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mentono sapendo di mentine
lunedì 23 febbraio 2009
La leggenda della terra piatta di UMBERTO ECO
Una interpretazione che trova le sue radici nelle polemiche positivistiche ottocentesche, vuole che il Medioevo abbia rimosso tutte le scoperte scientifiche dell'antichità classica per non contraddire la lettera delle sacre scritture. È vero che alcuni autori patristici hanno cercato di dare una lettura assolutamente letterale della Scrittura là dove essa dice che il mondo è fatto come un tabernacolo. Per esempio nel IV secolo Lattanzio (nel suo Institutiones divinae), su queste basi si opponeva alle teorie pagane della rotondità della terra, anche perché non poteva accettare l'idea che esistessero degli Antipodi dove gli uomini avrebbero dovuto camminare con la testa all'ingiù.
E idee analoghe aveva sostenuto Cosma Indicopleuste, un geografo bizantino del VI secolo, che nella sua Topografia Cristiana, sempre pensando al tabernacolo biblico, aveva accuratamente descritto un cosmo di forma cubica, con un arco che sovrastava il pavimento piatto della Terra.
Ora, che la terra fosse sferica, tranne alcuni presocratici, lo sapevano già i greci, sin dai tempi di Pitagora, che la riteneva sferica per ragioni mistico-matematiche. Lo sapeva naturalmente Tolomeo, che aveva diviso il globo, ma lo avevano già capito Parmenide, Eudosso, Platone, Aristotele, Euclide, Archimede, e naturalmente Eratostene, che nel terzo secolo avanti Cristo aveva calcolato con una buona approssimazione la lunghezza del meridiano terrestre.
Tuttavia si è sostenuto (anche da parte di seri storici della scienza) che il Medioevo aveva dimenticato questa nozione antica, e l'idea si è fatta strada anche presso l'uomo comune, tanto è vero che ancora oggi, se domandiamo a una persona anche colta che cosa Cristoforo Colombo volesse dimostrare quando intendeva raggiungere il levante per il ponente, e che cosa i dotti di Salamanca si ostinassero a negare, la risposta, nella maggior parte dei casi, sarà che Colombo riteneva che la terra fosse rotonda, mentre i dotti di Salamanca ritenevano che la terra fosse piatta e che dopo un breve tratto le tre caravelle sarebbero precipitate dentro l'abisso cosmico.
In verità a Lattanzio nessuno aveva prestato troppa attenzione, a cominciare da Sant'Agostino il quale lascia capire per vari accenni di ritenere la terra sferica, anche se la questione non gli sembrava spiritualmente molto rilevante. Caso mai Agostino manifestava seri dubbi sulla possibilità che potessero vivere esseri umani ai presunti antipodi. Ma che si discutesse sugli antipodi è segno che si stava discutendo su un modello di terra sferica.
Quanto a Cosma, il suo libro era scritto in greco, una lingua che il medioevo cristiano aveva dimenticato, ed è stato tradotto in latino solo nel 1706. Nessun autore medievale lo conosceva.
Nel VII secolo dopo Cristo Isidoro di Siviglia (che pure non era un modello di acribìa scientifica) calcolava la lunghezza dell'equatore in ottantamila stadi. Chi parla di circolo equatoriale evidentemente assume che la terra sia sferica.
Anche uno studente di liceo può facilmente dedurre che, se Dante entra nell'imbuto infernale ed esce dall'altra parte vedendo stelle sconosciute ai piedi della montagna del Purgatorio, questo significa che egli sapeva benissimo che la terra era sferica, e che scriveva per lettori che lo sapevano. Ma della stessa opinione erano stati Origene e Ambrogio, Beda, Alberto Magno e Tommaso d'Aquino, Ruggero Bacone, Giovanni di Sacrobosco, tanto per citarne alcuni. La materia del contendere ai tempi di Colombo era che i dotti di Salamanca avevano fatto calcoli più precisi dei suoi, e ritenevano che la terra, tondissima, fosse più ampia di quanto il nostro genovese credesse, e che quindi fosse insensato cercare di circumnavigarla. Naturalmente né Colombo né i dotti di Salamanca sospettavano che tra l'Europa e l'Asia stesse un altro continente.
