, Repubblica — 01 febbraio 2009 pagina 30 sezione: CULTURA
A lla fine degli anni Settanta del secolo scorso la campagna povera del Cuneese, come del resto quella di altre zone simili d' Italia, sopravviveva come sacca di miseria e di depressione abbandonata a se stessa. Il terremoto dell' industrializzazione l' aveva spopolata, rimanevano soprattutto i vecchi ad aspettare la morte e l' avanzare della natura, l' intrico dei rovi e delle sterpaglie, tra le cascine e le baite in sfacelo. Fu nel medesimo periodo che Nuto Revelli, classe 1919, ufficiale degli alpini nella tragedia della Russia, comandante partigiano e poi scrittore di grande sensibilità e di forte impegno civile, pubblicò da Einaudi i due volumi de Il mondo dei vinti, dove per la prima volta veniva data voce a quei montanari, ai contadini, ai senza storia, agli uomini mandati al macello in due guerre mondiali.
Proprio nelle steppe e nella neve russe aveva cominciato a conoscerli con la divisa grigioverde e le scarpe di cartone. Dopo avere scritto L' ultimo fronte, decise pertanto di raccontare le loro storie. E per anni, munito di registratore, spesso accompagnato dalla fotografa Paola Agosti, batté a tappeto borgate montane, vallate remote, colline di "malora", la maledizione contadina narrata da Beppe Fenoglio. Revelli morì il 5 febbraio del 2004, lasciandosi alle spalle un' esistenza spesa a combattere «l' Italia delle amnesie, dei vuoti di memoria, delle rimozioni». Se ne andò confidando che nelle terre dei suoi dimenticati, dei suoi sconfitti, un giorno potesse ritornare la vita. Oltre tre decenni dopo l' uscita del libro, che risale al 1977, Andrea Fenoglio e Diego Mometti, due giovani ricercatori e documentaristi, ne hanno ripercorso i luoghi e hanno raccolto e filmato (per una serie di dvd) le testimonianze degli abitanti di oggi, con lo scopo di fotografare i cambiamenti e gli sviluppi. Gli esiti della loro indagine che si chiama "Progetto Aristeo", in omaggio a una divinità greca dell' agricoltura, ed è stata voluta dalla Fondazione Revelli di Cuneo con il sostegno dell' assessorato alla Montagna della Regione Piemonte, vanno nella direzione auspicata da Nuto. Il «mondo dei vinti» non è più esclusivamente un deserto. La campagna degli umiliati e offesi di ieri diventa ora un' occasione di alternativa alla crisi dell' industria. E la natura non si coglie più alla stregua di un nemico, come accadeva una volta. Lo rivela una buona parte delle 125 interviste effettuate sui monti cuneesi, in collina, in pianura. Cinque dei testimoni interpellati erano già stati ascoltati per Il mondo dei vinti e per L' anello forte (il libro sulle donne contadine), sessanta sono discendenti degli uomini e delle donne fatti parlare da Nuto, altri sessanta sono comunque legati a quei territori. Per Marco Revelli, il figlio di Nuto, docente universitario di scienza della politica, saggista e presidente della Fondazione Revelli, «le nuove interviste, questa ricognizione nell' universo che mio padre aveva descritto nel momento dello spegnimento e dell' abbandono, dimostrano che i "vinti", in un certo senso, hanno iniziato a vincere qualcosa. Loro non ci sono più, ma molti dei discendenti continuano a essere un mondo, pur essendo diversi dai nonni o dai genitori. Rappresentano un mondo completamente nuovo, non omologato alla cultura urbana, consapevole dei problemi odierni, in cui prosegue il legame con la terra e si affaccia il desiderio di socialità, avvolti dalla natura, standoci dentro in modo umano: quella stessa natura che aveva sconfitto i testimoni di mio padre». Adesso un "vecchio" come Magno Martini, di Castelmagno, contadino-operaio che Nuto aveva intervistato nel luglio del 1970, può dire: «Secondo me un uomo dovrebbe avere la possibilità di rivivere tra mille anni, che venga a