel tempo che avrò a disposizione, di porre rimedio a ogni complicata questione che ci ha portati fino a questo punto. Sono in ogni caso convinto che se intendiamo andare avanti dovremo da ora in poi aprirci, rivelare ciò che abbiamo nel cuore e che troppo spesso diciamo soltanto a porte chiuse. Dovremo darci da fare per promuovere uno sforzo duraturo per ascoltarci, per imparare uno dall'altro, per rispettarci, per cercare un terreno di intesa. Nel Corano si legge: «Siate consci di Dio e dite solo la verità». Io cercherò di farlo, di dire la verità quanto meglio possibile, con umiltà di fronte all'importante compito che mi sta davanti, decisamente convinto che gli interessi che condividiamo perché apparteniamo a un unico genere umano sono molto più potenti delle forze che ci respingono.

In parte, le mie opinioni si basano sulla mia stessa esperienza: sono cristiano, ma mio padre proveniva dal Kenya e aveva una famiglia che per generazioni intere era stata musulmana. Quando ero piccolo ho passato molti anni in Indonesia, e ascoltavo sempre al chiarore delle prime luci dell'alba e al calare delle tenebre la chiamata dell'azaan. Da giovane ho poi prestato servizio in alcune comunità di Chicago presso le quali molte persone trovavano dignità e tranquillità interiore nella loro fede musulmana.

Da studente di Storia ho imparato quanto la civiltà sia debitrice nei confronti dell'Islam: è stato l'Islam infatti - in centri di cultura come l'Università Al-Azhar - a tenere alta la fiaccola del sapere per molti secoli, preparando la strada al Rinascimento europeo e all'Illuminismo; sono state le comunità musulmane con l'innovazione a sviluppare scienze varie, come l'algebra, e strumenti per la navigazione come la bussola magnetica; a far avanzare la scrittura e la stampa; la comprensione di come si propagano le malattie e come sia possibile curarle. La cultura islamica ci ha donato arcate maestose e cuspidi elevate; poesie immortali e musiche celesti; calligrafie eleganti e luoghi per meditare: per tutta la sua storia, l'Islam ha dimostrato a parole e con azioni la possibilità di vivere in piena tolleranza religiosa e uguaglianza tra le razze.
L'Islam ha avuto una parte di grande rilievo nella storia americana: la prima nazione a riconoscere il mio paese fu il Marocco. Il nostro secondo presidente, John Adams, firmando il Trattato di Tripoli nel 1796 scrisse: "Gli Stati Uniti non hanno di per sé alcun motivo di ostilità nei confronti delle leggi, della religione e dello stile di vita dei musulmani". Dalla fondazione degli Stati Uniti, i musulmani americani hanno valorizzato il mio paese, combattuto nelle guerre, prestato servizio nel governo, lottato per i diritti civili, fondato aziende, insegnato nelle nostre università. Hanno avuto la meglio in molteplici sport, vinto Premi Nobel, costruito i nostri edifici più alti e acceso anche la Torcia Olimpica. Quando poco tempo fa il primo musulmano americano è stato eletto al Congresso degli Stati Uniti, ha giurato di difendere la nostra Costituzione sullo stesso Corano che uno dei nostri Padri Fondatori - Thomas Jefferson - conservava nella propria biblioteca.

Dunque io ho conosciuto l'Islam in tre continenti, prima di arrivare qui, dove esso fu rivelato agli uomini per la prima volta. La mia esperienza ispira la mia opinione che un rapporto tra America e Islam deve basarsi su ciò che l'Islam è, non su ciò che non è. Credo che rientra negli obblighi e nelle mie responsabilità di presidente degli Stati Uniti battermi contro ogni stereotipo negativo dell'Islam, ovunque esso si manifesta.

Questo stesso principio deve applicarsi però anche alla percezione dell'America da parte dei musulmani: proprio come i musulmani non rientrano tutti in un generico stereotipo, così l'America non rientra in quel generico stereotipo di impero interessato solo al proprio vantaggio.
Gli Stati Uniti sono stati uno dei più importanti luoghi di origine del progresso che il mondo abbia mai conosciuto: nacquero con una rivoluzione contro un impero; furono fondati sull'ideale che tutti gli esseri umani nascono uguali e per dare concretezza a queste parole gli americani hanno versato sangue e si sono battuti per secoli, anche fuori dai loro confini, in ogni angolo del mondo; sono stati plasmati da ogni cultura, proveniente da ogni zona del pianeta, e si ispirano a un unico ideale: E pluribus unum, ovvero "Da molti, uno".