Tuttavia proprio nei manoscritti di Isidoro appariva la cosiddetta mappa a t, dove la parte superiore rappresenta l'Asia, in alto, perché in Asia stava secondo la leggenda il Paradiso terrestre, la barra orizzontale rappresenta da un lato il Mar Nero e dall'altro il Nilo, quella verticale il Mediterraneo, per cui il quarto di cerchio a sinistra rappresenta l'Europa e quello a destra l'Africa. Tutto intorno sta il gran cerchio dell'Oceano. Naturalmente le mappe a t sono bidimensionali, ma non è detto che una rappresentazione bidimensionale della terra implichi che la si ritenga piatta, altrimenti a una terra piatta crederebbero anche i nostri atlanti attuali. Si trattava di una forma convenzionale di proiezione cartografica, e si riteneva inutile rappresentare l'altra faccia del globo, ignota a tutti e probabilmente inabitata e inabitabile, così come noi oggi non rappresentiamo l'altra faccia della Luna, di cui non sappiano nulla.
Infine, il Medioevo era epoca di grandi viaggi ma, con le strade in disfacimento, foreste da attraversare e bracci di mare da superare fidandosi di qualche scafista dell'epoca, non c'era possibilità di tracciare mappe adeguate. Esse erano puramente indicative. Spesso quello che preoccupava maggiormente l'autore non era di spiegare come si arriva a Gerusalemme, bensì di rappresentare Gerusalemme al centro della terra.
Infine si cerchi di pensare alla mappa delle linee ferroviarie che propone un qualsiasi orario in vendita nelle edicole. Nessuno da quella serie di nodi, in se chiarissimi se si deve prendere un treno da Milano a Livorno (e apprendere che si dovrà passare per Genova), potrebbe estrapolare con esattezza la forma dell'Italia. La forma esatta dell'Italia non interessa a chi deve andare alla stazione (...).
Si veda ora questa immagine del Beato Angelico nel duomo di Orvieto. Il globo (di solito simbolo del potere sovrano) tenuto in mano da Gesù rappresenta una Mappa a T rovesciata. Se si segue lo sguardo di Gesù si vede che egli sta guardando il mondo e quindi il mondo è rappresentato come lo vede lui dall'alto e non come lo vediamo noi, e quindi capovolto. Se una mappa a T appare sulla faccia di un globo vuole dire che essa era intesa come rappresentazione bidimensionale di una sfera.
La Repubblica(23 febbraio 2009)
E idee analoghe aveva sostenuto Cosma Indicopleuste, un geografo bizantino del VI secolo, che nella sua Topografia Cristiana, sempre pensando al tabernacolo biblico, aveva accuratamente descritto un cosmo di forma cubica, con un arco che sovrastava il pavimento piatto della Terra.
Ora, che la terra fosse sferica, tranne alcuni presocratici, lo sapevano già i greci, sin dai tempi di Pitagora, che la riteneva sferica per ragioni mistico-matematiche. Lo sapeva naturalmente Tolomeo, che aveva diviso il globo, ma lo avevano già capito Parmenide, Eudosso, Platone, Aristotele, Euclide, Archimede, e naturalmente Eratostene, che nel terzo secolo avanti Cristo aveva calcolato con una buona approssimazione la lunghezza del meridiano terrestre.
Tuttavia si è sostenuto (anche da parte di seri storici della scienza) che il Medioevo aveva dimenticato questa nozione antica, e l'idea si è fatta strada anche presso l'uomo comune, tanto è vero che ancora oggi, se domandiamo a una persona anche colta che cosa Cristoforo Colombo volesse dimostrare quando intendeva raggiungere il levante per il ponente, e che cosa i dotti di Salamanca si ostinassero a negare, la risposta, nella maggior parte dei casi, sarà che Colombo riteneva che la terra fosse rotonda, mentre i dotti di Salamanca ritenevano che la terra fosse piatta e che dopo un breve tratto le tre caravelle sarebbero precipitate dentro l'abisso cosmico.
In verità a Lattanzio nessuno aveva prestato troppa attenzione, a cominciare da Sant'Agostino il quale lascia capire per vari accenni di ritenere la terra sferica, anche se la questione non gli sembrava spiritualmente molto rilevante. Caso mai Agostino manifestava seri dubbi sulla possibilità che potessero vivere esseri umani ai presunti antipodi. Ma che si discutesse sugli antipodi è segno che si stava discutendo su un modello di terra sferica.
Quanto a Cosma, il suo libro era scritto in greco, una lingua che il medioevo cristiano aveva dimenticato, ed è stato tradotto in latino solo nel 1706. Nessun autore medievale lo conosceva.
Nel VII secolo dopo Cristo Isidoro di Siviglia (che pure non era un modello di acribìa scientifica) calcolava la lunghezza dell'equatore in ottantamila stadi. Chi parla di circolo equatoriale evidentemente assume che la terra sia sferica.
