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mentono sapendo di mentine

mercoledì 30 dicembre 2009

ERRI DE LUCA, Il giorno prima della felicità


Ascolta l'incipit
Ascolta l'intervista ad Erri De Luca

Don Gaetano è uomo tuttofare in un grande caseggiato della Napoli popolosa e selvaggia degli anni cinquanta: elettricista, muratore, portiere dei quotidiani inferni del vivere. Da lui impara il giovane chiamato "Smilzo", un orfano formicolante di passioni silenziose. Don Gaetano sa leggere nel pensiero della gente e lo Smilzo lo sa, sa che nel buio o nel fuoco dei suoi sentimenti ci sono idee ed emozioni che arrivano nette alla mente del suo maestro e compagno. Scimmia dalle zampe magre, ha imparato a sfidare i compagni, le altezze dei muri, le grondaie, le finestre - a una finestra in particolare ha continuato a guardare, quella in cui, donna-bambina, è apparso un giorno il fantasma femminile. Un fantasma che torna più tardi a sfidare la memoria dei sensi, a postulare un amore impossibile. Lo Smilzo cresce attraverso i racconti di don Gaetano, cresce nella memoria di una Napoli (offesa dalla guerra e dall'occupazione) che si ribella - con una straordinaria capacità di riscatto - alla sua stessa indolenza morale. Lo Smilzo impara che l'esistenza è rito, carne, sfida, sangue. È così che l'uomo maturo e l'uomo giovane si dividono in silenzio il desiderio sessuale di una vedova, è così che l'uomo passa al giovane la lama che lo dovrà difendere un giorno dall'onore offeso, è così che la prova del sangue apre la strada a una nuova migranza che durerà il tempo necessario a essere uomo.

venerdì 27 novembre 2009

CONVEGNO: "Un due tre... Stella! Oggi pensiamo a giocare"


Riflessione sull’importanza del gioco nello sviluppo del bambino rispetto alle diverse funzioni che può svolgere all’interno dei vari ambiti in cui trova utilizzo (da quello familiare a quello scolastico, da quello terapeutico a quello della prevenzione)

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martedì 3 novembre 2009

Addio a Claude Lévi-Strauss padre dell'antropologia moderna



PARIGI - L'antropologo ed etnologo Claude Lévi-Strauss è morto la notte fra sabato e domenica a Parigi. Era nato in Belgio il 28 novembre del 1908, fra pochi giorni avrebbe compiuto 101 anni. La notizia della sua scomparsa è stata diffusa dall'Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales.

Le origini, gli studi. Lévi-Strauss, di famiglia ebrea, nasce a Bruxelles ma si trasferisce presto con i genitori a Parigi dove suo padre lavorava come ritrattista. La sua formazione culturale avviene nel clima intellettuale parigino. Studia Legge e Filosofia alla Sorbona, non conclude gli studi in Legge ma si laurea in Filosofia nel 1931. Inizia a insegnare in un liceo di provincia - un'esperienza che condivide con Maurice Merleau-Ponty e con Simone de Beauvoir.
Le scienze umane, gli incontri decisivi. Le sue posizioni filosofiche sono molto critiche nei confronti delle tendenze idealiste e spiritualistiche della filosofia francese del periodo fra le due guerre. Scopre presto nelle scienze umane, in particolare nella sociologia e nell'etnologia, la possibilità di costruire un discorso più concreto e innovatore sull'uomo. Decisivi gli incontri con Paul Rivet, che conosce in occasione dell'esposizione di Jacques Soustelle al Museo Etnografico, e con Marcel Mauss, del quale fu allievo. Di quest'ultimo, lo segna in particolare il metodo utilizzato per spiegare e analizzare riti e miti dei popoli primitivi.

La scoperta del Brasile. Nel 1935 gli viene offerto di andare a insegnare Sociologia a San Paolo in Brasile, dove una missione culturale francese aveva avuto l'incarico di fondare una università. Sarà per Lévi-Strauss l'occasione per conoscere un mondo completamente diverso da quello europeo, ma soprattutto per entrare in contatto con le popolazioni indie del Brasile, che diventeranno l'oggetto delle sue ricerche sul campo.

Le spedizioni, l'analisi sul campo. Il suo esordio nel campo dell'antropologia avviene in maniera graduale. Nei primi tempi, quando è libero dagli impegni universitari, compie brevi visite nell'interno del paese. Organizza poi una spedizione di qualche mese tra i Bororo, un gruppo rtnico del Brasile, e infine una missione, che durerà un anno, nel Mato Grosso e nella foresta amazzonica dove incontrerà "i veri selvaggi", cioè le popolazioni meno acculturate e nello stesso tempo per lui più interessanti.

La guerra, la fuga a New York. Tornato in Francia nel 1939 entra nell'esercito allo scoppio della seconda guerra mondiale ma nel 1941, subito dopo l'armistizio, a causa delle persecuzioni contro gli ebrei, fugge e si imbarca per gli Stati Uniti. A New York conosce e frequenta altri intellettuali emigrati e insegna presso la Nuova scuola per le ricerche sociali. Insieme a Jacques Maritain, Henri Focillon e Roman Jakobson, è considerato uno dei fondatori dell'École Libre des Hautes Études, una specie di "università in esilio" per accademici francesi. E dal 1946 al 1947 lavora anche come addetto culturale per l'ambasciata di Francia.

Gli anni americani. Gli anni trascorsi a New York sono molto importanti per la formazione di Lévi-Strauss. La sua relazione con il linguista Jakobson gli è d'aiuto per mettere a punto il suo metodo di indagine strutturalista. Lévi-Strauss è anche considerato, insieme a Franz Boas, uno dei maggiori esponenti dell'antropologia americana. Disciplina, quest'ultima, che insegna presso la Columbia University a New York, lavoro che gli fa ottenere un titolo che gli servirà per essere accettato con facilità negli Stati Uniti.

Il ritorno in Francia, il dottorato alla Sorbona. Nel 1948 torna a Parigi e nello stesso anno consegue il dottorato alla Sorbona con una tesi maggiore e una minore - come era tradizione in Francia - dal titolo The Family and Social Life of the Nambikwara Indians (La famiglia e la vita sociale degli indiani Nambikwara) e The Elementary Structures of Kinship (Le strutture elementari della parentela). Quest'ultima viene pubblicata l'anno seguente e subito è considerata uno degli studi antropologici più importanti, realizzati fino a quel momento, sui rapporti di parentela.

"Tristes Tropiques", la popolarità. Tra gli anni Quaranta e Cinquanta Lévi-Strauss continua le sue pubblicazioni, sempre con maggiore successo. La popolarità di Lévi-Strauss si deve a Tristes Tropiques, pubblicato nel 1955: in parte biografia, in parte riflessione filosofica sul viaggio, l'opera è soprattutto un diario sistematico dei suoi studi su quattro tribù primitive del Sud America. Nel 1959 diventa titolare della cattedra di Antropologia sociale presso il Collége de France. Dopo qualche tempo pubblica Structural Anthropology, con una raccolta dei suoi saggi. In quel periodo sviluppa un programma che comprende una serie di organizzazioni - come il Laboratory for Social Anthropology - e un nuovo giornale, L'Homme, sul quale pubblicare i risultati delle sue ricerche.

"Pensée Sauvage", il dibattito con Sartre. Risale al 1962 la pubblicazione di quello che, secondo molti studiosi, viene considerato il suo lavoro più importante, Pensée Sauvage, nel quale vengono delineate la teoria della cultura della mente e - nella seconda parte del lavoro - la teoria del cambiamento sociale: la seconda parte coinvolgerà Lévi-Strauss in un acceso dibattito con Jean-Paul Sartre riguardo alla natura della libertà umana.

Il grande progetto "Mythologiques". Ormai diventato molto popolare, Lévi-Strauss dedica la seconda metà degli anni Sessanta alla realizzazione di un grande progetto: quattro volumi di studi dal titolo Mythologiques. In essi, Lévi-Strauss analizza tutte le variazioni dei gruppi del Nord America e del Circolo Artico esaminando, con metodologia rigorosamente strutturalista, le relazioni di parentela tra i vari elementi. L'ultimo volume di Mythologiques viene pubblicato nel 1971.

I riconoscimenti. Nel 1973 Lévi-Strauss viene accolto dall'Académie Française. Nel 1975 riceve l'Earsmus Prize, ma negli anni ha avuto numerosi riconoscimenti e lauree ad honorem da università prestigiose come Oxford, Yale, Harvard e Columbia. E' stato membro di istituzioni celebri incluse la National Academy of Sciences, l'American Academy and Institute of Arts and Letters, l'American Academy of Arts and Sciences, l'American Philosophical Society.

(3 novembre 2009)

lunedì 2 novembre 2009

Addio ALDA MERINI

Dal sito aldamerini.com, il Poema della croce a Sarzana

martedì 20 ottobre 2009

"John Doe chiude al N77 ma non succerà in silenzio!


Petizione contro l'EURA editoriale per non fa chiudere John Doe nel silenzio. Se proprio dovrà essere sepolto faremo un funerale molto rumoroso. questa petizione va rivolta alla nuova proprietà dell'EURA editoriale,che,senza alcun preavviso agli stessi autori,ha deciso di chiudere il fumetto italiano più rivoluzionario e seguito degli ultimi anni,lasciando increduli,allibiti,arrabbiati e desiderosi di una netta marcia indietro tutti i numerosissimi fruitori del fumetto.
se proprio la nuova direzione editoriale dell'eura intende rinnovarsi deve partire proprio con il fumetto di punta,ciò che probabilmente le ha dato prestigio negli ultimi anni,JOHN DOE. Facciamo sentire la nostra voce e non permettiamo di distruggere un sogno,ancor prima che un fumetto,non facciamo morire John Doe nel silenzio.

John Doe è un mensile a fumetti italiano edito dall'Eura Editoriale.
Gli ideatori della serie sono Roberto Recchioni e Lorenzo Bartoli, con il contributo di Massimo Carnevale per la caratterizzazione grafica dei personaggi e copertinista della serie, mentre tra i disegnatori vi sono Alessio Fortunato, Marco Farinelli e Walter Venturi, nonché Riccardo Burchielli (ora in prestito alla DC-Vertigo).

John Doe lavora per la "Trapassati Inc.", che si occupa della gestione della morte, e nella quale riveste un ruolo importante. Lavora alle dirette dipendenze della Morte, una donna bellissima dal sarcasmo pungente e i modi pratici, per la quale si occupa di risolvere i casi più difficili.

Ha amato molte donne ma ora vive una relazione stabile con la sua compagna Tempo, che in effetti è l'essenza del tempo, e grazie alla sua capacità di controllarlo ha aiutato il protagonista in molte occasioni.