Si è molto discusso sul fatto che un afro-americano di nome Barack Hussein Obama potesse mai essere eletto presidente degli Stati Uniti, ma la mia non è una storia unica: il sogno della realizzazione personale non si è concretizzato per tutti in America, ma quel sogno, quella promessa, è anor oggi vivo per chiunque arrivi nella nostra patria, e ciò vale anche per i quasi sette milioni di musulmani americani che nel nostro paese hanno istruzione e stipendi più alti della media. La libertà in America anche la libertà di professare la propria religione: infatti in ogni Stato americano c'è almeno una moschea, e in totale se ne contano oltre 1.200.
Questo spiega per quale motivo il governo degli Stati Uniti si è rivolto ai tribunali per difendere il diritto delle donne e delle ragazze a indossare l'hijab e a punire quelli che vorrebbero proibirlo.
Non si discute: l'Islam è parte integrante dell'America, e io penso che l'America custodisca dentro di sé la verità che, a prescindere dalla razza, la religione, la posizione sociale, tutti condividiamo le stesse aspirazioni: quella di vivere in pace e sicurezza, di volere un'istruzione e un lavoro decoroso, di amare le nostre famiglie, le nostre comunità e il nostro Dio. Questo è ciò che abbiamo in comune e queste sono le speranze di tutto il genere umano.

Saper riconoscere la nostra comune appartenenza a un unico genere umano è solo l'inizio di quello che dobbiamo intraprendere. Le parole da sole non bastano a dare risposte concrete alle necessità dei nostri popoli che potranno essere soddisfatte qualora negli anni futuri sapremo agire con coraggio, se comprenderemo che le sfide che dobbiamo affrontare ci riguardano tutti e che se falliremo e non riusciremo a prevalere, ne subiremo tutti le conseguenze.
Abbiamo scoperto da poco che quando un sistema finanziario si indebolisce in una nazione, ne soffre la prosperità di tutte; che quando una nuova malattia contagia un uomo solo, tutti gli uomini sono in pericolo; quando una nazione vuole procurarsi una bomba atomica, il rischio di attacchi nucleari si moltiplica per tutte le nazioni; quando violenti estremisti agiscono in una striscia montagnosa lontana, la gente è a rischio anche al di là degli oceani; e quando degli innocenti disarmati sono sterminati in Bosnia e in Darfur, è la coscienza di tutti a uscirne infangata. Questo significa nel XXI secolo abitare uno stesso pianeta.

Questa è la responsabilità di ciascun essere umano. Si tratta di certo di una responsabilità difficoltosa di cui farsi carico: la storia umana è spesso stata tutto un susseguirsi di guerre tra nazioni e tribù che si dominavano per il loro tornaconto. Ma in questa nuova era, un atteggiamento simile si rivelerebbe autodistruttivo. Considerando quanto dipendiamo gli uni dagli altri, un eventuale ordine mondiale che dovesse sollevare una nazione o un gruppo di persone al di sopra di tutti gli altri sarebbe fatalmente destinato all'insuccesso. A prescindere da ciò che pensiamo del passato, non dobbiamo esserne prigionieri: i nostri problemi dobbiamo affrontarli collaborando, diventando soci, condividendo tutti insieme uno stesso progresso. Questo non vuol dire che dovremmo ignorare le cause e le tensioni, ma anzi, esattamente il contrario: dobbiamo affrontare le tensioni senza attendere oltre. E' con questo spirito che vorrei quindi passare a parlarvi quanto più chiaramente possibile di alcune questioni particolari che credo che dovremmo affrontare tutti insieme.
La prima questione che dobbiamo affrontare tutti insieme è la violenza estremista, in ogni sua forma: ad Ankara ho già detto sena equivoci che l'America non è, e non sarà mai, in guerra con l'Islam; in ogni caso, tuttavia, noi non daremo mai tregua agli estremisti violenti che rappresentano una grave minaccia per la nostra sicurezza, perché anche noi biasimiamo ciò che le persone di tutte le confessioni religiose biasimano, ovvero il massacro di uomini, donne e bambini innocenti. Come presidente ho il dovere, in primis, di proteggere il popolo americano.

La situazione in Afghanistan dimostra quali sono gli obiettivi americani e perché dobbiamo lavorare insieme: più di sette anni fa gli Stati Uniti lanciarono la caccia ad al Qaeda e ai Taliban con un forte sostegno internazionale. Non scegliemmo di farlo, ma dovemmo farlo per forza. Io so che alcuni mettono in discussione o motivano gli attentati dell'11 settembre, ma cerchiamo di essere chiari: quel giorno al-Qaeda sterminò quasi 3.000 persone,uomini, donne, bambini innocenti, americani e di molte altre nazioni, che non avevano fatto niente di male contro nessuno. Ma al-Qaeda scelse di proposito di massacrare quelle persone, rivendicò gli attentati, e ancora oggi proclama la propria intenzione di voler continuare a fare stragi di massa. Al-Qaeda ha affiliati e agenti in molti paesi, sta cercando di allargare il suo raggio di azione: queste non sono opinioni sulle quali fare polemica, ma dati di fatto da affrontare.