Anche uno studente di liceo può facilmente dedurre che, se Dante entra nell'imbuto infernale ed esce dall'altra parte vedendo stelle sconosciute ai piedi della montagna del Purgatorio, questo significa che egli sapeva benissimo che la terra era sferica, e che scriveva per lettori che lo sapevano. Ma della stessa opinione erano stati Origene e Ambrogio, Beda, Alberto Magno e Tommaso d'Aquino, Ruggero Bacone, Giovanni di Sacrobosco, tanto per citarne alcuni. La materia del contendere ai tempi di Colombo era che i dotti di Salamanca avevano fatto calcoli più precisi dei suoi, e ritenevano che la terra, tondissima, fosse più ampia di quanto il nostro genovese credesse, e che quindi fosse insensato cercare di circumnavigarla. Naturalmente né Colombo né i dotti di Salamanca sospettavano che tra l'Europa e l'Asia stesse un altro continente.
Tuttavia proprio nei manoscritti di Isidoro appariva la cosiddetta mappa a t, dove la parte superiore rappresenta l'Asia, in alto, perché in Asia stava secondo la leggenda il Paradiso terrestre, la barra orizzontale rappresenta da un lato il Mar Nero e dall'altro il Nilo, quella verticale il Mediterraneo, per cui il quarto di cerchio a sinistra rappresenta l'Europa e quello a destra l'Africa. Tutto intorno sta il gran cerchio dell'Oceano. Naturalmente le mappe a t sono bidimensionali, ma non è detto che una rappresentazione bidimensionale della terra implichi che la si ritenga piatta, altrimenti a una terra piatta crederebbero anche i nostri atlanti attuali. Si trattava di una forma convenzionale di proiezione cartografica, e si riteneva inutile rappresentare l'altra faccia del globo, ignota a tutti e probabilmente inabitata e inabitabile, così come noi oggi non rappresentiamo l'altra faccia della Luna, di cui non sappiano nulla.
Infine, il Medioevo era epoca di grandi viaggi ma, con le strade in disfacimento, foreste da attraversare e bracci di mare da superare fidandosi di qualche scafista dell'epoca, non c'era possibilità di tracciare mappe adeguate. Esse erano puramente indicative. Spesso quello che preoccupava maggiormente l'autore non era di spiegare come si arriva a Gerusalemme, bensì di rappresentare Gerusalemme al centro della terra.
Infine si cerchi di pensare alla mappa delle linee ferroviarie che propone un qualsiasi orario in vendita nelle edicole. Nessuno da quella serie di nodi, in se chiarissimi se si deve prendere un treno da Milano a Livorno (e apprendere che si dovrà passare per Genova), potrebbe estrapolare con esattezza la forma dell'Italia. La forma esatta dell'Italia non interessa a chi deve andare alla stazione (...).
Si veda ora questa immagine del Beato Angelico nel duomo di Orvieto. Il globo (di solito simbolo del potere sovrano) tenuto in mano da Gesù rappresenta una Mappa a T rovesciata. Se si segue lo sguardo di Gesù si vede che egli sta guardando il mondo e quindi il mondo è rappresentato come lo vede lui dall'alto e non come lo vediamo noi, e quindi capovolto. Se una mappa a T appare sulla faccia di un globo vuole dire che essa era intesa come rappresentazione bidimensionale di una sfera.
La Repubblica(23 febbraio 2009)
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giovedì 19 febbraio 2009
Walter Bonatti, Le montagne di una vita
Walter Bonatti ripercorre le imprese che hanno costellato i quindici anni della sua grande stagione alpinistica fino alla sofferta decisione di chiudere con il “mondo della montagna” - ma non con l’avventura - e dedicarsi all’esplorazione.
A Bonatti non interressano le salite senza storia dove tutto fila liscio, o meglio sembrano non interessargli quelle salite, e perciò forse non le racconta, che non l’hanno impegnato allo spasimo: a quell’epoca l’alpinismo é tutta la sua vita e le prove, molte volte tragiche, che deve superare in montagna sono esperienze fondamentali per la sua crescita e maturazione e sono tutt’uno con la sua esistenza.
La sua forza trae origine dalle difficoltà che incontra nelle sue scalate, l’alpinismo da lui viene vissuto non solo come metafora della vita ma come “la vita”.
Un uomo dotato di un’incredibile dose di passione, volontà, forza, coraggio, temerarietà e, perché no, testardaggine questo é il Bonatti alpinista che emerge dalle pagine del libro: un distillato esplosivo condensato in un unica persona.
La figura dell’alpinista non si discosta, e non potrebbe essere altrimenti, dal Bonatti uomo che appare esigente con gli altri proprio perché fin troppo esigente con se stesso. Con queste premesse pochi possono stare al suo passo e meritare la sua stima.