Nelle sue avventure John Doe è aiutato da molti personaggi, alcuni impiegati nella Trapassati, altri provenienti dal "Regno", un luogo al di fuori del tempo e dello spazio in cui vivono esseri immortali ed essenze come ad esempio Tempo, Guerra, Fame, Pestilenza, Ingenuità e un corpo di polizia formato da severi energumeni con poco cervello e modi violenti.


venerdì 16 ottobre 2009

YES WE CAMP

yes we camp alberto puliafito ik produzioni 3e32

A proposito di Terremoto


Giovedì 15 ottobre 2009
presso TRA ME
Via S .Pellico 34/c – CARIGNANO
alle ore 20,30 precise

... a proposito diterremoto!

incontro con il Comitato 3.32 - L’Aquila

Comitato 3.32″: l’ora dell’apocalisse, ma anche l’ora della ripartenza per L’Aquila.
Il nome e il comitato sono nati su iniziativa di un gruppo di giovani.
All’inizio doveva chiamarsi “Comitato per la rinascita dell’Aquila”
poi si e’ deciso di optare per l’ora della scossa che ha distrutto la citta.
“Vogliamo ripartire proprio da quell’istante”

Alberto Puliafito – regista IK Produzioni Torino
presenta il suo film
“Yes, we camp – appunti sul cratere”
immagini, testimonianze, voci dalle tendopoli, dal G8 ad oggi

Durante la serata sarà presentato il volume

STATALE 17
storie minime transumanti
di Barbara SUMMA - EXÒRMAEDIZIONI

La Statale 17 corre in Abruzzo tra la conca aquilana e il piano di Navelli.
Ricalca un antico tratturo e rivela una storia stratificata e complessa.
Questo è un libro di storie e rivelazioni

Da noi si dice che la robba de campagna
è di Dio e di chi se la magna.
La casa di Ofena è di chi ci ha vissuto.
Il terremoto è di chi lo ha subìto.
Le storie sono di chi me le ha regalate e mie
che le ho prese, e vostre, se le volete ascoltare”

Ingresso libero

Titolo: Yes We Camp - Appunti sul Cratere
Autore/Regista: Alberto Puliafito
Produzione: iK Produzioni (http://www.ikproduzioni.it)

Italia 2009, formato di ripresa HDV, durata 80' circa

"Yes We Camp" prende il nome da una scritta comparsa sul cartellone di un giovane terremotato durante la manifestazione del 16 giugno durante la quale i terremotati chedevano di rivedere il Disegno Legge che avrebbe approvato il Piano C.A.S.E.
Inizia proprio da quella manifestazione in Piazza Montecitorio, prosegue con la fiaccolata del 6 luglio dedicata al ricordo delle vittime, passa attraverso il racconto del G8 e di tutto il mese di agosto 2009 e dei primi giorni del mese di settembre, si chiude nel futuro, all'Aquila, nel 2032. E' il punto di vista di un osservatore esterno che cerca di capire e di raccontare le storie delle persone che fanno parte di una Storia in continua evoluzione. È un insieme di affreschi, senza pretesa di avere la verità in tasca. Un racconto che si apre e si chiude con un punto interrogativo.

"Yes We Camp" è un film in progress, un flusso che racconta storie e cerca di seguire i fatti di cronaca. E' stato realizzato in poco più di un mese e mezzo da Alberto Puliafito, che ha lavorato come filmmaker (girando, intervistando, montando), vissuto in tenda, parlato con gli aquilani, cercato di capire una realtà talmente sfaccettata da indurlo a evitare di raccontare un quadro generale e a dedicarsi, invece, al racconto di storie, affreschi, appunti sul Cratere. E' come una sorta di istant movie ma senza la frenesia dell'istant movie, con un linguaggio a metà fra il documentario e l'inchiesta.

Grazie a questa esperienza e all'esperienza del 3e32, uno dei Comitati Cittadini sorti spontaneamente all'Aquila dopo il 6 aprile, si costituirà un presidio per l'informazione indipendente all'Aquila, per proseguire in questa operazione e per garantire la presenza di qualcuno che possa documentare quel che accade nel Cratere. In questo senso, "Yes We Camp" è solo l'inizio di un percorso che proseguirà nei prossimi mesi.

Interverrà alla proiezione: Alberto Puliafito, giornalista e regista

ALBERTO PULIAFITO
Bio-filmografia
Nato a Torino nel 1978, è giornalista pubblicista dal 2001.
Dal 2000 a oggi, ha lavorato per emittenti televisive nazionali pubbliche e private, in qualità principalmente di regista, assistente alla regia e operatore.
Nel 2006, dall'incontro con il cantautore romano Simone Cristicchi, nasce un sodalizio artistico che porta alla realizzazione dei videoclip dei brani “Ombrelloni” e “Ti regalerò una rosa” (Premio Miglior Videoclip Italiano 2007 – artista uomo) e del documentario “Dall'altra parte del cancello”.
Nel 2007, ha fondato, insieme a Fulvio Nebbia, la società di produzione audiovisiva iK PRODUZIONI, attiva principalmente in produzioni televisive, di videoclip e documentari.

FILMOGRAFIA
documentari e reportage
“Yes we camp”, (HDV, 80', 2009)
“Harmattan”, (HDV, 64', 2008)
“Dall'altra parte del cancello” (DV, 73', 2007)
“Phone Center – Il tamburo moderno” (DV, 60', 2004)

fiction
“Lettere dal Manicomio” (DV, 17', 2007)
“Kandinskij” (DV, 11', 2005)
“Fatalità” (DV, 15', 2003)
“15 ottobre 1582” (DV, 10', 2002)

videoclip e spot
“Ti regalerò una rosa” (DV, 4', 2007), brano di Simone Cristicchi, Sony/BMG
“Nel mio segreto profondo” (DV, 3', 2006), brano di Antonino, Sony/BMG
“Ombrelloni” (DV, 4', 2006), brano di Simone Cristicchi, Sony/BMG

iK Produzioni è una società di produzione indipendente torinese attiva principalmente nel campo della produzione televisiva, di videoclip e di documentari, di formati brevi per il web; si occupa spesso di lavori fortemente orientati al sociale.


mercoledì 14 ottobre 2009

Quentin Tarantino intervistato da Serena Dandini

Settembre 2009 Quentin Tarantino intervistato da Serena Dandini a "Parla con me", parla tra l'altro del suo film 2009: "Bastardi senza gloria"
PRIMA PARTE


SECONDA PARTE

lunedì 12 ottobre 2009

GIORGIO CONTE


Giorgio Conte torna al FolkClub con una formazione che sarebbe piaciuta a Franco: tre chitarre e un contrabbasso! Ecco il suo "Passion quartet" in uno spettacolo che prevede una prima parte tutta strumentale in stile zingaro e una seconda dedicata alle sue più belle canzoni.
Così ci ha risposto Giorgio, quando gli abbiamo chiesto "due righe" sul concerto che farà a ottobre al FolkClub. Ma c'è qualcosa in più: il ritorno di un artista amico e assiduo frequentatore del Folkclub coincide quasi sempre con una occasione particolare e raramente casuale, e questa volta l'occasione è di quelle toste, per il carico emotivo che si porta dietro. L'11 ottobre 2009, infatti, Franco avrebbe compiuto 60 anni, ed era importante e necessario per noi celebrare questa ricorrenza con un amico, con un artista che Franco stimava al 100% e annoverava tra i grandi: chi meglio di Giorgio?
E allora siamo andati anche a recuperare le parole con cui Franco nel 2004 presentava uno degli innumerevoli concerti di Giorgio al FolkClub, eccole: E' importante sottolineare la linearità di un artista che sa ben gestire la propria evoluzione. Attento innanzitutto a mantenere inalterato l'inconfondibile e originale suo approccio con la difficile canzone d'autore e in particolare con un pubblico piuttosto esigente. Un dosato e delicato equilibrio che l'artista, sornione come un soriano navigato, saggiamente sa gestire. Il pubblico, preso per mano, viaggia tra le colline del Piemonte, alternando scorci di sopravvissuti microcosmi contadini ed ecologiche atmosfere caserecce alle dure e macroscopiche contraddizioni e contrapposizioni di una realtà cittadina. Una vita sana a misura di uomo antico è il messaggio di Giorgio, che intercala sapori e profumi tradizionali a forti emozioni, monotone funzioni domestiche a improbabili ma tonificanti sogni e voli pindarici, nostalgici e gustosi ricordi felliniani di una infanzia in provincia e il cortese rifiuto dei ritmi convulsi e frastornanti di una vita di conquiste a gomitate.
Una serata che fa bene alla mente e ristora i nostri mortificati sensi.
Al Folkclub, accanto a Giorgio (qui ritratto con Franco in occasione della presentazione del libro FolkClub) e alla sua chitarra, Lorenzo Marino e Tommaso Conte alle chitarre e Francesco Baucia al contrabbasso.

LODO ALFANO

lunedì 5 ottobre 2009

Rosso Rustico Amaro Trio



Concerto del Rosso Rustico Amaro Trio

Domenico Castaldo voce e percussioni
Paolo Moreschi chitarre e voce
Fabio Rosso fisarmonica

E’ uno spettacolo musicale dove la ricerca sul canto e sulla musica di Castaldo prende la forma di concerto: è un concerto narrazione, un concerto poesia. Parole e note prendono nello spazio una forma attraverso il suono e la voce e si manifestano con passo danzante e scandite da immagini. E’ un giro di canti, canzoni e poesie elaborati nel corso di più di dieci anni di prove, incontri, concerti, e che da tempo è diventato il repertorio di tre musicanti seduti con in braccio gli strumenti.

venerdì 25 settembre 2009

"La democrazia non può essere esportata"Obama cancella gli otto anni dell'era Bush



THE WHITE HOUSE
Office of the Press Secretary
23 Settembre 2009
Signor presidente, signor segretario generale, illustri delegati, signori e signore: è un onore rivolgermi a voi per la prima volta nella qualità di quarantaquattresimo presidente degli Stati Uniti d’America. Mi presento di fronte a voi col peso della responsabilità che il popolo degli Stati Uniti mi ha affidato, consapevole delle enormi sfide di questo
momento storico e determinato ad agire con ambizione e con il
concorso di tutti per il bene della giustizia e della prosperità, in patria e
all’estero.
Sono in carica da appena nove mesi, anche se certi giorni mi sembra
che siano molti di più. Sono più che cosciente delle aspettative che
accompagnano la mia presidenza in tutto il mondo. Queste aspettative
non hanno nulla a che fare con me. Esse affondano le loro radici – di
questo sono convinto – in un malcontento nei confronti di uno status
quo che ha sempre più messo l’accento sulle nostre differenze, e che è
superato dai nostri problemi. Ma affondano le loro radici anche nella
speranza, la speranza che un cambiamento vero è possibile, e la
speranza che l’America possa assumere un ruolo guida nella strada che
porta a questo cambiamento.