Non lasciatevi ingannare: noi non desideriamo che i nostri soldati restino in Afghanistan, non abbiamo intenzione di aprire basi militari stabili: è anzi logorante per gli americani continuare a perdere i suoi giovani uomini e le sue giovani donne in questo modo. È difficile, costoso e politicamente complicato continuare quel conflitto, e saremmo felici di rimpatriare tutti i nostri soldati se potessimo essere certi che in Afghanistan e in Pakistan non ci sono più estremisti violenti che complottano di massacrare quanti più americani possibile, ma non possiamo ancora esserne certi.
È per questo motivo che abbiamo messo insieme una coalizione di 46 paesi: nonostante i costi, l'impegno dell'America non è mai venuto meno.
In realtà, nessuno di noi dovrebbe mai sopportare l'estremismo, che ha colpito e ucciso in molti Paesi. Ha ammazzato persone di ogni religione, più di chiunque altro proprio i musulmani. Le azioni degli estremisti sono incompatibili con i diritti umani, con il progresso delle nazioni, con lo stesso Islam. Il Corano dice infatti che chiunque uccide un innocente è come se uccidesse l'intero genere umano, e chiunque salva un solo uomo, in realtà salva tutto il genere umano. La fede intima di più di un miliardo di persone è decisamente più potente dell'odio vigliacco di pochi. L'Islam non è il problema nella lotta all'estremismo violento, ma anzi parte fondamentale della promozione della pace.
Noi siamo consapevoli che la sola forza militare non risolverà i problemi in Afghanistan e in Pakistan: per questo stiamo progettando di investire 1,5 miliardi di dollari l'anno per i prossimi cinque anni per aiutare i pachistani a costruire scuole, ospedali, strade, e aziende, e distribuiremo anche centinaia di milioni di dollari per aiutare gli sfollati, oltre a 2,8 miliardi di dollari che daremo agli afgani per fare altrettanto, affinché migliorino la loro situazione economica e offrano i servizi di base che la popolazione si aspetta. Vorrei ora affrontare la questione dell'Iraq: a differenza di quella in Afghanistan, la guerra in Iraq è stata decisa, e questa scelta è stata fonte di enormi polemiche nel mio paese e in tutto il mondo. Benché io sia convinto che in fin dei conti il popolo iracheno vive oggi molto meglio senza il dittatore Saddam Hussein, penso anche che quanto è successo in Iraq sia servito all'America per afferrare meglio come ricorrere ai negoziati diplomatici e quale è l'utilità di un consenso internazionale per risolvere, ogniqualvolta sia possibile, i problemi. A questo riguardo, vorrei citare le parole di Thomas Jefferson che disse: «Spero che la nostra saggezza cresca in misura proporzionale alla nostra forza e ci insegni che quanto meno ricorreremo alla seconda tanto più saggi diverremo».
Il mio paese ha adesso una doppia responsabilità, quella di aiutare l'Iraq a crearsi un futuro migliore e quello di lasciare l'Iraq agli iracheni. Ho già detto espressamente a questi ultimi che l'America non ambisce ad avere alcuna base in territorio iracheno, non ha pretese da accampare sul suo territorio o sulle sue risorse. La sovranità dell'Iraq è esclusivamente irachena. Per questo motivo le nostre brigate combattenti per mio ordine dovranno ritirarsi entro il prossimo mese di agosto: rispetteremo questo impegno e l'accordo siglato con il governo iracheno democraticamente eletto di ritirare il contingente combattente dalle città irachene entro il mese di luglio e tutti i nostri soldati entro il 2012.
Aiuteremo l'Iraq a formare gli uomini delle sue Forze di Sicurezza, e a sviluppare la sua economia, ma offriremo questo aiuto a un Iraq sicuro e unito in vesti di partner e non di occupanti.
Proprio come l'America non può sopportare la violenza esercitata dagli estremisti, non può in alcun modo sconfessare i propri principi: l'11 settembre ha arrecato un trauma sconvolgente al mio paese, il terrore e la rabbia che quegli attentati hanno provocato sono comprensibili, ma in qualche caso ci hanno portato ad agire in modo contrario ai nostri stessi ideali. Adesso stiamo cercando di cambiare drasticamente linea di condotta: io ho proibito in modo lampante di usare la tortura, e ho dato disposizioni affinché il carcere di Guantánamo chiuda i battenti entro i primi mesi dell'anno prossimo. L'America, da adesso in poi, si difenderà rispettando la sovranità altrui e la legalità delle altre nazioni: lo farà insieme alle comunità musulmane, anch'esse minacciate e quanto prima esse isoleranno gli estremisti e li respingeranno, tanto prima saremo tutti più sicuri.