Grandi alpinisti come Oggioni, Carlo Mauri, Cosimo Zappelli, alternandosi di volta in volta all’altro capo della sua corda, hanno condiviso alcune delle salite raccontate in questo libro; ma le imprese che sembrano risaltare più delle altre sono quelle che l’hanno visto affrontare da solo la montagna, in compagnia unicamente delle sue paure e dei suoi dubbi.
L’autore si é sempre sentito, in qualche maniera, in credito con molta parte dell’ambiente alpinistico dell’epoca; un ambiente che non gli ha risparmiato critiche, invidie, bassezze e che, a suo dire, ha raccontato vere e proprie menzogne per screditarlo, basti ricordare i “fatti” del K2 per i quali ha ricevuto soddisfazione solo dopo 40 anni.
All’epoca delle sue grandi imprese, anche per lo spazio diverso dato dai media all’alpinismo, Bonatti era un personaggio pubblico di cui molte volte si occupavano le prime pagine dei giornali e la televisione e che perciò era al centro, nel bene o nel male, dell’attenzione da parte dell’opinione pubblica.
Questa situazione non poteva essere ben sopportata da quell’uomo che ci appare dai suoi scritti tutt’altro che un personaggio da pubbliche relazione; un personaggio, insomma, che in certi momenti sembra non accettare nulla e nessuno se non il suo stare solo in montagna.
Ma il Bonatti forse più vero, quello che ci ha fatto da sempre sognare, é l’uomo che, nel 1984, si avventura in quella che lui chiama nel libro “Una rivisitazione”, nella quale descrive uno dei suoi ritorni in Monte Bianco: ci piace quell’uomo solo, che aspetta disteso su un masso - quasi come in un’isola nel ghiacciaio - che la neve si consolidi per riprendere la discesa e intanto, senza fretta, pensa e ricorda.
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mercoledì 18 febbraio 2009
Barbara Spinelli: Mi oppongo all’abuso delle parole
Testo di Barbara Spinelli di adesione alla manifestazione di sabato 21 febbraio, (Roma, piazza Farnese, ore 15) (www.micromega.net)
Aderisco alla manifestazione, perché non accetto la storpiatura delle parole e la svalutazione sistematica che s’accompagna alla celebrazione dei valori. Per questo mi oppongo a chi storpiando e svalutando si predispone a scrivere la legge sul testamento biologico.
Mi oppongo a chi storpia la parola libertà, pur avendola addirittura iscritta nel nome del proprio partito, e nega ai cittadini la libertà essenziale, che è quella di non esser espropriati del proprio corpo quando questa padronanza di sé non nuoce ad altri. La padronanza di sé non viene meno, quando la facoltà d’esprimerla e difenderla diminuisce o scompare: il testamento biologico la custodisce e ne evita l’alterazione, così come la custodisce senza alterarla la legge della Repubblica. Le gabbia in cui si trova il malato nelle strutture ospedaliere non deve significare perdita della libertà interiore. Per lui vale non solo quel che dice la Costituzione sulla vita e le cure: vale anche l’articolo 13, che punisce “ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà”.
Mi oppongo a chi storpia la parola vita, e sbandierandola come personale vessillo divide il mondo tra un partito della vita e un partito della morte. In realtà, i falsi difensori della vita trattano il malato terminale o in stato vegetativo permanente alla stregua d’un morto: gli tolgono la parola che sta dicendo o che ha detto in passato, gli tolgono la volontà, la libertà, financo il ricordo. Chi ha redatto testamenti biologici e giace in letti d'ospedale senza più potersi esprimere non è morto: è un corpo che racchiude la memoria viva di quel che l’individuo è stato. La sua volontà deve prevalere nelle ore finali, anche se affidata a a un documento che l’attesta quando il malato non ha più dominio di sé. Chi firma un testamento biologico deve esser sicuro che la sua persona sarà scrupolosamente rispettata dal medico o dalla struttura ospedaliera allo stesso identico modo in cui lo era quando possedeva tutte le sue facoltà, e poteva entrare e uscire dagli ospedali, accettare o rifiutare cure di sostegno, sottoporsi o non sottoporsi a trattamenti dolorosi o invasivi. Il malato senza più coscienza è prigioniero, ma vivo. La sua vita è tempo: tutto intero il tempo che ha avuto.
