
Luigi Viceconte, FÀTTË NDA FÀTTË
FATTO DOPO FATTO
frammenti di vita francavillese
Commedia in tre atti in lingua francavillese
Nunca más. Mai più. Aveva questo titolo il volume di testimonianze che lo scrittore argentino Ernesto Sábato consegnò al presidente Alfonsin nel 1984, dopo 8 anni di una dittatura militare che causò la morte di 30.000 persone. Mai più campi di tortura approntati dai militari (oltre 365). Mai più l'incubo della Ford Falcon, la berlina rudimentale, quasi sempre di colore verde, che rapiva, inghiottiva e poi scaricava cadaveri agli angoli delle strade. Mai più ragazzi scomparsi, come accadde al Collegio Nacional, un liceo argentino famoso come il Tasso a Roma o il Parini a Milano. Al Collegio si diplomò Ernesto Che Guevara, e lì studiarono altri protagonisti della storia argentina. Durante la dittatura militare, quel liceo ebbe 99 studenti uccisi. Mai più.
"Volevo e dovevo mantenere viva la memoria di quel periodo; per me, per i miei figli. Per tutti gli altri, per aiutare a ricordare e capire questo periodo doloroso della storia argentina. Per ricordo delle vittime e vergogna dei loro carnefici. Come testimone di una piccola storia. Una piccola storia sommata a migliaia di altre storie". scrive l'autore, in conclusione di un diario che affanna e travolge. Argentina 1976. Daniel è un attivista sindacale, e per il regime di Videla questo dato è sufficiente per considerarlo un sovversivo e per arrestarlo. In modo semplice e coinvolgente, Daniel racconta in queste pagine i tre anni di prigionia: i ricordi che si intrecciano con i destini del paese, la repressione militare, le torture, la lotta politica dei "montoneros", i desaparecidos.
Il suo diario dal carcere è una delle poche testimonianze dirette sulle condizioni dei detenuti politici argentini pubblicate in lingua italiana.
Guy Delisle ha vissuto per più di un anno in Birmania con la sua compagna, in missione per Medici senza frontiere, e il figlio di pochi mesi. Nella patria di Aung San Suu Kyi ha scoperto una società oppressa dalla dittatura militare, ma anche un popolo aperto e generoso.Buddismo e repressione, aids e miniere, monsoni e ong: dopo "Pyongyang" e "Shenzhen", il nuovo reportage orientale del canadese dalla matita pungente e poetica.
VENEZIA - La parte più emozionante di La fabbrica dei tedeschi, la docufiction che Mimmo Calopresti ha dedicato alla tragedia della Thyssen-Krupp di Torino, è il finale. In cui ascoltiamo la tefonata al 118 di un operaio di un altro padiglione, il primo a capire cos'era accaduto all'interno della famigerata "Linea 5": "Ci sono alcuni colleghi bruciati, camminano e mi chiedono aiuto", grida, a una centralinista che nemmeno riesce a capire l'indirizzo preciso a cui mandare le ambulanze. Mentre, sullo sfondo, di sentono le urla strazianti delle vittime...