La seconda più importante causa di tensione della quale dobbiamo occuparci è la situazione tra israeliani, palestinesi e mondo arabo. Sono noti i solidi rapporti che legano Israele e Stati Uniti: questo è un vincolo inestinguibile che risale indietro nel tempo, ed è motivato dal riconoscimento che l'aspirazione a una nazione ebraica è legittimo.
Il popolo ebraico è stato perseguitato per secoli in tutto il mondo e in Europa l'antisemitismo è culminato nell'Olocausto, uno sterminio senza precedenti: domani visiterò Buchenwald, uno dei molti campi di concentramento nei quali gli ebrei furono schiavizzati, torturati, uccisi anche con il gas dal Terzo Reich. Sei milioni di ebrei morirono: un numero superiore alla popolazione odierna di tutto Israele. Smentire questa realtà è immotivato, è un atteggiamento da ignoranti, e fomenta l'odio. Minacciare poi Israele di distruzione - o ripetere stereotipi vigliacchi sugli ebrei - è decisamente sbagliato, e serve soltanto a riportare alla mente degli israeliani il ricordo più doloroso della loro storia, intralciando la pace che il popolo di quella regione si merita a tutti gli effetti.
È innegabile del resto che il popolo palestinese - cristiano e musulmano - ha sofferto anch'esso nel tentativo di avere una propria patria: da più di 60 anni affronta tutte le dolorose conseguenze della dispersione.
In moltissimi vivono sempre nell'attesa, nei campi profughi di Cisgiordania, di Gaza, e dei paesi vicini, aspettando pace e sicurezza che non hanno mai conosciuto. Tutti i giorni palestinesi affrontano umiliazioni grandi e piccole legate all'occupazione del loro territorio. Vorrei far capire che la situazione per il popolo palestinese è insopportabile e che l'America non girerà le spalle alla legittima aspirazione del popolo palestinese alla dignità, all'opportunità, a uno stato tutto suo.
Invece, sono decenni che tutto è fermo e la situazione è in stallo: due popoli con le loro aspirazioni, la loro storia difficile alle spalle aspettano un compromesso sempre più difficile da raggiungere. È semplice puntare il dito. Per i palestinesi è semplice accusare la fondazione di Israele del loro essere profughi. Per gli israeliani è facile accusare gli incessanti attentati che hanno costellato l'intera sua storia, dentro i suoi confini e al di là di essi. Se però noi continueremo a guardare questo conflitto da una parte piuttosto che dall'altra, non riusciremo a vedere la verità: l'unica soluzione possibile per le aspirazioni di entrambi è quella dei due Stati, dove israeliani e palestinesi possono vivere nella pace e nella sicurezza. Questa soluzione è nell'interesse di Israele, della Palestina, dell'America e del mondo intero.
È quella alla quale alludo espressamente quando affermo di volermi dare da fare personalmente, con tutta la pazienza e la dedizione che questo importante obiettivo richiede. Le parti che hanno sottoscritto la Road Map hanno vincoli e obblighi precisi: per arrivare alla pace è fondamentale che loro, e noi tutti, onoriamo finalmente le nostre rispettive responsabilità.
I palestinesi devono abbandonare la violenza: la resistenza violenta e le stragi sono sbagliate e non portano a risultati. Per secoli in America gli uomini di colore hanno sofferto per le frustate quando erano schiavi e hanno patito l'umiliazione e la segregazione, ma non è stata la violenza a far loro ottenere uguali diritti come i bianchi. Ci sono riusciti solo con una pacifica e determinata insistenza sugli ideali di fondo dell'America.
La stessa cosa è accaduta ad altri popoli, in Sudafrica, in Asia meridionale, in Europa dell'Est e in Indonesia. Ciò insegna una semplice verità di fondo: la violenza è una strada a senso unico, e lanciare missili sui bambini nel sonno, o far saltare in aria donne anziane sugli autobus non è coraggio, non è forza. Non è così che si afferma l'autorità morale.
Anzi, così l'autorità morale capitola per sempre.
Adesso i palestinesi devono concentrarsi su ciò che possono costruire: l'Autorità Palestinese deve migliorare la sua capacità di governare con istituzioni che si mettano davvero al servizio dei bisogni della loro gente. Hamas ha qualche sostegno tra i palestinesi, ma deve anch'essa assumersi le sue responsabilità: per rivestire un ruolo determinante nelle aspirazioni dei palestinesi, per unire il suo popolo, Hamas deve farla finita con la violenza, riconoscendo gli accordi presi, impegnandosi per riconoscere il diritto a esistere di Israele.