Sono entrato in carica in un momento in cui tanti, in tutto il mondo,
vedevano l’America con scetticismo e sfiducia, in parte per percezioni e
informazioni sbagliate sul mio Paese, in parte perché contrari a
politiche specifiche e convinti che su certe questioni di primaria
importanza l’America abbia agito unilateralmente, senza riguardo per
gli interessi altrui. Tutto questo ha alimentato un antiamericanismo
quasi istintivo, che troppo spesso è servito come scusa per la nostra
inazione collettiva.
Come tutti voi, la mia responsabilità è agire nell’interesse della mia
nazione e del mio popolo, e non chiederò mai scusa per aver difeso
questi interessi. Ma sono profondamente convinto che oggi, nel 2009,
più che in qualsiasi altro momento della storia umana, tutte le nazioni
e tutti popoli abbiano interessi comuni.
Le convinzioni religiose che nutriamo nel nostro cuore possono
forgiare nuovi legami fra le persone o dividerle aspramente. La
tecnologia che padroneggiamo può illuminare la via per la pace o può
spengerla per sempre. L’energia che usiamo può alimentare il nostro
pianeta o distruggerlo. Quel che ne sarà delle speranze di un unico
bambino, in qualunque parte del mondo, potrà arricchire il nostro
pianeta o impoverirlo.
In quest’aula veniamo da molti posti diversi, ma condividiamo un
futuro comune. Non possiamo più permetterci il lusso di mettere
l’accento sulle nostre differenze, a scapito del lavoro che dobbiamo
fare insieme. Ho portato questo messaggio da Londra ad Ankara, da
Port of Spain a Mosca, da Accra al Cairo; ed è di questo che parlerò
oggi. Perché è venuto il momento per il mondo di muoversi in una
direzione nuova. Dobbiamo entrare in una nuova era di impegno,
basata su interessi reciproci e sul rispetto reciproco, e il nostro lavoro
deve cominciare da subito.
Sappiamo che il futuro sarà determinato dai fatti, e non semplicemente
dalle parole. I discorsi da soli non risolveranno i nostri problemi,
servirà un’azione costante. E a coloro che mettono in discussione la
natura e la causa della mia nazione, chiedo di guardare alle azioni
concrete che abbiamo compiuto in appena nove mesi.
Nel mio primo giorno da presidente ho proibito, senza eccezioni e
senza equivoci, l’uso della tortura da parte degli Stati Uniti d’America.
Ho ordinato la chiusura della prigione di Guantánamo e stiamo
lavorando con impegno per creare una struttura che consenta di
combattere l’estremismo rimanendo nei confini della legalità. Tutte le
nazioni devono saperlo: l’America saprà essere all’altezza dei suoi
valori e saprà assumere un ruolo guida attraverso l’esempio.
Abbiamo stabilito un obbiettivo chiaro e focalizzato: lavorare con tutti i
membri di questo organismo per contrastare, smantellare e
sconfiggere al-Qaida e i suoi alleati estremisti, una rete che ha ucciso
migliaia di persone, di tante fedi e nazioni diverse, e che aveva un
piano per far saltare in aria questo stesso edificio. In Afghanistan e in
Pakistan noi, e molte nazioni che sono qui, stiamo aiutando quei
Governi a sviluppare le capacità per mettersi alla testa di questi sforzi,
lavorando al tempo stesso per garantire più opportunità e sicurezza
alla propria gente.
In Iraq stiamo responsabilmente mettendo fine a una guerra. Abbiamo
rimosso le unità da combattimento dalle città irachene e abbiamo
fissato una scadenza, il prossimo agosto, entro la quale rimuoveremo
tutte le nostre unità da combattimento dal territorio iracheno. E ho
affermato con chiarezza che aiuteremo gli iracheni nella transizione per
giungere ad assumersi una piena responsabilità per il proprio futuro, e
che manterremo il nostro impegno di portare via tutti i soldati
americani entro la fine del 2011.
Ho delineato un programma generale per raggiungere l’obbiettivo di un
mondo senza armi nucleari. A Mosca, gli Stati Uniti e la Russia hanno
annunciato riduzioni importanti delle testate e dei lanciamissili. Alla
Conferenza sul disarmo ci siamo accordati su un piano di lavoro per
negoziare la fine della produzione di materiali fissili a scopo nucleare. E
questa settimana il mio segretario di Stato diventerà il primo alto
rappresentante del Governo degli Stati Uniti a presenziare all’annuale
conferenza degli Stati membri del Comprehensive Test Ban Treaty [il
trattato che mette al bando gli esperimenti nucleari].
Appena sono entrato in carica ho nominato un inviato speciale per la
pace in Medio Oriente, e l’America lavora con costanza e
determinazione per l’obbiettivo di due Stati – Israele e Palestina –
dove la pace metta radici e siano rispettati i diritti sia degli israeliani
che dei palestinesi.
Per combattere i cambiamenti climatici abbiamo investito 80 miliardi di
dollari nell’energia pulita. Abbiamo reso molto più stringenti i
parametri di efficienza per i carburanti. Abbiamo fornito nuovi incentivi
per la difesa dell’ambiente, abbiamo lanciato una partnership
energetica in tutte le Americhe e siamo passati da spettatori a
protagonisti nei negoziati internazionali sul clima.
Per sconfiggere una crisi economica che tocca ogni angolo del mondo,
abbiamo lavorato con le nazioni del G20 per dare vita a una risposta
internazionale coordinata di oltre duemila miliardi di dollari di misure di
stimolo, per salvare dal baratro l’economia mondiale. Abbiamo
mobilizzato risorse che hanno contribuito a prevenire un ulteriore
allargamento della crisi ai Paesi in via di sviluppo. E insieme ad altri
abbiamo lanciato un’iniziativa da 20 miliardi di dollari per la sicurezza
alimentare globale, che tenderà la mano a chi ne ha più bisogno e li
aiuterà a costruire una capacità produttiva propria.
E siamo tornati a impegnarci con le Nazioni Unite: abbiamo pagato
quello che dovevamo; siamo entrati nel Consiglio per i diritti umani;
abbiamo firmato la Convenzione sui diritti delle persone disabili;
abbiamo abbracciato pienamente gli Obbiettivi di sviluppo del
millennio. E affrontiamo le nostre priorità qui, in questa istituzione, ad
esempio attraverso la riunione del Consiglio di sicurezza che presiederò
domani sulla non proliferazione e il disarmo nucleare, e attraverso gli
argomenti che tratterò oggi.
Questo è quello che abbiamo fatto. Ma è soltanto un inizio. Alcune
delle nostre azioni hanno prodotto passi avanti. Alcune hanno gettato
le basi per progressi futuri. Ma una cosa va detta chiaramente: non
può essere solo uno sforzo degli Stati Uniti. Quelli che prima si
scagliavano contro l’America perché agiva in solitudine non possono
ora mettersi da una parte e aspettare che l’America risolva da sola i
problemi del mondo. Stiamo portando avanti, con le parole e con i
fatti, una nuova era di impegno con il mondo. Ora è tempo che tutti ci
prendiamo la nostra parte di responsabilità per una risposta globale a
sfide globali.
Se siamo onesti con noi stessi dobbiamo ammettere che in questo
momento non siamo all’altezza di quella responsabilità. Pensate a
quello che succederebbe se non riuscissimo a gestire lo status quo:
estremisti che seminano terrore in varie parti del mondo; conflitti
prolungati che si trascinano in eterno; genocidi e atrocità di massa;
sempre più nazioni dotate di armi nucleari; ghiacci che si sciolgono e
popolazioni devastate; miseria persistente e pandemie. Non dico
questo per seminare paura, ma per affermare un fatto: le nostre azioni
non sono ancora commisurate alla portata delle nostre sfide.
Questo organismo è stato fondato nella convinzione che le nazioni del
mondo potevano risolvere i loro problemi insieme. Franklin Roosevelt,
che è morto prima di poter vedere il suo sogno di un’istituzione di
questo tipo diventare realtà, la descriveva in questi termini: «La
struttura della pace del mondo non può essere l’opera di un unico
uomo, o di un unico partito, o di un’unica nazione [...] non può essere
una pace di grandi nazioni, o di piccole nazioni. Dev’essere una pace
che poggia sullo sforzo cooperativo del mondo intero».
Lo sforzo cooperativo del mondo intero. Queste parole suonano ancora
più vere oggi, quando ad accomunarci non è semplicemente la pace,
ma la nostra stessa salute e prosperità. Ma io so anche che questo
organismo è composto da Stati sovrani. E purtroppo, ma era
prevedibile, questo organismo spesso è diventato un forum per
seminare discordia, invece che per forgiare un terreno comune: un
luogo dove mettere in atto giochi politici e sfruttare rancori, invece che
per risolvere problemi. D’altronde, è facile salire su questo palco e
puntare il dito, fomentare le divisioni. Non c’è nulla di più facile che
dare la colpa agli altri dei propri problemi, e autoassolversi dalla
responsabilità per le proprie scelte e le proprie azioni. Questo lo può
fare chiunque.
Per esercitare responsabilità e leadership nel XXI secolo ci vuole di più.
In un’era in cui il nostro destino è comune il potere non è più un gioco
a somma zero. Nessuna nazione può o deve cercare di dominare
un’altra nazione. Nessun ordine mondiale che ponga una nazione o un
gruppo di persone al di sopra di un altro può avere successo. Nessun
equilibrio di potere fra nazioni può reggere. La tradizionale divisione
tra nazioni del Sud e nazioni del Nord non ha senso in un mondo
interconnesso. E nemmeno hanno senso schieramenti di nazioni
ancorati alle divisioni di una guerra fredda che è finita da tempo.
È tempo di rendersi conto che le vecchie consuetudini e i vecchi
argomenti sono irrilevanti per le sfide che devo affrontare le nostre
popolazioni. Essi spingono le nazioni ad agire in contrasto con gli
obbiettivi stessi che sostengono di perseguire, e a votare, spesso in
questo organismo, contro gli interessi del loro stesso popolo. Essi
costruiscono muri fra di noi e il futuro che i nostri popoli perseguono,
ed è giunto il momento di abbattere questi muri. Insieme, dobbiamo
costruire nuove coalizioni che colmino le vecchie divisioni, coalizioni di
fedi e convinzioni diverse, tra Nord e Sud, tra Oriente e Occidente, tra
neri, bianchi e marroni.
La scelta è nostra. Potremo essere ricordati come una generazione che
ha scelto di trascinare nel XXI secolo le diatribe del XX, che ha scelto
di rinviare le decisioni difficili, che ha rifiutato di guardare avanti e non
è stata all’altezza, perché abbiamo messo l’accento su quello che non
volevamo invece che su quello che volevamo. Oppure possiamo essere
una generazione che sceglie di vedere l’approdo oltre la tempesta, una
generazione che unisce le forze per gli interessi comuni degli esseri
umani e che finalmente dà un senso alla promessa insita nel nome che
è stato dato a questa istituzione: le Nazioni Unite.
Questo è il futuro che l’America vuole, un futuro di pace e prosperità
che potremo raggiungere solo riconoscendo che tutte le nazioni hanno
dei diritti, ma anche che tutte le nazioni hanno delle responsabilità.
Questo è il patto che fa funzionare tutto ciò, questo dev’essere il
principio guida della cooperazione internazionale.
Oggi io propongo quattro pilastri fondamentali per il futuro che
vogliamo costruire per i nostri figli: la non proliferazione e il disarmo;
la promozione della pace e della sicurezza; la conservazione del nostro
pianeta; e un’economia globale che dia più opportunità a tutte le
persone.
Per prima cosa dobbiamo fermare la diffusione delle armi nucleari e
perseguire l’obbiettivo di un mondo privo di bombe atomiche.