Piccolo stacco, ed ecco l'ultimissima sequenza: da YouTube vediamo lo spot promozionale del gruppo tedesco, in cui bambini sorridenti si tengono la mano. Un contrasto che più stridente non si può, dunque. Per documentare l'assurdità della strage, la schizofrenia di un gruppo industriale che, almeno stando alle testimonianze dei lavoratori, ha mandato alcuni suoi dipendenti incontro al rischio e alla morte. In uno stabilimento che stava per essere smantellato: "Giuseppe me lo aveva detto qualche giorno prima di morire - racconta, tra le lacrime, la mamma di uno dei ragazzi morti - 'ci hanno abbandonato a noi stessi, non c'è più sicurezza'. Avrei dovuto capirlo in quel momento, che in quella fabbrica non doveva andarci più". Per il resto, il film - evento speciale della sezione Orizzonti - convince davvero. Forse perché tutto costruito su parole, sguardi, voci, pianti di parenti e amici delle vittime. Nella prima parte, interpretati da attori - da Valeria Golino a Monica Guerritore si sono prestati in tanti; e poi filmati mentre parlano in prima persona, confessandosi davanti al regista. Conosciamo così la vedova ancora innamoratissima del marito morto; o sentiamo raccontare degli operai che non ci sono più, e che sognavano di lasciare l'acciaieria per aprire un bar o una trattoria. Parla anche Antonio Boccuzzi, sopravvissuto per miracolo al rogo, ora deputato Pd. Ma a colpire non sono solo le testimonianze. Perché La fabbrica dei tedeschi è anche, indirettamente, un atto d'accusa contro i sindacati: è a loro che si rivolge ad esempio la rabbia delle migliaia di persone che, dopo la strage, manifestarono in piazza. "E' vero, questo elemento c'è - racconta il regista, battagliero come suo solito, dalla terrazza dell'hotel Excelsior - il problema è che il sindacato fa la politica nazionale. Anche Veltroni, che però mi ha contattato e ha organizzato la proiezione del mio film il giorno 24, a Roma. Ma noi non possiamo lasciar morire la gente perché intanto ci concentriamo solo sul fatto che tra due anni ci sarà la ripresa. Stasera a vedere il film viene Adriana Polverini (leader dell'Ugl, ndr): lei sì che è una ancora battagliera". Il che, detto da un autore dichiaratamente di sinistra, fa riflettere. E comunque Calopresti ne ha per tutti: i politici indifferenti, i giornali che si occupano troppo spesso di futilità. L'unico che si salva è Giorgio Napolitano: "Lui interviene tutti i giorni sul tema delle morti bianche. E' più lucido di tutti quei pazzi messi insieme". E mentre rivela che non gli dispiacerebbe fare anche delle fiction ("ma a modo mio, raccontando ad esempio gli operai che adesso se la prendono con quei poveri disgraziati dei rom"), non risparmia critiche alla Rai: "Perché un canale come RaiTre non trasmette un documentario sulle morti bianche? Il mio va su La7, e in prima serata. Perché loro non hanno il coraggio di farlo?". Ultimissima annotazione: sullo stesso tema, e sempre come evento speciale della sezione Orizzonti, qui alla Mostra domani è di scena anche un altro docufilm: si chiama ThyssenKrupp Blues, ed è diretto da Pietro Balla e Monica Repetto. (La Repubblica)
Il film-profezia di Pasolini
così nel '63 raccontò l'Italia d'oggi
In anteprima alla Mostra di Venezia, nelle sale dal 5 settembre grazie all'Istituto Luce "La rabbia" ricostruito da Giuseppe Bertolucci come lo voleva il regista
di CURZIO MALTESE
La visione de "La rabbia", il film-saggio di Pier Paolo Pasolini finalmente ricomposto da Giuseppe Bertolucci, con la Cineteca di Bologna che presiede, nella versione pensata dall'autore, senza l'insensata aggiunta di Giovanni Guareschi, solleva un dubbio terribile. O Pasolini era davvero un profeta oppure l'Italia è tornata indietro di mezzo secolo, ai peggiori anni Cinquanta, tempi gretti, reazionari, impauriti.
Nel dubbio che siano vere entrambe le ipotesi, scegliamo per carità di patria la migliore. Pasolini ha capito per primo e più a fondo di chiunque altro la mutazione antropologica del popolo italiano all'impatto con una modernità feroce, che l'avrebbe riconsegnato a un fascismo sotto nuove forme. Per usare una formula che rimbalza in queste settimane da Famiglia Cristiana ai vertici della magistratura.
Il film è modernissimo nella forma, d'avanguardia per l'epoca. Sul materiale assai grezzo dei cinegiornali, Pasolini sovrappone un'orazione civile composta di sue poesie e prose affidate alle voci di Giorgio Bassani e Renato Guttuso. Senza altro filo narrativo che non sia una viscerale, acutissima visione dei conflitti sociali, l'opera viaggia dai funerali di Alcide De Gasperi alla morte di Marilyn Monroe, dalla rivoluzione cubana alla guerra di Corea all'indipendenza dell'Algeria. Ma la parte più sorprendente è certo quella dedicata "al mio paese, che si chiama Italia".