Allo contempo, gli israeliani devono ammettere che proprio come il diritto a esistere di Israele non si può in alcun modo mettere in discussione, così è per la Palestina: gli Stati Uniti non approvano i continui insediamenti dei coloni israeliani, che violano i precedenti accordi e compromettono gli sforzi per la pace. È giunta l'ora che questi insediamenti di coloni siano chiusi. Israele deve dimostrare di mantenere le proprie promesse e assicurare ai palestinesi di vivere, lavorare, migliorare la loro società: la continua crisi umanitaria a Gaza è un assillo per le famiglie palestinese e non è di giovamento alla sicurezza di Israele. Né è di giovamento la costante mancanza di opportunità, di lavoro, di occasioni in Cisgiordania. La vita quotidiana del popolo palestinese deve migliorare se si vuole arrivare alla pace e Israele deve fare i passi necessari a rendere possibile questo miglioramento.

Infine, gli Stati Arabi devono ammettere che la loro Arab Peace Initiative è un primo passo importante, ma non esaurisce le loro responsabilità individuali. Il conflitto israelo-palestinese non deve più essere usato per distogliere l'attenzione delle nazioni arabe da altri problemi. Al contrario, deve essere di stimolo ad agire per aiutare i palestinesi a creare le istituzioni che saranno le fondamenta e la premessa del loro Stato; per riconoscere la legittimità di Israele; per scegliere il progresso al posto dell'autolesionistica attenzione verso il passato.

L'America si allineerà con coloro che cercano la pace, e dirà apertamente ciò che si deciderà a porte chiuse con israeliani, palestinesi e arabi. Noi non possiamo imporvi. Lontano dai microfoni, però, molti musulmani ammettono che Israele non potrà scomparire, così come molti israeliani ammettono che uno Stato palestinese è necessario. È quindi arrivato il momento di agire per concretizzare ciò che tutti vogliono e sanno essere inconfutabile.
Si sono versate troppe lacrime. C'è stato troppo spargimento di sangue. Noi tutti abbiamo in comun la responsabilità di doverci dare da fare affinché un giorno le mamme israeliane e palestinesi possano vedere i loro figli crescere e giocare insieme senza paura; un giorno in cui la Terra Santa delle tre grandi religioni possa diventare quel luogo di pace che Dio voleva che fosse; quel giorno in cui Gerusalemme diverrà la dimora sicura ed eterna di ebrei, cristiani e musulmani uniti, la città di pace nella quale tutti i figli di Abramo convivranno come nella storia di Isra, quando Mosé, Gesù e Maometto (che la pace sia sempre con loro) si unirono in preghiera.

Terzo motivo di tensione è il nostro interesse nei diritti e nelle responsabilità delle nazioni verso le armi nucleari. Questo scottante argomento è stato motivo di grandi preoccupazioni per gli Stati Uniti e la Repubblica islamica iraniana: da molti anni Teheran ha preso le distanze, è ostile nei confronti del mio paese e in effetti tra i nostri popoli ci sono stati molti episodi violenti. In piena Guerra Fredda, gli Stati Uniti hanno partecipato al rovesciamento di un governo iraniano democraticamente eletto; dalla Rivoluzione Islamica in poi, l'Iran ha avuto un ruolo preciso facendo molti ostaggi e macchiandosi di episodi di violenza contro i soldati e i civili statunitensi. Tutto ciò è noto. Adesso, invece di rimanere invischiati nel passato, ho proposto apertamente alle autorità iraniane e al popolo iraniano di cambiare le cose, assicurando che il mio Paese è pronto ad andare oltre. La questione, adesso, non è tanto capire contro cosa sia l'Iran, ma quale futuro intenda scegliersi.