Questa istituzione è stata fondata agli albori dell’era nucleare, ed è
stata fondata anche perché era necessario mettere un freno alla
capacità dell’uomo di uccidere. Per decenni abbiamo evitato il disastro,
anche grazie allo stallo fra le due superpotenze. Ma oggi la minaccia
della proliferazione cresce di portata e di complessità. Se non
riusciremo ad agire favoriremo una corsa agli armamenti nucleari in
tutte le regioni e la prospettiva di guerre e azioni terroristiche di
proporzioni che riusciamo a malapena a immaginare.
Sulla strada di questo esito spaventoso si frappone un fragile
consenso, l’elementare compromesso che è alla base del Trattato di
non proliferazione, che dice che tutte le nazioni hanno diritto
all’energia nucleare civile, che le nazioni dotate di armi nucleari hanno
la responsabilità di procedere verso il disarmo e che le nazioni che non
dispongono di armi nucleari hanno la responsabilità di rinunciarvi. I
prossimi dodici mesi saranno decisivi per appurare se questo patto
verrà rafforzato o se si dissolverà lentamente.
L’America terrà fede ai patti. Cercheremo un nuovo accordo con la
Russia per ridurre in modo considerevole le testate e i lanciamissili in
nostro possesso. Procederemo alla ratifica del trattato per la messa al
bando degli esperimenti nucleari, lavoreremo insieme ad altri perché
questo trattato entri in vigore, in modo da giungere a un divieto
permanente degli esperimenti nucleari. Completeremo una revisione
della situazione nucleare, che aprirà la porta a tagli più consistenti e
ridurrà il ruolo delle armi atomiche. E faremo appello alle nazioni per
avviare a gennaio negoziati su un trattato per mettere fine alla
produzione di materiale fissile a scopi militari.
Inoltre, ad aprile organizzerò un vertice per riaffermare la
responsabilità di ogni nazione di garantire la sicurezza del materiale
nucleare presente sul proprio territorio, e per aiutare quelli che non ne
sono in grado: perché non dobbiamo mai consentire che anche un solo
apparecchio nucleare cada nelle mani di un estremista violento. E
lavoreremo per rafforzare le istituzioni e le iniziative contro il
contrabbando e il furto di materiale nucleare.
Tutto questo mira a sostenere gli sforzi per rafforzare il Trattato di non
proliferazione. Quelle nazioni che rifiuteranno di ottemperare ai propri
obblighi dovranno affrontare le conseguenze. Non si tratta di additare
singole nazioni, si tratta di battersi per i diritti di tutte le nazioni che
adempiono alle loro responsabilità. Perché un mondo in cui si rifiutano
le ispezioni dell’Aiea e si ignorano le richieste delle Nazioni Unite
esporrà tutti noi a un maggiore pericolo, e renderà tutte le nazioni
meno sicure.
Con il comportamento mostrato fino a oggi, il Governo nordcoreano e
quello iraniano minacciano di trascinarci lungo questa china pericolosa.
Noi rispettiamo i loro diritti in quanto membri della comunità delle
nazioni. Io credo in una diplomazia che apra la strada a una maggiore
prosperità e a una pace più sicura per entrambe queste nazioni, se
sapranno far fronte ai loro obblighi.
Ma se i governi di Iran e Corea del Nord dovessero scegliere di
ignorare gli standard fissati a livello internazionale; se dovessero
anteporre il loro desiderio di entrare in possesso di armi nucleari alla
stabilità regionale, alla sicurezza, alle opportunità per il loro stesso
popolo; se fossero dimentichi dei pericoli di un’escalation nucleare sia
in Asia orientale sia in Medio Oriente, allora dovrebbero essere
costrette a rispondere del loro operato. Il mondo deve sentirsi unito,
coeso, e dimostrare che la legalità internazionale non è una vuota
promessa e che i trattati devono essere applicati e tradotti in realtà.
Noi dobbiamo insistere su un punto: il futuro non deve cadere preda
della paura.
Ciò mi porta a illustrare il secondo pilastro sul quale si ergerà il
nostro futuro: il perseguimento della pace. Le Nazioni Unite nacquero
con la premessa che i popoli della Terra potessero vivere le loro vite,
mantenere e far crescere le loro famiglie, risolvere le loro divergenze
in modo pacifico. Purtroppo, però, sappiamo che in troppe aree del
mondo questo ideale resta pura astrazione. Possiamo accettare che
questo sia inevitabile, e tollerare continui conflitti destabilizzanti.
Oppure possiamo ammettere che il desiderio di pace è universale, e
riaffermare la nostra determinazione a porre fine ai conflitti nel mondo.
Questo impegno deve iniziare dall’incrollabile principio che
l’assassinio di uomini, donne e bambini innocenti non sarà mai
tollerato. Su questo punto non possono esserci polemiche e dispute.
Gli estremisti violenti che promuovono la guerra distorcendo la loro
stessa fede hanno perso di credibilità e si sono isolati da soli. Non
hanno altro da offrire che odio e devastazione. Nell’affrontarli,
l’America costituirà delle durature partnership, finalizzate a prendere di
mira i terroristi, mettere in comune le intelligence, coordinare
l’attuazione pratica della legge e proteggere il nostro popolo. Noi non
permetteremo che esista alcun rifugio sicuro e inviolabile dal quale al
Qaeda possa scagliare i suoi attacchi, dall’Afghanistan o da qualche
altra nazione. Noi ci schiereremo al fianco dei nostri amici e alleati
sulla linea del fronte, come domani faremo insieme a molte nazioni per
promuovere aiuti al popolo pachistano. E naturalmente proseguiremo
in questo impegno positivo, per costruire ponti tra le varie confessioni
religiose e creare nuove partnership per dare opportunità a tutti.
I nostri sforzi per promuovere la pace, tuttavia, non possono
essere limitati a sconfiggere gli estremisti violenti, e questo perché
l’arma più potente nel nostro arsenale è la speranza degli esseri
umani, la convinzione che il futuro appartiene a chi lo costruisce, non a
chi lo distrugge, e perché nutriamo la fiducia che i conflitti possono
terminare, che una nuova alba può nascere.
Ecco le ragioni per le quali rafforzeremo il nostro aiuto per
un’efficace missione di peacekeeping, pur continuando a consolidare i
nostri sforzi volti a sventare i conflitti prima ancora che esplodano.
Cercheremo di firmare una pace duratura con il Sudan concedendo
aiuti alla popolazione del Darfur, e con l’attuazione pratica del
Comprehensive Peace Agreement, così da garantire al popolo sudanese
la pace che esso merita. Nei Paesi devastati dalla violenza – da Haiti al
Congo a Timor Est – lavoreremo accanto alle Nazioni Unite e agli altri
partner per dare il massimo aiuto per una pace duratura.
Personalmente continuerò altresì ad adoperarmi per una pace
giusta e duratura tra Israele, Palestina e mondo arabo. Ieri ho avuto
un incontro molto costruttivo con il primo ministro Netanyahau e il
presidente Habbas. Abbiamo fatto qualche passo avanti. I palestinesi
hanno moltiplicato i loro sforzi miranti a tenere sotto controllo la
sicurezza. Gli israeliani hanno concesso una maggiore libertà di
movimento ai palestinesi. Di conseguenza, grazie agli sforzi di
entrambe le parti, l’economia in Cisgiordania ha iniziato a crescere. Ma
occorrono altri progressi. Dobbiamo continuare a esortare i palestinesi
a porre fine all’istigazione alla violenza contro Israele, e continueremo
a far presente a gran voce che l’America non accetta che Israele
continui a considerare legittimi gli insediamenti dei coloni nei Territori.
È venuto il momento di rilanciare i negoziati – senza
precondizioni di sorta – che affrontino una volta per tutte le questioni
di sempre: sicurezza per gli israeliani e palestinesi; confini; profughi e
Gerusalemme. L’obiettivo è chiaro. È quello di due stati che vivono
l’uno accanto all’altro in pace e sicurezza: lo stato ebraico di Israele,
veramente sicuro per tutti gli israeliani; e lo stato palestinese
indipendente, con un territorio contiguo al primo nel quale abbia fine
l’occupazione iniziata nel 1967, e che possa consentire ai palestinesi di
raggiungere il loro pieno potenziale. Mentre ci accingiamo a perseguire
questo scopo, intendiamo promuovere anche la pace tra Israele e
Libano, tra Israele e Siria, e più in generale la pace tra Israele e i molti
Paesi con esso confinanti. Nel perseguire questo obiettivo, intendiamo
mettere a punto delle iniziative regionali con una partecipazione
multilaterale, insieme a negoziati bilaterali.
Non sono un ingenuo. So bene che tutto ciò sarà difficile da
ottenere. Ma noi tutti dobbiamo decidere se facciamo sul serio
parlando di pace o se ci limitiamo a far finta di parlare e muoviamo
soltanto le labbra. Per spezzare i vecchi parametri, per rompere il
circolo vizioso di insicurezza e disperazione, tutti noi dobbiamo
dichiarare ufficialmente ciò che ammettiamo a porte chiuse. Gli Stati
Uniti non rendono un favore a Israele quando mancano di abbinare a
un risoluto impegno alla sua sicurezza l’istanza che Israele rispetti le
legittime richieste e i legittimi diritti dei palestinesi. E tutte le nazioni di
questa Assemblea non rendono un favore ai palestinesi quando costoro
scelgono di lanciare attacchi al vetriolo invece di una costruttiva
volontà di riconoscere la legittimità di Israele, e il suo diritto a esistere,
in pace e in sicurezza.
Dobbiamo ricordarci che il prezzo più pesante di questo conflitto
non lo paghiamo noi. Lo paga quella ragazza israeliana che a Sderot ha
chiuso gli occhi temendo che un razzo le togliesse la vita nel cuore
della notte. Lo paga quel bambino palestinese di Gaza che non ha
accesso all’acqua potabile e non ha un Paese che può chiamare patria.
Questi sono tutti figli di Dio. Al di là della politica, degli atteggiamenti e
delle posizioni, qui si parla dei diritto di ogni essere umano a vivere
con dignità e sicurezza. Questa è la lezione di fondo delle tre grandi
religioni che chiamano Terrasanta quella piccola striscia di terra. Ecco
perché, malgrado io sappia che ci saranno battute d’arresto, false
partenza e giorni molto difficili, io non derogherò dal mio impegno
volto a perseguire la pace.
Terzo: dobbiamo riconoscere che nel XXI secolo, non ci potrà
essere pace nel mondo se non ci assumeremo la responsabilità di
preservare il nostro pianeta. Il pericolo costituito dal cambiamento del
clima è innegabile, e la nostra responsabilità a farvi fronte è
indifferibile. Se continueremo lungo l’attuale percorso, ogni membro di
questa Assemblea assisterà all’interno dei suoi stessi confini a
cambiamenti irreversibili. I nostri sforzi volti a porre fine ai conflitti
saranno eclissati dalle guerre per i profughi e per le risorse. Lo
sviluppo avrà fine, sarà fermato dalla siccità e dalle carestie. La terra
sulla quale gli esseri umani hanno vissuto per millenni scomparirà. Le
generazioni future si guarderanno indietro e si chiederanno per quale
ragione noi ci rifiutammo di agire, perché non riuscimmo a lasciar loro
in eredità l’ambiente così come noi lo avevamo a nostra volta
ereditato.
Quanto ho detto spiega perché i giorni in cui l’America
tergiversava su queste questioni sono ormai alle spalle. Noi
procederemo, andremo avanti a investire per trasformare la nostra
economia energetica, fornendo incentivi per far sì che l’energia pulita
sia l’energia redditizia nella quale investire. Eserciteremo pressioni da
ora in poi, taglieremo le emissioni di gas serra per raggiungere gli