Mi oppongo a chi parla di natura o di Dio e vuol rinchiudere i malati terminali dietro le sbarre della tecnologia, della medicina e anche d’una legge. Chi agisce in tal modo usurpa il potere di Dio, della natura o del fato, e se ne appropria abusivamente. Il morire non è sinonimo di morte: é un pezzo del cammino della vita che non può esser alienato, pena l’alienazione dell’esistenza intera. Il morire – non la morte che non ci appartiene e che non viviamo – richiede la più alta dose di energia, dunque di vitalità. Il rifiuto di proseguire la vita, per chi liberamente s’oppone agli artifici di tale prolungamento, è scelta tra le più vitali e naturali.
Mi oppongo a chi parla di vita indisponibile nello stesso momento in cui s’appresta a disporre di quella altrui, in nome di verità forse non estranee al paziente-prigioniero, ma incompatibili con quello che il paziente sta vivendo. Sì, ogni vita è indisponibile: questo significa che essa non può esser delegata a entità astratte come la società, lo Stato o la chiesa, quale che sia la chiesa. È a disposizione di chi si prepara a morire.
Mi oppongo a chi parla di legalità e predispone una legge in cui alcune cure che prolungano la vita, in particolare l’alimentazione e l’idratazione artificiali, diventano non un’offerta di amore o carità, ma un obbligo per tutti, coscienti e non coscienti. Questo rende illegale un articolo irrinunciabile della Costituzione: possono esistere leggi che obbligano a determinati trattamenti sanitari – il vaccino è un esempio – ma, così dice l’articolo 32, “la legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. La vita è libertà di uscirne, a meno che tale libertà non sia lesiva della libertà, della salute, della vita altrui. Non è messa in causa, se è lesiva del credo altrui. La coscienza di questo, la libera morte, è patrimonio della cultura europea. Ha radici più antiche del cristianesimo. È figlia di Atene, di Roma e di Gerusalemme.
(17 febbraio 2009)
Aderisco alla manifestazione, perché non accetto la storpiatura delle parole e la svalutazione sistematica che s’accompagna alla celebrazione dei valori. Per questo mi oppongo a chi storpiando e svalutando si predispone a scrivere la legge sul testamento biologico.
Mi oppongo a chi storpia la parola libertà, pur avendola addirittura iscritta nel nome del proprio partito, e nega ai cittadini la libertà essenziale, che è quella di non esser espropriati del proprio corpo quando questa padronanza di sé non nuoce ad altri. La padronanza di sé non viene meno, quando la facoltà d’esprimerla e difenderla diminuisce o scompare: il testamento biologico la custodisce e ne evita l’alterazione, così come la custodisce senza alterarla la legge della Repubblica. Le gabbia in cui si trova il malato nelle strutture ospedaliere non deve significare perdita della libertà interiore. Per lui vale non solo quel che dice la Costituzione sulla vita e le cure: vale anche l’articolo 13, che punisce “ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà”.
Mi oppongo a chi storpia la parola vita, e sbandierandola come personale vessillo divide il mondo tra un partito della vita e un partito della morte. In realtà, i falsi difensori della vita trattano il malato terminale o in stato vegetativo permanente alla stregua d’un morto: gli tolgono la parola che sta dicendo o che ha detto in passato, gli tolgono la volontà, la libertà, financo il ricordo. Chi ha redatto testamenti biologici e giace in letti d'ospedale senza più potersi esprimere non è morto: è un corpo che racchiude la memoria viva di quel che l’individuo è stato. La sua volontà deve prevalere nelle ore finali, anche se affidata a a un documento che l’attesta quando il malato non ha più dominio di sé. Chi firma un testamento biologico deve esser sicuro che la sua persona sarà scrupolosamente rispettata dal medico o dalla struttura ospedaliera allo stesso identico modo in cui lo era quando possedeva tutte le sue facoltà, e poteva entrare e uscire dagli ospedali, accettare o rifiutare cure di sostegno, sottoporsi o non sottoporsi a trattamenti dolorosi o invasivi. Il malato senza più coscienza è prigioniero, ma vivo. La sua vita è tempo: tutto intero il tempo che ha avuto.
Mi oppongo a chi parla di natura o di Dio e vuol rinchiudere i malati terminali dietro le sbarre della tecnologia, della medicina e anche d’una legge. Chi agisce in tal modo usurpa il potere di Dio, della natura o del fato, e se ne appropria abusivamente. Il morire non è sinonimo di morte: é un pezzo del cammino della vita che non può esser alienato, pena l’alienazione dell’esistenza intera. Il morire – non la morte che non ci appartiene e che non viviamo – richiede la più alta dose di energia, dunque di vitalità. Il rifiuto di proseguire la vita, per chi liberamente s’oppone agli artifici di tale prolungamento, è scelta tra le più vitali e naturali.