Il film doveva uscire nelle sale all'inizio del '63, dopo Accattone e Mamma Roma, ma il produttore Gastone Ferranti si spaventò, convinse l'autore a tagliarlo e volle a tutti i costi affidare una seconda parte "vista da destra" a Guareschi, il quale diede nell'occasione il peggio del proprio qualunquismo. Così snaturata, l'opera fu rinnegata da Pasolini e ritirata dopo pochi giorni, per rimanere nel buio quarantacinque anni.
Ora torna nella versione concepita dal poeta, grazie al lavoro di recupero e rimontaggio di Giuseppe Bertolucci, su un'idea di Tatti Sanguinetti. "La rabbia" sarà presentata alla Mostra di Venezia il 28 agosto e sarà distribuita nei cinema dall'Istituto Luce dal 5 settembre.
Per capire quanto sia attuale basta forse citare una piccola antologia dei testi. L'Europa: "Le piccole borghesie fasciste sono pronte all'unità d'Europa in nome della comune aridità". Le guerre in Medio Oriente: "In questi deserti comincia la nostra preistoria". Le giustificazioni della guerra: "Se comincia la guerra di chi è la colpa? Dei peccati della povera gente, naturalmente. Dio punisce le Sodome di stracci, le Gomorre della miseria".
I coreani all'epoca, oggi gli irakeni, gli afghani, i curdi, i popoli africani: "Eravate milioni di uomini come noi e per conoscervi abbiamo dovuto sapervi in guerra". Il nuovo Papa: "Ci saranno fumate bianche per papi figli di contadini del Ghana o dell'Uganda? Per papi figli di braccianti indiani morti di peste nel Gange, per papi figli di pescatori gialli morti di freddo nella Terra del Fuoco?".
La politica sull'immigrazione: "Dobbiamo accettare distese infinite di vite reali che vogliono con innocente ferocia entrare nella nostra realtà". Bush, Berlusconi, Putin eccetera: "La classe padrona della ricchezza, giunta a tanta dimestichezza con la ricchezza da confondere la natura con la ricchezza. Così perduta nel mondo della ricchezza da confondere la storia con la ricchezza. Così addolcita dalla ricchezza da riferire a Dio l'idea della ricchezza".
Si potrebbe continuare a lungo, ma almeno fino alla televisione, appena apparsa sulla scena. Quando lo speaker del cinegiornale annuncia trionfante che presto gli abbonati saranno "decine di migliaia", Pasolini lo corregge: "No. Saranno milioni. Milioni di candidati alla morte dell'anima. Il nuovo mezzo è stato "inventato per la diffusione della menzogna". "È la voce che contrappone il buon senso degli assassini agli eccessi degli uomini miti".
La voce di Pasolini è viva, attuale e urticante oggi come nel '63. Gli eccessi di uomo mite non gli sono stati mai perdonati, neppure dopo la fine straziante. Lui stesso ne era consapevole: "Dice Saba che ci sono animali che non fanno pena neppure quando vengono mangiati, perché volevano essere mangiati. Forse sono uno di questi animali". Bertolucci aggiunge nel finale alcuni esempi del linciaggio cui Pasolini fu sottoposto per tutta l'esistenza, da ogni parte. Si trova sempre "nel paese chiamato Italia" un buon compromesso bipartisan per annientare le voci critiche.
Quello che s'è perso per sempre da "La rabbia" ai nostri giorni non sono le parole, ma le immagini, anzi: le facce. I volti di quel popolo, testimonianza vivente e stupenda di un retaggio millenario. I ragazzi di vita delle borgate romane vivono ma non sono come i ragazzi di Scampia filmati da Garrone in Gomorra. Più poveri e meno miserabili, avevano facce e corpi prodotti dalla storia, questi facce da cronaca, corpi creati in palestra, indistinguibili da quelli dei borghesi di successo, dagli attori delle telenovelas, dai calciatori e dalle veline.
La rivoluzione antropologica ha funzionato come una pulizia etnica, cancellando i tratti di un'antica civiltà, di un'immensa bellezza. Negli anni de "La rabbia" un altro solitario, Ennio Flaiano, annotava nel diario notturno: "Fra trent'anni l'Italia non sarà come l'avranno fatta i governi, i partiti o i sindacati, sarà come l'avrà fatta la televisione".