obiettivi fissati per il 2020, e in seguito per il 2050. Continueremo a
promuovere le energie rinnovabili e l’efficienza energetica,
condividendo nuove tecnologie con i Paesi di tutto il mondo. E
coglieremo ogni occasione propizia per il progresso per affrontare
questa minaccia con uno sforzo concertato con il mondo intero.
Le nazioni ricche gravemente responsabili dei danni arrecati
all’ambiente per tutto il XX secolo devono accettare il nostro dovere a
guidare questa missione. Ma la responsabilità non finisce qui.
Dobbiamo riconoscere la necessità di risposte differenziate, e ciascuno
sforzo mirante a ridurre le emissioni di diossido di carbonio deve
coinvolgere i Paesi che rilasciano CO2 nell’atmosfera a ritmo incalzante
e che possono fare di più per ridurre l’inquinamento della loro aria
senza inibire la crescita. Qualsiasi sforzo che trascuri di aiutare le
nazioni più povere ad adattarsi ai problemi che il cambiamento del
clima sta già creando e al contempo proseguire verso lo sviluppo lungo
una strada pulita non funzionerà.
È difficile cambiare qualcosa di così fondamentale come il modo
col quale noi utilizziamo l’energia. Ancora più difficile è farlo nel bel
mezzo di una recessione globale. Sicuramente starcene tranquilli ad
aspettare in attesa che siano gli altri a intervenire per primi è una bella
tentazione. Ma non possiamo affrontare questo cambiamento se non
camminando tutti insieme. Dirigendoci prossimamente a Copenhagen,
cerchiamo di essere determinati, di concentrarci su ciò che ciascuno di
noi può fare per il bene del nostro futuro comune.
Ciò mi conduce a parlare dell’ultimo pilastro sul quale si dovrà
reggere il nostro futuro: un’economia globale che migliori le
opportunità di tutti i popoli. Il mondo si sta ancora riprendendo dalla
peggiore crisi economica che sia mai intervenuta dai tempi della
Grande Depressione. In America vediamo che il motore della crescita
sta iniziando ad agitarsi, e malgrado ciò in molti ancora stentano a
trovare un posto di lavoro o pagare le loro bollette. Nel pianeta stiamo
vedendo qualche segnale promettente, ma poche sicurezze su che
cosa ci aspetta di preciso. Ancora troppe persone in troppi luoghi
vivono le crisi quotidiane che rappresentano una sfida per il comune
genere umano: la disperazione di uno stomaco vuoto, la sete
provocata da acqua sempre più carente, l’ingiustizia di un bambino
agonizzante per una malattia che sarebbe curabile, una madre che
muore mentre mette al mondo la sua creatura.
A Pittsburgh lavoreremo con le più grandi economie del mondo
per delineare una traiettoria per la crescita, affinché sia bilanciata e
sostenuta. Questo significa vigilare, per garantire che non rinunceremo
prima che tutti siano tornati a lavorare. Questo significa prendere
iniziative per rigenerare la domanda, così che una ripresa globale
possa essere sostenuta. Questo, infine, significa stabilire nuove regole
per andare avanti e rafforzare i regolamenti per tutti i centri finanziari,
così da poter porre fine all’avidità, agli eccessi, agli abusi che ci hanno
sprofondato in questo disastro. Così da evitare che una crisi come
questa possa verificarsi di nuovo.
In quest’epoca di massima interdipendenza, noi abbiamo un
interesse morale e pragmatico preciso nelle questioni legate più in
generale allo sviluppo. Pertanto porteremo ancora avanti il nostro
impegno storico mirante ad aiutare tutti i popoli ad avere di che
sfamarsi. Abbiamo messo da parte circa 63 miliardi di dollari per
portare avanti la nostra battaglia contro l’Hiv e l’Aids, per evitare che si
possa ancora morire per tubercolosi e malaria, per sradicare la
poliomielite, per rafforzare i sistemi sanitari pubblici. Ci stiamo unendo
agli altri Paesi dell’Organizzazione Mondiale della Sanità per contribuire
a produrre i vaccini contro il virus dell’H1N1. Integreremo un numero
maggiore di economie in un sistema di commercio globale. Sosterremo
gli Obiettivi per lo Sviluppo del Millennio e ci recheremo al Summit
dell’anno prossimo con un piano globale finalizzato a tradurli in realtà.
Ci concentreremo sull’obiettivo di sradicare – adesso, nell’arco delle
nostre stesse vite – la povertà.
È venuto il momento per noi tutti di fare la nostra parte. La
crescita non sarà sostenuta o condivisa se tutte le nazioni non
decideranno di assumersi le proprie responsabilità. Le nazioni più
ricche devono aprire i loro mercati a un numero maggiore di prodotti e
tendere una mano a coloro che hanno meno, riformando al contempo
le istituzioni internazionali per dare a un numero maggiore di nazioni
una voce più forte. Dal canto loro le nazioni in via di sviluppo dovranno
sradicare completamente la corruzione che costituisce un ostacolo al
progresso, perché le opportunità non fioriscono là dove gli individui
sono oppressi, dove per fare affari è necessario pagare bustarelle. Per
tutto ciò noi daremo aiuto e sostegno alle polizie oneste, ai giudici
indipendenti, alla società civile, al settore privato. Il nostro obiettivo è
semplice: un’economia globale, nella quale la crescita sia sostenuta,
nella quale le opportunità siano accessibili a tutti.
I cambiamenti che vi ho illustrato oggi non saranno raggiungibili
facilmente. Non saranno raggiunti semplicemente da leader che come
noi si ritrovano in riunioni come questa, perché come in qualsiasi altra
Assemblea, il vero cambiamento potrà aver luogo soltanto grazie ai
popoli che noi qui rappresentiamo. Ecco per quale ragione dobbiamo
accollarci il duro lavoro di gettare le basi e le premesse per il progresso
nelle nostre rispettive capitali. Ecco perché dobbiamo costruire un
consenso che ponga fine ai conflitti e pieghi la tecnologia a scopi di
pace, per cambiare il modo col quale utilizziamo l’energia, per
promuovere la crescita che può essere sostenuta e condivisa.
Io credo che i popoli della Terra vogliano questo futuro per le
loro discendenze. E questo fa sì che noi si debba diventare
propugnatori e paladini di questi principi, che garantiscono che i
governi riflettono la volontà dei rispettivi popoli. Questi principi non
possono essere ripensamenti: la democrazia e i diritti umani sono di
cruciale importanza per il raggiungimento di ciascuno degli obiettivi di
cui ho parlato oggi. Perché i governi del popolo ed eletti dal popolo
hanno maggiori probabilità di operare nell’interesse generale del loro
popolo più che per i bassi interessi di coloro che sono al potere.
La nostra leadership non sarà valutata in rapporto al grado col
quale abbiamo alimentato paure e odi tra i nostri popoli. La vera
leadership non sarà valutata dall’abilità con la quale si seminano
dissenso e zizzania, si intimidiscono o si perseguitano le opposizioni
nei nostri rispettivi Paesi. I popoli della Terra vogliono un
cambiamento. Non tollereranno a lungo coloro che si schierano dalla
parte sbagliata della Storia.
La Carta di questa Assemblea specificatamente impegna
ciascuno di noi – cito testualmente – a “riaffermare la fede nei diritti
fondamentali dell’uomo, nel valore della persona umana e
nell’eguaglianza dei diritti degli uomini e delle donne”. Tra questi diritti
vi è la libertà di parlare e pregare come si desidera; la promessa di
eguaglianza tra le razze, e la possibilità per le donne e le bambine di
cercare di raggiungere il loro pieno potenziale; la possibilità per i
cittadini di poter dire la loro su come intendono essere governati, e di
avere fiducia nell’amministrazione della giustizia. Per lo stesso motivo
per cui nessuna nazione dovrebbe essere costretta ad accettare la
tirannia di un’altra nazione, così nessun essere umano dovrebbe essere
costretto ad accettare la tirannia del suo stesso governo.
Da afro-americano, non dimenticherò mai che non sarei qui oggi
se nel mio Paese non ci fosse stato un impegno determinato a
perseguire un’unione più perfetta. Ciò mi induce a credere fermamente
che a prescindere da quanto cupo possa essere il giorno, coloro che
hanno scelto di essere dalla parte della giustizia possono produrre un
cambiamento e una trasformazione. Io prometto che l’America sarà
sempre dalla parte di coloro che si battono per la loro dignità e i loro
diritti, dello studente che vuole imparare, dell’elettore che chiede di
essere ascoltato, dell’innocente che anela a essere liberato, e
dell’oppresso che brama l’uguaglianza.
La democrazia non può essere imposta a nessuna nazione
dall’esterno: ciascuna società deve tracciarsi il proprio cammino e
nessun cammino è perfetto. Ciascun Paese deve tracciarsi un cammino
radicato nella cultura del proprio popolo e - in passato – l’America
troppo spesso è stata selettiva nel promuovere la democrazia a suo
piacere. Ciò non indebolisce affatto il nostro impegno: al contrario, lo
rafforza. Ci sono principi di base, universali. Ci sono verità certe, che
sono palesi. E gli Stati Uniti non derogheranno mai dal proprio sforzo
volto ad affermare il diritto dei popoli, ovunque essi siano, a decidere
del loro stesso destino.
Sessantacinque anni fa, uno sfinito Franklin Roosevelt si rivolse
al popolo americano nel suo quarto e ultimo discorso inaugurale. Dopo
anni di guerra, egli cercò di trarre le lezioni che si potevano trarre dai
terribili avvenimenti vissuti, dagli enormi sacrifici compiuti, e disse:
«Abbiamo imparato a essere cittadini del mondo, membri del genere
umano».
Le Nazioni Unite furono create da uomini e donne come
Roosevelt, di ogni angolo della Terra, provenienti dall’Africa e dall’Asia,
dall’Europa e dalle Americhe. Quegli artefici della cooperazione
internazionale avevano un idealismo tutt’altro che ingenuo e utopistico,
radicato com’era nelle dure lezioni imparate dalla guerra, nella
consapevolezza che le nazioni avrebbero potuto portare avanti i loro
rispettivi interessi agendo insieme, invece che divise.
Adesso è giunto il nostro turno, perché questa istituzione sarà
ciò che noi ne faremo. Le Nazioni Unite fanno del bene straordinario
nel mondo, sfamando gli affamati, curando i malati, ricostruendo i
luoghi distrutti. Ma è pur vero che questa istituzione fa fatica a
tradurre in realtà la propria volontà e a vivere all’altezza degli ideali dei
suoi fondatori.
Io credo che queste carenze non siano una ragione sufficiente a
staccarci da questa istituzione. Sono anzi un richiamo a raddoppiare i
nostri sforzi. Le Nazioni Unite possono essere la sede nella quale
litigare per istanze del passato, oppure la sede nella quale costruire
un terreno comune. Possono essere la sede nella quale concentrarci su
ciò che ci separa, oppure la sede nella quale concentrarci su ciò che ci
tiene insieme; la sede nella quale lasciare che i tiranni prosperino o la
fonte di un’autorità morale. In sintesi: le Nazioni Unite possono essere
un’istituzione slegata da ciò che conta davvero per la vita dei nostri
popoli o diventare indispensabili per portare avanti gli interessi dei
popoli al servizio dei quali noi siamo.
Abbiamo raggiunto una fase epocale. Gli Stati Uniti sono pronti a
dare inizio a una nuova fase di cooperazione internazionale, nella
quale si riconoscano i diritti e le responsabilità di tutte le nazioni.
Fiduciosi nella nostra causa, disposti a impegnarci per i nostri valori,
facciamo appello a tutte le nazioni affinché si uniscano a noi per
costruire il futuro che i nostri popoli meritano. Grazie.
Traduzione di Anna Bissanti e Fabio Galimberti