Sarà davvero difficile sorpassare interi decenni di diffidenza, ma andremo avanti lo stesso, con coraggio, con franchezza e con risoluzione.
I nostri paesi avranno molto di cui discutere, ma noi siamo disposti ad andare avanti in ogni caso, senza pregiudizi, rispettandoci a vicenda. È evidente che quando si tratta di armi nucleari si tocca un tema scottante: non è solo nell'interesse dell'America affrontarlo. Qui si tratta qui di fermare una corsa agli armamenti nucleari in Medio Oriente, che potrebbe portare l'intera regione e tutto il pianeta sull'orlo del baratro.
Comprendo chi protesta che alcuni paesi hanno le armi che altri non hanno, e nessuna nazione dovrebbe scegliere e decidere al posto delle altre quali debbano avere o meno l'atomica. Per questo ho ripetuto con forza l'impegno dell'America a fare il possibile per un futuro nel quale nessuna nazione abbia più armi nucleari. Tutte le nazioni - compreso l'ran - dovrebbero avere accesso all'energia nucleare a scopi pacifici, ma solo se rispettano i loro obblighi e le responsabilità incluse nel Trattato di Non Proliferazione. Questo è il fondamento del Trattato e deve essere rispettato da tutti coloro che lo hanno firmato. Spero vivamente che tutti i paesi nella regione condividano il mio obiettivo.
Il quarto argomento di cui voglio parlarvi è la democrazia. So che negli ultimi anni ci sono state molte polemiche su come debba essere incentivata la democrazia e molte di esse sono da rapportare alla guerra in Iraq. Sarò chiaro: nessun sistema di governo può o deve mai essere imposto da una nazione a un'altra. Questo non vuol dire, chiaramente, che il mio impegno nei confronti dei governi che riflettono il volere dei loro popoli è minore. Ciascuna nazione dà vita a questo principio a modo suo, sulla base delle tradizioni del suo popolo: l'America non pretende di sapere che cosa sia meglio per ogni nazione, così come noi non condizionerebbe mai il risultato di elezioni regolari e pacifiche. Sono però convinto che tutti i popoli aspirano alle medesime cose: la possibilità di parlare ed esprimersi liberamente, di decidere come vogliono essere governati; la fiducia nella legge e nell'equa amministrazione della giustizia; un governo trasparente che non si approfitti del popolo; la libertà di vivere come vuole. Questi non sono ideali americani esclusivi, ma diritti umani, ed è per questo che noi li appoggeremo ovunque.
La strada per realizzare queste cose è sicuramente tortuosa, ma una cosa è chiara: i governi più stabili, quelli di maggior successo, i più sicuri sono quelli che che proteggono e tutelano i diritti umani. Reprimere gli ideali non è mai servito a farli scomparire: l'America rispetta il diritto di tutte le persone pacifiche che rispettano la legalità a farsi sentire ovunque, anche quando sono in disaccordo con loro, e accetterà e riconoscerà tutti i governi pacificamente eletti, a condizione che governino rispettando i loro popoli.
Quest'ultimo punto è molto importante, perché ci sono persone che vogliono la democrazia soltanto quando non sono al potere, poi, una volta che si sono arrivate, sopprimere i diritti altrui con ferocia e spietatezza.
Non importa chi è al potere: deve essere il governo del popolo, eletto dal popolo a fissare l'unico metro di giudizio per coloro che sono al potere, e si deve rimanere al potere solo col consenso popolare, mai con la coercizione; rispettando i diritti delle minoranze e partecipando con uno spirito di tolleranza e di compromesso; mettendo gli interessi del popolo e lo sviluppo del processo politico in primo piano, anche sopra il proprio partito: senza questi elementi fondamentali, le elezioni non bastano a dar vita a una vera democrazia.

Il quinto argomento che vorrei affrontassimo tutti insieme è la libertà di religione: l'Islam è fiera della propria tradizione di tolleranza, constatabile nella storia dell'Andalusia e di Cordoba ai tempi dell'Inquisizione. Da bambino in Indonesia ho visto io stesso che i cristiani erano liberi di esercitare la loro pratica religiosa in un paese a stragrande maggioranza musulmana. È questo lo spirito che deve animarci anche oggi: gli uomini di tutti i paesi devono essere liberi di scegliere e praticare la loro fede sulla sola base delle loro convinzioni personali, la loro predisposizione, la loro anima, il loro cuore. La tolleranza è fondamentale perché la religione possa crescere, ma purtroppo essa è minacciata in molteplici modi.
In alcuni musulmani c'è la preoccupante tendenza a quantificare la propria fede in misura proporzionale al respingimento di tutte le altre.

La ricchezza della diversità religiosa deve essere sostenuta, invece, sia nel caso dei maroniti in Libano sia dei copti in Egitto, e anche le linee di separazione tra le varie confessioni religiose devono essere sfumate tra gli stessi musulmani, tenuto conto che le divisioni tra sunniti e shiiti hanno provocato violenze inaudite, specialmente in Iraq.
La libertà di religione è di cruciale importanza per la capacità di convivenza dei popoli. Dobbiamo sempre vagliare con attenzione le modalità con le quali la proteggiamo: per esempio, negli Stati Uniti le norme che regolano le donazioni agli enti di beneficienza hanno complicato gli obblighi religiosi per i musulmani senza che ce ne fosse bisogno. Per porvi rimedio ho promesso di lavorare con i musulmani americani in modo tale che possano obbedire al precetto dello zakat.
Similmente, è importante che i Paesi occidentali impediscano di proibire ai cittadini americani di praticare la religione loro ritengono più giusto, per esempio legiferando che cosa debba indossare una donna musulmana: in nessun caso possiamo nascondere l'ostilità nei confronti di una religione qualsiasi con la scusa del liberalismo. La fede dovrebbe avvicinarci e per questo stiamo studiando dei progetti in America che possano coinvolgere insieme cristiani, musulmani ed ebrei. Stiamo anche accogliendo positivamente vari sforzi come il dialogo interreligioso del re Abdullah dell'Arabia saudita e le autorità turche nell' Alliance of Civilizations. Ovunque nel mondo possiamo trasformare il dialogo in un servizio interreligioso, così da colmare la distanza tra i popoli e arrivare a interventi concreti, come combattere la malaria in Africa o portare aiuto e sollievo dopo un disastro naturale.
Il sesto problema di cui vorrei ci occupassimo tutti insieme riguarda le donne e i diritti delle donne: si discute molto di questo e per quanto mi riguarda respingo l'opinione di chi in Occidente pensa che se una donna sceglie di velarsi i capelli sia in qualche modo "meno uguale". So tuttavia con certezza che negare alle donne la possibilità di istruirsi significa sicuramente privare le donne di uguaglianza: non è casuale che i Paesi nei quali le donne possono studiare hanno maggiori probabilità di essere prosperi.
Su questo punto non vorrei ci fossero dubbi: la questione dell'eguaglianza delle donne non concerne l'Islam, tanto è vero che in Turchia, in Pakistan, in Bangladesh e in Indonesia e in altri paesi a maggioranza musulmana hanno eletto al governo una donna. Ma la battaglia per la parità dei diritti per le donne continua anche nella quotidianità americana e in altri Paesi di tutto il mondo.