Mi oppongo a chi parla di vita indisponibile nello stesso momento in cui s’appresta a disporre di quella altrui, in nome di verità forse non estranee al paziente-prigioniero, ma incompatibili con quello che il paziente sta vivendo. Sì, ogni vita è indisponibile: questo significa che essa non può esser delegata a entità astratte come la società, lo Stato o la chiesa, quale che sia la chiesa. È a disposizione di chi si prepara a morire.
Mi oppongo a chi parla di legalità e predispone una legge in cui alcune cure che prolungano la vita, in particolare l’alimentazione e l’idratazione artificiali, diventano non un’offerta di amore o carità, ma un obbligo per tutti, coscienti e non coscienti. Questo rende illegale un articolo irrinunciabile della Costituzione: possono esistere leggi che obbligano a determinati trattamenti sanitari – il vaccino è un esempio – ma, così dice l’articolo 32, “la legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. La vita è libertà di uscirne, a meno che tale libertà non sia lesiva della libertà, della salute, della vita altrui. Non è messa in causa, se è lesiva del credo altrui. La coscienza di questo, la libera morte, è patrimonio della cultura europea. Ha radici più antiche del cristianesimo. È figlia di Atene, di Roma e di Gerusalemme.
(17 febbraio 2009)
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giovedì 12 febbraio 2009
Madre Terra, giro del mondo in 101 foto del National Geographic
Le immagini della mostra (gratuita) fino al 29 marzo al Palazzo delle Esposizioni di Roma. Scatti mozzafiato firmati dai migliori fotografi e del mondo uniti dall'amore per il pianeta e votati a un'unica missione: la sua salvaguardia.
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lunedì 2 febbraio 2009
Un popolo arcaico fraterno e fedele
Repubblica — 01 febbraio 2009 pagina 30 sezione: CULTURA
Ho vissuto per venti mesi, i venti mesi della guerra partigiana, dall' 8 settembre del '43 al 25 aprile del '45, sulle montagne dei vinti, fra i montanari del Cuneese, un altro popolo, povero, arcaico, ma fraterno e fedele. Parlavamo tra noi la stessa lingua: l' occitano, la lingua d' oc, il provenzale dalle Alpi ai Pirenei, ma allora chi lo sapeva? Chi nel nostro gruppo salito da Cuneo alla borgata Damiani in Valle Grana sapeva di stare in uno dei centri della cultura occitana, il Comboscuro? Chi di noi diceva bo per dire sì? Nei primi giorni non ci fu tempo per conoscere il popolo dei vinti, la guerra di casa in cui venivamo trascinati fra terrore e stupore non concedeva distrazioni.
Strana guerra tra l' imprevedibile ferocia, gli incendi, le stragi e il paesaggio familiare, i luoghi e le conoscenze di sempre. Eravamo scesi allo sbocco delle valli nella pianura e da lì guardavamo il fumo degli incendi, a Boves riconoscevamo le case di campagna dei nostri amici, a volte i tedeschi sparavano cannonate anche nella nostra direzione, perché il terrore arrivasse dovunque, ti passava sopra, nel cielo azzurro e freddo del mattino come un treno merci, un rombo metallico che ti schiacciava. E subito tornavano la pace e il silenzio, il disegno dei campi, dei boschi, dei villaggi, intatto. In quel gelido rovente autunno il popolo dei vinti sulle montagne del Cuneese si era ricomposto, molti degli emigrati a coltivare fiori nelle serre del Nizzardo o della Provenza erano tornati nelle valli credendo di trovare riparo dalla guerra. E si trovavano in mezzo alla guerra più spietata, alla guerra partigiana. Per molti una sorpresa, un' allucinazione, una confusione in cui cercavano di sopravvivere: con chi stare? con i partigiani o con i tedeschi? Con chi parlava la loro lingua, con i partigiani. Un riconoscimento elementare di appartenenza, non politico ma decisivo, checché ne dicano oggi gli storici della "zona grigia", secondo cui gli italiani qualsiasi, anche i montanari, stavano a guardare, aspettavano di capire chi avrebbe vinto. A guardare? Ma dove erano questi storici? Non lo sanno che quando in un paese arrivavano le Brigate Nere o le Ss la gente chiudeva le porte e le finestre, faceva il deserto attorno al nemico? Fra i vinti ritornati nelle loro montagne c' erano i coraggiosi e i vili, i saggi e i mattocchi, le rocce fedeli e i povericristi. A uno degli storici della zona grigia ho scritto: «Caro