martedì 22 settembre 2009

342 ORE SULLE GRANDES JORASSES

DESMAISON RENE' LA PRIMA INVERNALE DELLA DIRETTISSIMA
ALLA PUNTA WALKER: IL RACCONTO DELLA TRAGEDIA.

Massiccio del Monte Bianco, 11 febbraio 1971: René Desmaison tenta la direttissima della Punta Walker sulle Grandes Jorasses insieme al giovane compagno, Serge Gousseault. Di fronte si trovano 1.200 metri di granito e ghiaccio strapiombanti e soggetti a continue scariche di neve e sassi. La salita è più dura del previsto e i due devono bivaccare più volte; fino al 17 il tempo regge, ma poi si mette al brutto. Ormai sono a 200 metri dalla vetta, l'unica possibilità è arrivare in cima, ma i collegamenti col fondovalle e i familiari si sono interrotti, i viveri scarseggiano e Serge Gousseault tradisce i primi segni di sfinimento: è l'inizio della fine. A Desmaison non resta che attendere i soccorsi che arriveranno dopo più di due settimane in parete.

Rava Party

Torino - Domenica 13 Settembre 2009
Auditorium Giovanni Agnelli - Lingotto


Enrico Rava
Enrico Rava è sicuramente il jazzista italiano più conosciuto e apprezzato a livello internazionale. Da sempre impegnato nelle esperienze più diverse e stimolanti, è apparso sulla scena jazzistica a metà degli anni Sessanta, imponendosi rapidamente come uno dei più convincenti solisti del jazz europeo. La sua schiettezza umana e artistica lo pone al di fuori di ogni schema e ne fa un musicista rigoroso, ma incurante delle convenzioni. La sua poetica immediatamente riconoscibile, la sua sonorità lirica e struggente sempre sorretta da una stupefacente freschezza d’ispirazione, risaltano fortemente in tutte le sue avventure musicali. In cinque decenni di carriera, ha al proprio attivo oltre cento incisioni. Avvicinatosi alla tromba nel 1957, grande ammiratore di Miles Davis e Chet Baker, Enrico Rava comincia a suonare giovanissimo nei club torinesi. Nel 1962 conosce Gato Barbieri, al cui fianco due anni dopo incide la colonna sonora del film di Giuliano Montaldo Una bella grinta. In quegli anni incontra Don Cherry e Steve Lacy, con il quale suona in quartetto tra Londra e Buenos Aires (è in Argentina, nel 1966, che il quartetto registra l’album The Forest and The Zoo). Nel 1967 Rava è a New York, dove rimarrà per circa dieci anni, frequentando musicisti come Roswell Rudd, Marion Brown, Rashid Ali, Cecil Taylor, Carla Bley, Charlie Haden e incidendo anche con la Jazz Composer’s Orchestra di Carla Bley. A partire dal 1972, anno in cui pubblica Il giro del giorno in 80 mondi, il primo disco a suo nome, Rava dirige quartetti (sia nei club newyorkesi, sia in tournée in Europa e Argentina) quasi sempre privi di pianoforte. Le collaborazioni e le incisioni si susseguono, preziose, a ritmo serrato, a fianco di prestigiosi musicisti italiani, europei e americani tra cui Franco D’Andrea, Massimo Urbani, Joe Henderson, John Abercrombie, Palle Danielsson, Jon Christensen, Nana Vasconcelos, Miroslav Vitous, Daniel Humair, Michel Petrucciani, Charlie Mariano, Joe Lovano (con il quale agli inizi degli anni Novanta forma un quintetto), Albert Mangelsdorff, Dino Saluzzi, Richard Galliano, Martial Solal, Archie Shepp e molti altri. Ha effettuato numerose tournée in Stati Uniti, Giappone, Canada, Europa, Brasile, Argentina, Uruguay, partecipando ai più importanti festival (Montreal, Toronto, Houston, Los Angeles, Perugia, Antibes, Berlino, Parigi, Tokyo, Rio de Janeiro e San Paolo). È stato innumerevoli volte eletto musicista dell’anno nei referendum “Top Jazz” indetti dalla rivista «Musica Jazz».I primi anni del nuovo millennio sono stati gratificanti per Enrico Rava. Nel 2002 è nominato Chevalier dans l’Ordre des Arts et des Lettres dal Ministro della Cultura Francese ed è il primo musicista italiano a ricevere il prestigioso Jazzpar Prize, riconoscimento conferito annualmente a Copenhagen da una giuria internazionale, noto come il Nobel del Jazz. Negli ultimi due anni è comparso ai primi posti del referendum indetto dalla rivista americana «Down Beat» nella sezione riservata ai trombettisti di tutto il mondo. Nel gennaio 2004 si è esibito per una settimana al prestigioso Blue Note di New York, bissando il successo alla Town Hall e poi ancora al Birdland. Nel 2004, per ECM, esce il disco Easy Living, seguito da Tati (inciso sul finire del 2004 a New York con Stefano Bollani e Paul Motian), nel 2007 The Words and the Days (inciso in quintetto con Gianluca Petrella, Andrea Pozza, Rosario Bonaccorso, Roberto Gatto) e The Third Man in duo con Stefano Bollani. All’inizio del 2009 ha pubblicato il nuovo dico inciso a New York con Stefano Bollani, Paul Motian, Larry Grenadier e Mark Turner, dal titolo New York Days.


Stefano Bollani esordisce professionalmente a quindici anni. Dopo il diploma di Conservatorio conseguito a Firenze nel 1993 e una breve esperienza come turnista nel mondo della musica pop (con Raf e Jovanotti, fra gli altri) si afferma nel jazz, collaborando con grandissimi musicisti (Richard Galliano, Gato Barbieri, Pat Metheny, Michel Portal, Phil Woods, Lee Konitz, Han Bennink, Paolo Fresu, Miroslav Vitous, Aldo Romano, Toninho Horta, John Abercrombie, Kenny Wheeler, Greg Osby, Martial Solal) sui palchi più prestigiosi del mondo (da Umbria Jazz al Festival di Montreal, dalla Town Hall di New York alla Scala di Milano). Fra le tappe della sua carriera, fondamentale è la collaborazione iniziata nel 1996 (e da allora mai interrotta) con il suo mentore Enrico Rava, al fianco del quale tiene centinaia di concerti e incide numerosi dischi. Il referendum dei giornalisti della rivista specializzata «Musica Jazz» lo proclama miglior nuovo talento del 1998; in quel periodo, mentre guida il proprio gruppo, l’Orchestra del Titanic, si lancia nella realizzazione di un ambizioso disco-spettacolo in omaggio alla musica leggera italiana degli anni Trenta-Quaranta (Abbassa la tua radio con Peppe Servillo, Irene Grandi, Marco Parente, Elio di Elio e le Storie Tese e tanti altri cantanti e musicisti).Nel 2003 a Napoli riceve il Premio Carosone; l’anno successivo la rivista giapponese «Swing Journal» gli conferisce il premio New Star Award riservato ai talenti emergenti stranieri, per la prima volta assegnato a un musicista non americano. Per la prestigiosa etichetta francese Label Bleu realizza quattro dischi: un omaggio allo scrittore Raymond Queneau, registrato in trio con Scott Colley e Clarence Penn (Les fleures bleues, 2002), un disco in completa solitudine (Smat smat, 2003, segnalato dalla rivista inglese «Mojo» come uno dei migliori dieci dischi jazz dell’anno), un disco per trio jazz e orchestra sinfonica con l’Orchestra Regionale Toscana diretta da Paolo Silvestri (Concertone, 2004), un doppio album (I visionari, 2006) con il suo nuovo quintetto e Mark Feldman, Paolo Fresu e Petra Magoni come ospiti. In ambito classico, si esibisce come solista con orchestre sinfoniche come l’Orchestra Regionale Toscana, la Filarmonica ’900 del Teatro Regio di Torino, l’Orchestra Sinfonica “Giuseppe Verdi” di Milano, l’Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia con direttori come Jan Latham-Koenig (con cui ha inciso il Concert champêtre di Poulenc per l’etichetta inglese Avie Records), Cristopher Franklyn e James Conlon.Nel 2005 è ospite fisso nel programma televisivo di RaiUno Meno siamo meglio stiamo, di e con Renzo Arbore. È ideatore e conduttore, insieme a David Riondino, della trasmissione musicale Dottor Djembè, in onda su RadioTre (premio Microfono d’argento 2007). Dal 2005 è direttore artistico della rassegna Vivere Jazz Festival, che si svolge ogni anno a Fiesole; nel 2006 è nominato musicista italiano dell’anno dalla rivista «Musica jazz» e il suo Piano solo, uscito per la ECM, è il disco dell’anno. Il 2007 lo vede fra i cinque musicisti più importanti per “Allaboutjazz” di New York, accanto a mostri sacri come Ornette Coleman e Sonny Rollins, ottavo fra i nuovi talenti del jazz mondiale e terzo fra i giovani pianisti secondo il referendum di «Downbeat». Inoltre a Vienna gli viene consegnato l’European Jazz Prize, premio della critica europea, come miglior musicista europeo dell’anno. Il suo ultimo lavoro è uscito in edicola, allegato alla rivista «L’Espresso» nel dicembre 2007. Si tratta di un’incursione nella musica popolare brasiliana,Bollani Carioca, un disco registrato a Rio de Janeiro con importanti musicisti del luogo. Insieme a loro si è esibito in varie città del Brasile ed è stato il secondo musicista, dopo Antonio Carlos Jobim, a suonare un pianoforte a coda in una favela di Rio, il primo dicembre 2007. Da gennaio 2009 compone tutte le sigle del palinsesto di Rai RadioTre. Per l’autunno è in uscita Stone in The Water, il suo nuovo disco inciso a New York per la ECM con Jesper Bodilsen al basso e Morten Lunden alla batteria.

Più di un sud



Il caso di Torino, città dove la recente immigrazione dal Sud del mondo è stata preceduta da un'imponente immigrazione dal sud italiano, presenta caratteristiche particolarmente interessanti per riflessioni di carattere più generale. Frutto di prolungate ricerche sul campo, condotte da cinque giovani studiosi tra il 1996 e il 2002, i saggi contenuti in questo volume portano un significativo contributo alla comprensione di alcuni aspetti centrali dell'immigrazione a Torino oggi, utilizzando i metodi di indagine dell'antropologia per far emergere nella ricchezza del dettaglio etnografico le principali variabili e le molte dimensioni del fenomeno migratorio e dell'esperienza dei migranti.
A differenza della maggior parte degli studi sull'immigrazione in Italia, Più di un Sud non si concentra soltanto sulla "nuova immigrazione" ma considera anche le conseguenze della precedente immigrazione interna. Vengono inoltre esplorate le rappresentazioni "native" (italiane, torinesi) dell'immigrazione e degli immigrati: uno dei saggi, esaminando le strategie di costruzione del sentimento etnico padano perseguite dalla Lega Nord, permette di cogliere i mutamenti di bersaglio del pregiudizio - dal meridionale all'extracomunitario - nel corso dell'ultimo ventennio.
Aperto da un'introduzione che fornisce le coordinate essenziali per inquadrare il "caso Torino" e discute i principali aspetti metodologici e teorici dell'antropologia delle migrazioni, il volume illustra concretamente questioni importanti per chi si trova ad affrontare le problematiche legate all'immigrazione e costituisce uno strumento prezioso tanto nell'insegnamento universitario quanto nella formazione e aggiornamento di operatori dei servizi sociali.

Paola Sacchi ha conseguito il dottorato di ricerca in Antropologia culturale e etnologia presso l'Università di Torino ed è attualmente professore a contratto di Antropologia culturale presso l'Università di Pavia e di Antropologia del Medio Oriente presso l'Università di Torino. Ha condotto ricerche sul terreno tra i gruppi beduini del Negev e tra gli immigrati maghrebini in Piemonte. Coautrice, con U. Avalle e M. Maranzana, di Corso di scienze sociali (Bologna, Zanichelli, 2000), ha recentemente pubblicato Nakira. Giovani e donne in un villaggio beduino di Israele (Torino, Il Segnalibro, 2003).

Pier Paolo Viazzo è professore di Antropologia sociale presso l'Università di Torino. Ha condotto ricerche sul terreno in area alpina e si occupa di antropologia delle società complesse, delle relazioni tra antropologia, storia e demografia, e di antropologia delle migrazioni e della mobilità. Tra i suoi lavori più recenti: Introduzione all'antropologia storica (Roma-Bari, Laterza, 2000); Comunità alpine. Ambiente, popolazione, struttura sociale nelle Alpi dal XVI secolo ad oggi (Roma, Carocci, 20012) e, con M. Aime e S. Allovio, Sapersi muovere. I pastori transumanti di Roaschia (Roma, Meltemi, 2001).