Le nostre figlie possono dare alle nostre società un contributo uguale a quello dei nostri figli, e la nostra comune ricchezza si avvantaggerà consentendo a tutti gli esseri umani, uomini o donne che siano, di raggiungere il loro potenziale umano. Non penso che una donna per essere considerata uguale a un uomo debba prendere le medesime decisioni , e rispetto tutte le donne che nel mondo scelgono di vivere assolvendo ai loro compiti tradizionali. In ogni caso questa dovrebbe essere sempre e comunque una loro scelta. Gli Stati Uniti si assoceranno a qualsiasi paese a maggioranza musulmana che intenda sostenere il diritto delle bambine ad accedere all'istruzione, e voglia aiutare le giovani a cercarsi o crearsi un'occupazione tramite il microcredito,che tanto aiuta a realizzare i propri sogni.
Vorrei parlare infine di sviluppo economico e di opportunità, sapendo che per molti il volto della globalizzazione è contraddittorio: Internet e televisione possono facilitare la conoscenza, trasmettere informazione, ma al contempo forme di sessualità e di violenza offensive e insensate. Anche i commerci possono apportare ricchezza, ma al contempo grossi problemi e cambiamenti per le piccole comunità. In tutte le nazioni, America inclusa, questo cambiamento porta paura, timore, paura che per la modernità si possa perdere il controllo sulle scelte economiche, le scelte politiche, e ancora più importante le identità peculiari, ovvero ciò che abbiamo di più caro nelle nostre comunità, famiglie, tradizioni e religione.
Ma io so anche che il progresso umano è inarrestabile: non ci deve essere contraddizione tra sviluppo e tradizione; in paesi come Giappone e Corea del Sud l'economia continua a crescere e le tradizioni culturali restano invariate, come del resto avviene con lo straordinario progresso di paesi a maggioranza musulmana come Kuala Lumpur e Dubai. Nei tempi antichi come anche oggi, le comunità musulmane sono sempre state all'avanguardia dell'innovazione e dell'educazione.
Quanto ho detto è importante, perché nessuna strategia di sviluppo può basarsi solo su ciò che nasce dalla terra, né può essere sostenibile sul lungo periodo se molti giovani non hanno lavoro. Molti Stati del Golfo hanno vissuto in tempi recenti un'incredibile arricchimento dovuto al petrolio, e alcuni stanno programmando seriamente uno sviluppo a più ampio raggio. In ogni caso dobbiamo riconoscere che l'educazione e l'innovazione saranno la moneta corrente del XXI secolo che e in troppe comunità musulmane continuano a non essere previsti investimenti adeguati. Nel mio paese sto cercando di dare grande rilievo a investimenti di questo tipo: se prima l'America dipendeva dal petrolio e dal gas di questa regione del mondo, adesso intende procedere con qualcosa di completamente diverso.
Passando all'istruzione, espanderemo i nostri programmi di scambi culturali, aumentando le borse di studio (come quella di cui usufruì mio padre per studiare in America), incoraggiando un numero maggiore di americani a studiare nelle comunità musulmane. Procureremo agli studenti musulmani più promettenti la possibilità di studiare da interni, investiremo sull'insegnamento online per insegnanti e studenti di tutto il mondo; creeremo un nuovo network online, così che un ragazzino del Kansas possa scambiare in tempo reale informazioni con un ragazzino del Cairo.
Per quanto riguarda lo sviluppo economico, creeremo un nuovo ente di volontariato per le aziende che lavori con le controparti in paesi a maggioranza musulmana, organizzeremo un summit sull'imprenditoria per identificare in che modo stringere più stretti rapporti di collaborazione con i leader aziendali, le fondazioni, le grandi società, gli imprenditori degli Stati Uniti e delle comunità musulmane sparse nel mondo.
Dal punto di vista della scienza e della tecnologia, lanceremo un nuovo fondo per sostenere lo sviluppo tecnologico nei paesi a maggioranza musulmana, e aiutare la concretizzazione e la commercializzazione di alcune idee, creando nuovi posti di lavoro. Apriremo centri di eccellenza scientifica in Africa, in Medio Oriente e nel Sudest asiatico; sceglieremo nuovi inviati scientifici per a programmi che sviluppino nuove risorse energetiche, per creare posti di lavoro "verdi", seguire da vicino i successi, fornire acqua pulita e coltivare nuove specie. Oggi annuncerò anche un nuovo sforzo globale con l'Organizzazione della Conferenza Islamica avente l'obiettivo di sradicare la poliomielite, ed espanderemo le forme di collaborazione con le comunità musulmane per favorire e promuovere la salute delle donne e dei bambini.
Tutte queste cose dovremo farle insieme: gli americani sono pronti ad allearsi ai governi e ai cittadini di tutto il mondo, alle organizzazioni comunitarie, agli esponenti religiosi, alle aziende delle comunità musulmane di tutto il mondo per permettere a tutti i popoli di vivere una vita migliore.
I problemi di cui vi ho parlato non sono facili da risolvere, ma abbiamo la responsabilità di allearci per il bene e il futuro del mondo che vogliamo creare, un mondo nel quale gli estremisti non possano più minacciare i nostri popoli e nel quale i soldati americani possano tornare in patria; un mondo nel quale gli israeliani e i palestinesi siano al sicuro nei loro Stati e l'energia nucleare sia usata soltanto a scopi pacifici; un mondo nel quale i governi siano al servizio dei loro cittadini e i diritti di tutti i figli di Dio siano sempre rispettati. Questi sono interessi comuni, condivisi; questo è il mondo che vogliamo,ma potremo arrivarci soltanto insieme.