vedere com' è questo pianeta qui. Così potrebbe risolvere qualcosa, se no siamo sempre asini uguale. Siamo ignoranti, di fronte alla natura siamo ignoranti». E un quarantenne quale Lele Odiardo, educatore di Venasca-Frassino che non rinuncia a coltivare la campagna, afferma: «Il grosso significato che la montagna ha in prospettiva è il superare questo sistema economico, che non può durare. è il recuperare nel quotidiano, non nel museo, tutta una serie di valori e di pratiche che possono essere il mutuo appoggio, farsi l' orto, o tessere una rete di relazioni più ampia. Nella società che si sta prospettando non sarà importante guadagnare di più, ma aiutarsi tra le persone, prodursi delle cose. E questo appartiene alla cultura della montagna, non alla cultura metropolitana». Una tradizione rivendicata da Erich Giordano, venticinquenne, nipote di Pietro Bagnis e Caterina Arnaudo, due dei «vinti» di Nuto che, nell' ottobre del 1971, a una sua domanda rispondevano: «Come vivevamo nel 1900? Di miserie». Un secolo dopo Giordano spiega: «I miei genitori sono entrambi di origine contadina e hanno studiato, però hanno sempre continuato ad andare in montagna a "fare" la campagna: il fieno, la legna, portare via il letame e tutto quello che si deve fare. Hanno sempre vissuto veramente la campagna, e d' altra parte sono entrambi insegnanti. Le cose non sono in conflitto. Si può benissimo essere degli insegnanti e curare fisicamente il proprio territorio. Ecco, questa è tradizione». Mentre Luciana Berardi, maestra elementare di Prazzo, avverte che la distanza tra i palazzi del potere e le vere necessità della montagna non è stata troppo ridotta rispetto al passato: «Non siamo ancora arrivati a vedere la montagna come una risorsa. Una volta non se ne parlava. Le persone più anziane dicono: "Si ricordano di noi quando è il momento di votare, per prendere quei quattro voti, o quando c' è bisogno di fare delle speculazioni edilizie". Bisogna capire che la cura della montagna è fondamentale per la salute della bassa valle e della pianura. Ma non basta dare il finanziamento. Noi vediamo dare spesso in montagna finanziamenti che non sono consoni al territorio e alla popolazione che lo abita». Tre «apocalissi», ricorda Marco Revelli, cancellarono la campagna povera: le due grandi guerre mondiali, l' industrializzazione degli anni Sessanta. Prosegue: «Mio padre registrò quella scomparsa. Non c' era nostalgia per la vita ai limiti della sopravvivenza, ma indignazione per come finiva la civiltà contadina. Oggi c' è un' antropologia differente. Tutti, bene o male, sono scolarizzati, tutti sono informati. In trent' anni sono passati secoli. E nei discendenti dei "vinti" il rapporto con la terra, con la natura, diviene quasi un senso di orgoglio e una ragione di riscatto. Anche perché i miti degli anni Sessanta, come la fabbrica, si sono infranti. C' è crisi, ci sono disoccupazione e prepensionamenti, si invecchia soli e tristi in una casa di periferia. In montagna, in collina, invece, si può immaginare forse un' esistenza maggiormente decorosa». Sono i valori in cui crede Amos Olivero, nato nel 1981, ingegnere informatico, figlio di Maria Grazia Molinero, una delle testimoni de L' anello forte: «In montagna hai la possibilità di perdere tanti bisogni. Il desiderio di apparire, che c' è tanto nella cultura moderna, andrebbe a perdersi. Il problema della vita moderna è che ci sta spingendo verso valori consumistici che ci rendono simili a dei cani mossi da un bastoncino. La possibilità di scegliere cosa vuoi, e quando vuoi, è decisamente una ricchezza. Sembra quasi di ritornare alle cose di cui tu hai bisogno, invece di impuntarti sulle cose che gli altri ti dicono di avere. è questo il valore». - MASSIMO NOVELLI
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