Le prigioni invisibili


L'emigrazione e l'immigrazione sono le due facce di una stessa medaglia e non si può comprendere l'una senza conoscere l'altra, rilevava già Abdelmalek Sayad. Nondimeno, lo studio delle migrazioni si è concentrato soprattutto sul lato che ci riguarda da vicino, sull'immigrazione e le sue conseguenze, trascurando il lato nascosto del fenomeno, lo studio dell'emigrazione, delle sue cause e del suo significato. Basato su una ricerca etnografica multisituata in Marocco e a Torino, questo libro vuole invece essere una descrizione densa della migrazione marocchina nella sua interezza, soffermandosi in particolare sul momento dell'emigrazione e sui contesti di origine dei migranti. Dalla descrizione delle difficoltà e delle aspirazioni dei giovani abitanti di Casablanca e Khouribga, e dall'analisi della cultura dell'emigrazione e dell'immaginazione sociale, l'emigrazione marocchina emerge come un tentativo di fuga dalla mancanza di opportunità e dall'esclusione di classe. Ma l'immigrazione in Italia non mantiene tutte le promesse, perché le prigioni invisibili della discriminazione e dell'esclusione limitano costantemente i percorsi e le possibilità dei migranti marocchini. E i legami transnazionali, sociali e simbolici, con il paese d'origine continuano a essere decisivi nelle vite e nei progetti dei migranti. Unendo una dettagliata descrizione etnografica, arricchita dalle voci e dalle storie dei protagonisti, alle più recenti analisi teoriche, il libro rappresenta un contributo originale, da un punto di vista antropologico, allo studio delle migrazioni contemporanee.


Carlo Capello è docente di Antropologia Politica alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Torino. Ha condotto indagini sul campo a Torino e in Marocco sui temi della migrazione e dei riti funebri e nel Sud Italia sul tema della famiglia e della sicurezza sociale, pubblicando diversi saggi a partire dalle sue ricerche.

venerdì 18 settembre 2009

Frida Kahlo, euforia di una vita



Uno spettacolo teatrale dedicato a Frida Kahlo, una delle pittrici messicane più famose, studiate e ammirate, per i suoi quadri straordinari, ma anche per la sua vita travagliata, un misto di dolore e forza. Un monologo intimo e gioioso, che si colloca tra il ricordo, i sogni e la passionale realtà di un personaggio viscerale.
Scritto e interpretato da Monica Livoni Larco, dell’associazione Donne di Sabbia, con suoni Gianfranco Mulas, Frida euforia di una vita va in scena venerdì 18 settembre 2009 alle ore 22 a Spazzi-La locanda degli arrivanti, Via Virle 21, Torino.
Spazzi è un luogo particolare, che è ristorante, bar, emporio equosolidale, centro studi, e molte altre cose; nato da è un progetto delle Cooperative Sociali Progetto-Muret, Luci nella Città e dell’Associazione Arcobaleno, realtà che da molti anni lavorano per l’inclusione sociale di persone con problemi psichiatrici, ha già ospitato eventi teatrali tra cui la prima edizione di Donne di sabbia ( sui femminicidi di Ciudad Juarez in Messico.
Per informazioni:
tel. 011.4330331 – 011.4337136

martedì 21 luglio 2009

EL GRIO

Sono un Acchiappasogni mani troppo fragili e Cuore troppo lento.Sulla Cima di un 8000 cè il Silenzio.Un Silenzio che lascia spazio solo al battito del Cuore, al respiro affannoso, a te stesso.Il Mondo è troppo rumoroso sono una ricercatrice del Silenzio.
Semplicemente El Grio.

12 LUGLIO 2009

Ciao a tutti sono El Grio dal campo base del K2 dove sono venuta a trovare Gerlinde e a sentire un po´come sono le previsioni.

Io e Gandalf il 6 e 7 Luglio abbiamo passato un po´di tempo al Campo 2 a 6300 metri. Dopo le nevicate e´arrivato il vento molto forte 100 km/h a 8000m sembra quindi difficile al momento salire, speriamo che nei prossimi giorni cali , ci sono buone speranze che questo accada.
Dal campo 3 a 7100 al colle a 7800m ce´un traverso dove si raccoli molta neve quindi e difficile salire dal colle in poi, in cresta la situazione e´migliore e si procede piu´ veloce.
Noi non ci arrendiamo di certo abbiamo ancora un po´di tempo e la pazienza non manca.
Chi l´ha dura la vince.
La Cima e´ li che ci guarda severa e ci fa capire ancora una volta che non esistono 8000 semplici esistono solo condizioni piu´o meno buone per la scalata.
Un bacio a tutti dal Grio e grazie a tutti gli Angeli che mi aspettano a casa.

giovedì 2 luglio 2009

"Etekaf", lo sciopero islamico Così ci fermeremo secondo le regole


Dal 6 all'8 luglio, la protesta iraniana contro il voto darà vita all'astensione dal lavoro
Ma lo farà rispettando tempi e modi della legge. I centri di raccolta saranno le moschee"Etekaf", lo sciopero islamico
Così ci fermeremo secondo le regoleGli scioperanti digiuneranno dall'alba al tramonto come durante il Ramadan
di FATEMEH KARIMI

Dal sito di Repubblica

Fatemeh Karimi è una studentessa iraniana che, come tanti altri, sta vivendo questi giorni di paura, rabbia ed emozioni. Giorno per giorno, riferisce sul nostro sito quello che vede e sente, quello che vedono e sentono i suoi amici. Fatemeh scrive anche sul sito "AgendaComunicazione.it" che da tempo si occupa dei temi dell'informazione e che dà molta attenzione alla vicenda iraniana.

TEHERAN - Non è facile fare uscire questi pensieri e queste notizie, non è facile nemmeno comunicare tra noi. Non è opportuno uscire di casa: ci sono guardie armate ovunque. Si cerca chiunque abbia anche solo l'aspetto di essere potenzialmente un nemico del regime. Il rischio è di essere coinvolti in sparatorie o pestaggi. Bisogna stare attenti a tenere in mano il proprio telefonino oppure una macchina fotografica.

Lo sciopero islamico. Ieri, dopo la pubblicazione nel web del nono comunicato del nostro Presidente Mira Hossein Mousavi, tra gli amici rincuorati, è iniziato il dibattito - di persona e attraverso i blog - sul programma dei prossimi giorni.

Mi sono esaltata sia per il comunicato sia per le affermazioni di sdegno dell'ex presidente Mohhamad Khatami. Ci hanno dato nuove speranze e nuove energie per continuare nonostante tutte le repressioni e le brutalità che stanno compiendo in questi giorni di sangue.

Alla fine, vista la difficoltà di manifestare per le strade, si è deciso di organizzare, l'Etekaf, lo sciopero verde islamico, in tutto l'Iran nei giorni consentiti dalla legge islamica dal 15 al 17 Tir, secondo il calendario persiano e dal 13 al 15 del mese di Rajab per quello arabo (dal 6 all'8 luglio per il vostro). "Ogni azione non deve essere contro le leggi islamiche": questo dobbiamo ricordarci. Quindi i giorni consentiti per lo sciopero sono gli ultimi dieci del mese del Ramadan e quelli "bianchi" del mese di Rajab: così non infrangiamo né il diritto Coranico né le leggi della Repubblica .

Dunque la protesta va avanti con le manifestazioni indette per giovedì 2 (oggi) e 9 luglio. Cosa faremo? Oltre a gridare "Allaho Akbar" tutte le sere dai tetti delle case, scriveremo sulle banconote, ritireremo i soldi e chiuderemo i nostri conti nelle banche statali, inoltre continueremo il boicottaggio dei prodotti pubblicizzati dalle Tv di stato.

Lo "sciopero islamico" si attua con precise modalità. Anche perché, così, non può essere vietato. I partecipanti devono fermarsi dalle loro attività quotidiane e quindi non vanno a lavorare. L'Etekaf deve avere dietro un pensiero (fioretto) preciso, con un fine predeterminato. Gli scioperanti si recano nelle moschee che diventano, così, il centro dello sciopero. In questo caso il comunicato raccomanda di andare al Mausoleo dell'Imam Khomeini, oltre che in tutte le altre moschee del Paese.

L'Etekaf non deve durare meno di tre giorni e i partecipanti non devono lasciare la propria postazione nella moschea scelta: si può anche partecipare restando a casa. L'importante è astenersi dalle attività e pensare all'obiettivo dello sciopero.

I partecipanti devono inoltre digiunare durante i tre giorni come nel mese di Ramadan, perciò non si deve bere e mangiare dall'alba al tramonto.

Questa è stata una grande idea secondo me, molto intelligente, visto che ci consente di protestare legalmente, rimanendo in quel "rispetto delle regole" più volte affermato dal nostro Presidente Mir Hossein Mousavi.

Picchiato perché aveva la macchina fotografica. Un mio caro amico, assieme ad altri suoi amici, stava passeggiando e aveva una piccola macchina fotografica in mano: non stava scattando, non stava facendo niente. Senza alcun motivo, un gruppo di poliziotti, lui non ricorda bene chi fossero, li ha inseguiti: gli altri sono riusciti a scappare, ma lui è stato preso. Lo hanno massacrato di botte. In qualche modo è arrivato in ospedale, gli hanno fatto una Tac al cranio. Ha la schiena distrutta dalle manganellate, ma quando l'ho chiamato mi ha detto che continuerà a partecipare alle manifestazioni e che con questo non l'hanno intimidito.

Mi piange il cuore e mi chiedo il perché: non siamo giovani anche noi? Perché non abbiamo il diritto di un'esistenza normale come tanti altri? Questa non è vita, ormai qualcosa si è spezzato per sempre, non riusciranno più a farci stare buoni come vogliono loro.

In qualsiasi modo inventandoci forme di protesta continueremo la nostra protesta pacifica. Da ieri si possono utilizzare nuovamente gli sms: hanno levato il filtro, ma noi non vogliamo più usarli per creare un danno economico al governo; ma sul web qualcuno ha proposto invece di utilizzarli per una nuova forma di protesta: su questo ho scritto un nuovo articolo per l'Agenda News
(2 luglio 2009)

''United for Neda''(2 luglio 2009)

La clip firmata da Mams Taylor, rapper anglo-iraniana e Sheila Vosough, attrice persiana Le immagini girate interamente con il telefonino durante le proteste dei giorni scorsi: "Non dimenticatevi dell'Iran e della sua battaglia per la libertà".
<>GUARDA IL VIDEO

lunedì 29 giugno 2009

"Perché trattate così bene Berlusconi?" Don Farinella scrive al cardinal Bagnasco

Da Repubblica su segnalazione di Walter

Questa lettera, scritta da don Paolo Farinella, prete e biblista della diocesi di Genova al suo vescovo e cardinale Angelo Bagnasco, è stata inviata qualche settimana fa e circola da giorni su internet. Riguarda la vicenda Berlusconi, vista con gli occhi di un sacerdote. Alla luce degli ultimi fatti e della presa di posizione di Famiglia Cristiana che ha chiesto alla Chiesa di parlare, i suoi contenuti diventano attualissimi.

Egregio sig. Cardinale,

viviamo nella stessa città e apparteniamo alla stessa Chiesa: lei vescovo, io prete. Lei è anche capo dei vescovi italiani, dividendosi al 50% tra Genova e Roma. A Genova si dice che lei è poco presente alla vita della diocesi e probabilmente a Roma diranno lo stesso in senso inverso. E' il destino dei commessi viaggiatori e dei cardinali a percentuale. Con questo documento pubblico, mi rivolgo al 50% del cardinale che fa il Presidente della Cei, ma anche al 50% del cardinale che fa il vescovo di Genova perché le scelte del primo interessano per caduta diretta il popolo della sua città.