Molte persone - musulmane e non musulmane - mettono in dubbio la possibilità di dar vita a questo nuovo inizio: alcune sono impazienti di fomentare le divisioni, e intralciare in ogni modo il progresso. Alcune lasciano capire che è tutto inutile perché siamo predestinati a non andare d'accordo, e le civiltà sono predestinate a scontrarsi. Molte altre sono semplicemente scettiche, dubitano che un cambiamento possa mai aver luogo.
Ci sono paura e diffidenza: se sceglieremo di rimanere ancorati al passato, di sicuro non potremo mai fare passi avanti. Lo voglio dire con particolare chiarezza ai giovani di ogni religione e di ogni Paese: voi, più di chiunque altro, avete la possibilità di cambiare il mondo.

Tutti noi condividiamo questo pianeta per un solo istante nel tempo: la domanda quindi che dobbiamo porci è se preferiamo trascorrere questo istante a concentrarci su ciò che ci divide o se non sia preferibile impegnarci insieme, con un lungo e impegnativo sforzo, per trovare un terreno comune di intesa, per preparare tutti insieme il futuro che vogliamo dare ai nostri figli, e per rispettare la dignità di tutti gli esseri umani.

È più facile iniziare una guerra che finirla. È più facile accusare gli altri invece che guardarsi dentro. È più facile osservare le differenze di ciascuno di noi che le cose che abbiamo in comune, ma nostro dovere è scegliere lla strada giusta, non la più facile. C'è un unico comandamento dietro ogni religione: fate agli altri quello che vorreste che gli altri facessero a noi. Questa verità trascende nazioni e popoli. È un principio, un valore antico. Non è nero, non è bianco, non è marrone, non è cristiano, non è musulmano, non è ebreo. É un principio che si è andato affermando dalla notte dei tempi della civiltà, e che tuttora palpita nel cuore di miliardi di persone: è la fiducia nel prossimo, è la fiducia negli altri, ed è ciò che mi ha condotto qui oggi.

Abbiamo la possibilità di creare il mondo che vogliamo, ma soltanto se avremo il coraggio di dare il via a un nuovo inizio, tenendo a mente ciò che è nelle Sacre Scritture: il Corano dice: «Oh umanità! Sei stata creata maschio e femmina, e divisa in nazioni e tribù, così da poterti conoscere meglio». Nel Talmud si dice: «La Torah ha per unico scopo la promozione della pace». E la Santa Bibbia dice: «Beati coloro che portano la pace, perché saranno chiamati figli di Dio».
I popoli di tutta la Terra possono convivere in pace: noi sappiamo che questo è il volere di Dio, e che questo è il nostro dovere su questa Terra. Grazie, e che la pace di Dio resti sempre con voi.

4 giugno 2009

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