professore, forse una memoria complessiva e condivisa di quei giorni è impossibile, forse ognuno di noi resta fermo alle sue personali esperienze. Ma voglio raccontargliene una, e poi mi dica se non è decisiva, chiara, convincente. A Capodanno del '45 con due brigate di Giustizia e Libertà partiamo dalla Valgrana per raggiungere con una marcia di oltre cento chilometri, armi e bagagli in spalla, le colline del vino e del pane bianco, le Langhe. Si camminava per i campi di neve ghiacciata, ci fermavamo per tirare il fiato nelle cascine, per scambiare due parole con i contadini. "Buon anno parin". "Sì - diceva il parin, il padre della famiglia - speriamo che sia l' ultimo". L' ultimo in cui sulla porta di casa bisognava appendere l' avviso del comando tedesco: "Chiunque ospiterà i partigiani sarà condannato a morte e la sua casa bruciata". Ebbene professore, in quei due giorni che durò la nostra marcia non mi venne mai il terribile sospetto che qualcuno dei contadini ci potesse tradire, nemmeno quando ci fermammo a dormire in una cascina dei Murazzi e si sentivano passare sulla provinciale i camion dei tedeschi». Fra i montanari vinti c' erano i forti come i deboli e i mattocchi. Uno forte come una roccia era Marella, il taglialegna della Valgrana a cui i tedeschi nel rastrellamento del dicembre '43 bruciarono la casa e la segheria. Andammo a trovarlo l' indomani che le macerie fumavano ancora e veniva giù dalle travi e sui muri l' acqua sciolta dal fuoco che ti sembrava che tutto stesse andandosene in quell' acqua sporca, e lui ci offriva il vino di una bottiglia rimasta intatta e diceva: «Un errore i tedeschi lo fanno sempre. Mi hanno bruciato la casa e la segheria. Non ho più niente da perdere. Posso solo combatterli». Ma i più forti di tutti erano i mattocchi e gli ubriaconi. I mattocchi in quella guerra sconosciuta avevano occhi febbrili e deliravano. Uno dei due fratelli tornati in una grangia sperduta nei boschi di Monterosso in Valgrana, vedendoci passare assieme ai soldati inglesi fuggiti da un campo di prigionia, ci correva dietro gridando al fratello: «Arrivano i rinforzi ai Damiani. Sun sbarcà gli inglès». Si chiamava Pinot ed era uomo di fantasia, ci indicava il luogo in cui avremmo messo l' aeroporto per arrivare in giornata da Nizza al fresco. E c' erano gli ubriaconi canterini e invulnerabili, avevano deciso il giorno in cui sarebbero partiti per la loro grande ciucca annuale, e quel giorno partivano, cascasse il mondo o cominciasse un rastrellamento. Il marito della Puni, l' ostessa della Margherita, se ne andò giù per il vallone di Combamala proprio il mattino che lo risalivano gli Alpenjaeger nazisti, che lo lasciarono passare. Eppure lo videro certamente, perché cantava a voce rauca che anche noi lo sentivamo dalla Margherita. Rimase via per venti giorni e tornò fresco e allegro come era partito, e la Puni fece finta che fosse il giorno stesso. C' erano anche i dispersi fra i vinti, dimenticati in qualche baita diroccata della montagna. La notte del 6 dicembre del '43, in fuga dai tugnin, insomma dai crucchi di Germania, salii al valico del monte Bram sotto una nevicata fitta, scesi per il vallone dell' Arma fin che vidi una lucina e bussai alla porta della grangia. Dentro c' era uno dei montanari vinti che stava consumando la sua cena, una broda giallastra in cui nuotava uno spaghetto bianco. Mi chiese «se volevo favorire». Lo ringraziai ma preferii andare nella stalla a dormire insieme a due mucche macilente. Nel buio sentivo i flop delle loro cacche che scivolavano a terra rasentando i miei scarponi. - GIORGIO BOCCA
Ho vissuto per venti mesi, i venti mesi della guerra partigiana, dall' 8 settembre del '43 al 25 aprile del '45, sulle montagne dei vinti, fra i montanari del Cuneese, un altro popolo, povero, arcaico, ma fraterno e fedele. Parlavamo tra noi la stessa lingua: l' occitano, la lingua d' oc, il provenzale dalle Alpi ai Pirenei, ma allora chi lo sapeva? Chi nel nostro gruppo salito da Cuneo alla borgata Damiani in Valle Grana sapeva di stare in uno dei centri della cultura occitana, il Comboscuro? Chi di noi diceva bo per dire sì? Nei primi giorni non ci fu tempo per conoscere il popolo dei vinti, la guerra di casa in cui venivamo trascinati fra terrore e stupore non concedeva distrazioni.