Ho letto la sua prolusione alla 59a assemblea generale della Cei (24-29 maggio 2009) e anche la sua conferenza stampa del 29 maggio 2009. Mi ha colpito la delicatezza, quasi il fastidio con cui ha trattato - o meglio non ha trattato - la questione morale (o immorale?) che investe il nostro Paese a causa dei comportamenti del presidente del consiglio, ormai dimostrati in modo inequivocabile: frequentazione abituale di minorenni, spergiuro sui figli, uso della falsità come strumento di governo, pianificazione della bugia sui mass media sotto controllo, calunnia come lotta politica.

Lei e il segretario della Cei avete stemperato le parole fino a diluirle in brodino bevibile anche dalle novizie di un convento. Eppure le accuse sono gravi e le fonti certe: la moglie accusa pubblicamente il marito presidente del consiglio di "frequentare minorenni", dichiara che deve essere trattato "come un malato", lo descrive come il "drago al quale vanno offerte vergini in sacrificio". Le interviste pubblicate da un solo (sic!) quotidiano italiano nel deserto dell'omertà di tutti gli altri e da quasi tutta la stampa estera, hanno confermato, oltre ogni dubbio, che il presidente del consiglio ha mentito spudoratamente alla Nazione e continua a mentire sui suoi processi giudiziari, sull'inazione del suo governo. Una sentenza di tribunale di 1° grado ha certificato che egli è corruttore di testimoni chiamati in giudizio e usa la bugia come strumento ordinario di vita e di governo. Eppure si fa vanto della morale cattolica: Dio, Patria, Famiglia. In una tv compiacente ha trasformato in suo privato in un affaire pubblico per utilizzarlo a scopi elettorali, senza alcun ritegno etico e istituzionale.

Lei, sig. Cardinale, presenta il magistero dei vescovi (e del papa) come garante della Morale, centrata sulla persona e sui valori della famiglia, eppure né lei né i vescovi avete detto una parola inequivocabile su un uomo, capo del governo, che ha portato il nostro popolo al livello più basso del degrado morale, valorizzando gli istinti di seduzione, di forza/furbizia e di egoismo individuale. I vescovi assistono allo sfacelo morale del Paese ciechi e muti, afoni, sepolti in una cortina di incenso che impedisce loro di vedere la "verità" che è la nuda "realtà". Il vostro atteggiamento è recidivo perché avete usato lo stesso innocuo linguaggio con i respingimenti degli immigrati in violazione di tutti i dettami del diritto e dell'Etica e della Dottrina sociale della Chiesa cattolica, con cui il governo è solito fare i gargarismi a vostro compiacimento e per vostra presa in giro. Avete fatto il diavolo a quattro contro le convivenze (Dico) e le tutele annesse, avete fatto fallire un referendum in nome dei supremi "principi non negoziabili" e ora non avete altro da dire se non che le vostre paroline sono "per tutti", cioè per nessuno.

Il popolo credente e diversamente credente si divide in due categorie: i disorientati e i rassegnati. I primi non capiscono perché non avete lesinato bacchettate all'integerrimo e cattolico praticante, Prof. Romano Prodi, mentre assolvete ogni immoralità di Berlusconi.
Non date forse un'assoluzione previa, quando vi sforzate di precisare che in campo etico voi "parlate per tutti"? Questa espressione vuota vi permette di non nominare individualmente alcuno e di salvare la capra della morale generica (cioè l'immoralità) e i cavoli degli interessi cospicui in cui siete coinvolti: nella stessa intervista lei ha avanzato la richiesta di maggiori finanziamenti per le scuole private, ponendo da sé in relazione i due fatti. E' forse un avvertimento che se non arrivano i finanziamenti, voi siete già pronti a scaricare il governo e l'attuale maggioranza che sta in piedi in forza del voto dei cattolici atei? Molti cominciano a lasciare la Chiesa e a devolvere l'8xmille ad altre confessioni religiose: lei sicuramente sa che le offerte alla Chiesa cattolica continuano a diminuire; deve, però, sapere che è una conseguenza diretta dell'inesistente magistero della Cei che ha mutato la profezia in diplomazia e la verità in servilismo.

I cattolici rassegnati stanno ancora peggio perché concludono che se i vescovi non condannano Berlusconi e il berlusconismo, significa che non è grave e passano sopra a stili di vita sessuale con harem incorporato, metodo di governo fondato sulla falsità, sulla bugia e sull'odio dell'avversario pur di vincere a tutti i costi. I cattolici lo votano e le donne cattoliche stravedono per un modello di corruttela, le cui tv e giornali senza scrupoli deformano moralmente il nostro popolo con "modelli televisivi" ignobili, rissosi e immorali.

Agli occhi della nostra gente voi, vescovi taciturni, siete corresponsabili e complici, sia che tacciate sia che, ancora più grave, tentiate di sminuire la portata delle responsabilità personali. Il popolo ha codificato questo reato con il detto: è tanto ladro chi ruba quanto chi para il sacco. Perché parate il sacco a Berlusconi e alla sua sconcia maggioranza? Perché non alzate la voce per dire che il nostro popolo è un popolo drogato dalla tv, al 50% di proprietà personale e per l'altro 50% sotto l'influenza diretta del presidente del consiglio? Perché non dite una parola sul conflitto d'interessi che sta schiacciando la legalità e i fondamentali etici del nostro Paese? Perché continuate a fornicare con un uomo immorale che predica i valori cattolici della famiglia e poi divorzia, si risposa, divorzia ancora e si circonda di minorenni per sollazzare la sua senile svirilità? Perché non dite che con uomini simili non avete nulla da spartire come credenti, come pastori e come garanti della morale cattolica? Perché non lo avete sconfessato quando ha respinto gli immigrati, consegnandoli a morte certa?

Non è lo stesso uomo che ha fatto un decreto per salvare ad ogni costo la vita vegetale di Eluana Englaro? Non siete voi gli stessi che difendete la vita "dal suo sorgere fino al suo concludersi naturale"? La vita dei neri vale meno di quella di una bianca? Fino a questo punto siete stati contaminati dall'eresia della Lega e del berlusconismo? Perché non dite che i cattolici che lo sostengono in qualsiasi modo, sono corresponsabili e complici dei suoi delitti che anche l'etica naturale condanna? Come sono lontani i tempi di Sant'Ambrogio che nel 390 impedì a Teodosio di entrare nel duomo di Milano perché "anche l'imperatore é nella Chiesa, non al disopra della Chiesa". Voi onorate un vitello d'oro.

Io e, mi creda, molti altri credenti pensiamo che lei e i vescovi avete perduto la vostra autorità e avete rinnegato il vostro magistero perché agite per interesse e non per verità. Per opportunismo, non per vangelo. Un governo dissipatore e una maggioranza, schiavi di un padrone che dispone di ingenti capitali provenienti da "mammona iniquitatis", si è reso disposto a saldarvi qualsiasi richiesta economica in base al principio che ogni uomo e istituzione hanno il loro prezzo. La promessa prevede il vostro silenzio che - è il caso di dirlo - è un silenzio d'oro? Quando il vostro silenzio non regge l'evidenza dell'ignominia dei fatti, voi, da esperti, pesate le parole e parlate a suocera perché nuora intenda, ma senza disturbarla troppo: "troncare, sopire ... sopire, troncare".

Sig. Cardinale, ricorda il conte zio dei Promessi Sposi? "Veda vostra paternità; son cose, come io le dicevo, da finirsi tra di noi, da seppellirsi qui, cose che a rimestarle troppo ... si fa peggio. Lei sa cosa segue: quest'urti, queste picche, principiano talvolta da una bagattella, e vanno avanti, vanno avanti... A voler trovarne il fondo, o non se ne viene a capo, o vengon fuori cent'altri imbrogli. Sopire, troncare, padre molto reverendo: troncare, sopire" (A. Manzoni, Promessi Sposi, cap. IX). Dobbiamo pensare che le accuse di pedofilia al presidente del consiglio e le bugie provate al Paese siano una "bagatella" per il cui perdono bastano "cinque Pater, Ave e Gloria"? La situazione è stata descritta in modo feroce e offensivo per voi dall'ex presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, che voi non avete smentito: "Alla Chiesa molto importa dei comportamenti privati. Ma tra un devoto monogamo [leggi: Prodi] che contesta certe sue direttive e uno sciupa femmine che invece dà una mano concreta, la Chiesa dice bravo allo sciupa femmine. Ecclesia casta et meretrix" (La Stampa, 8-5-2009).

Mi permetta di richiamare alla sua memoria, un passo di un Padre della Chiesa, l'integerrimo sant'Ilario di Poitier, che già nel sec. IV metteva in guardia dalle lusinghe e dai regali dell'imperatore Costanzo, il Berlusconi cesarista di turno: "Noi non abbiamo più un imperatore anticristiano che ci perseguita, ma dobbiamo lottare contro un persecutore ancora più insidioso, un nemico che lusinga; non ci flagella la schiena ma ci accarezza il ventre; non ci confisca i beni (dandoci così la vita), ma ci arricchisce per darci la morte; non ci spinge verso la libertà mettendoci in carcere, ma verso la schiavitù invitandoci e onorandoci nel palazzo; non ci colpisce il corpo, ma prende possesso del cuore; non ci taglia la testa con la spada, ma ci uccide l'anima con il denaro" (Ilario di Poitiers, Contro l'imperatore Costanzo 5).

Egregio sig. Cardinale, in nome di quel Dio che lei dice di rappresentare, ci dia un saggio di profezia, un sussurro di vangelo, un lampo estivo di coerenza di fede e di credibilità. Se non può farlo il 50% di pertinenza del presidente della Cei "per interessi superiori", lo faccia almeno il 50% di competenza del vescovo di una città dove tanta, tantissima gente si sta allontanando dalla vita della Chiesa a motivo della morale elastica dei vescovi italiani, basata sul principio di opportunismo che è la negazione della verità e del tessuto connettivo della convivenza civile.

Lei ha parlato di "emergenza educativa" che è anche il tema proposto per il prossimo decennio e si è lamentato dei "modelli negativi della tv". Suppongo che lei sappia che le tv non nascono sotto l'arco di Tito, ma hanno un proprietario che è capo del governo e nella duplice veste condiziona programmi, pubblicità, economia, modelli e stili di vita, etica e comportamenti dei giovani ai quali non sa offrire altro che la prospettiva del "velinismo" o in subordine di parlamentare alle dirette dipendenze del capo che elargisce posti al parlamento come premi di fedeltà a chi si dimostra più servizievole, specialmente se donne. Dicono le cronache che il sultano abbia gongolato di fronte alla sua reazione perché temeva peggio e, se lo dice lui che è un esperto, possiamo credergli. Ora con la benedizione del vostro solletico, può continuare nella sua lasciva intraprendenza e nella tratta delle minorenni da immolare sull'altare del tempio del suo narcisismo paranoico, a beneficio del paese di Berlusconistan, come la stampa inglese ha definito l'Italia.

Egregio sig. Cardinale, possiamo sperare ancora che i vescovi esercitino il servizio della loro autorità con autorevolezza, senza alchimie a copertura dei ricchi potenti e a danno della limpidezza delle verità come insegna Giovanni Battista che all'Erode di turno grida senza paura per la sua stessa vita: "Non licet"? Al Precursore la sua parola di condanna costò la vita, mentre a voi il vostro "tacere" porta fortuna.

In attesa di un suo riscontro porgo distinti saluti.

Genova 31 maggio 2009
Paolo Farinella, prete

(24 giugno 2009)