Strana guerra tra l' imprevedibile ferocia, gli incendi, le stragi e il paesaggio familiare, i luoghi e le conoscenze di sempre. Eravamo scesi allo sbocco delle valli nella pianura e da lì guardavamo il fumo degli incendi, a Boves riconoscevamo le case di campagna dei nostri amici, a volte i tedeschi sparavano cannonate anche nella nostra direzione, perché il terrore arrivasse dovunque, ti passava sopra, nel cielo azzurro e freddo del mattino come un treno merci, un rombo metallico che ti schiacciava. E subito tornavano la pace e il silenzio, il disegno dei campi, dei boschi, dei villaggi, intatto. In quel gelido rovente autunno il popolo dei vinti sulle montagne del Cuneese si era ricomposto, molti degli emigrati a coltivare fiori nelle serre del Nizzardo o della Provenza erano tornati nelle valli credendo di trovare riparo dalla guerra. E si trovavano in mezzo alla guerra più spietata, alla guerra partigiana. Per molti una sorpresa, un' allucinazione, una confusione in cui cercavano di sopravvivere: con chi stare? con i partigiani o con i tedeschi? Con chi parlava la loro lingua, con i partigiani. Un riconoscimento elementare di appartenenza, non politico ma decisivo, checché ne dicano oggi gli storici della "zona grigia", secondo cui gli italiani qualsiasi, anche i montanari, stavano a guardare, aspettavano di capire chi avrebbe vinto. A guardare? Ma dove erano questi storici? Non lo sanno che quando in un paese arrivavano le Brigate Nere o le Ss la gente chiudeva le porte e le finestre, faceva il deserto attorno al nemico? Fra i vinti ritornati nelle loro montagne c' erano i coraggiosi e i vili, i saggi e i mattocchi, le rocce fedeli e i povericristi. A uno degli storici della zona grigia ho scritto: «Caro professore, forse una memoria complessiva e condivisa di quei giorni è impossibile, forse ognuno di noi resta fermo alle sue personali esperienze. Ma voglio raccontargliene una, e poi mi dica se non è decisiva, chiara, convincente. A Capodanno del '45 con due brigate di Giustizia e Libertà partiamo dalla Valgrana per raggiungere con una marcia di oltre cento chilometri, armi e bagagli in spalla, le colline del vino e del pane bianco, le Langhe. Si camminava per i campi di neve ghiacciata, ci fermavamo per tirare il fiato nelle cascine, per scambiare due parole con i contadini. "Buon anno parin". "Sì - diceva il parin, il padre della famiglia - speriamo che sia l' ultimo". L' ultimo in cui sulla porta di casa bisognava appendere l' avviso del comando tedesco: "Chiunque ospiterà i partigiani sarà condannato a morte e la sua casa bruciata". Ebbene professore, in quei due giorni che durò la nostra marcia non mi venne mai il terribile sospetto che qualcuno dei contadini ci potesse tradire, nemmeno quando ci fermammo a dormire in una cascina dei Murazzi e si sentivano passare sulla provinciale i camion dei tedeschi». Fra i montanari vinti c' erano i forti come i deboli e i mattocchi. Uno forte come una roccia era Marella, il taglialegna della Valgrana a cui i tedeschi nel rastrellamento del dicembre '43 bruciarono la casa e la segheria. Andammo a trovarlo l' indomani che le macerie fumavano ancora e veniva giù dalle travi e sui muri l' acqua sciolta dal fuoco che ti sembrava che tutto stesse andandosene in quell' acqua sporca, e lui ci offriva il vino di una bottiglia rimasta intatta e diceva: «Un errore i tedeschi lo fanno sempre. Mi hanno bruciato la casa e la segheria. Non ho più niente da perdere. Posso solo combatterli». Ma i più forti di tutti erano i mattocchi e gli ubriaconi. I mattocchi in quella guerra sconosciuta avevano occhi febbrili e deliravano. Uno dei due fratelli tornati in una grangia sperduta nei boschi di Monterosso in Valgrana, vedendoci passare assieme ai soldati inglesi fuggiti da un campo di prigionia, ci correva dietro gridando al fratello: «Arrivano i rinforzi ai Damiani. Sun sbarcà gli inglès». Si chiamava Pinot ed era uomo di fantasia, ci indicava il luogo in cui avremmo messo l' aeroporto per arrivare in giornata da Nizza al fresco. E c' erano gli ubriaconi canterini e invulnerabili, avevano deciso il giorno in cui sarebbero partiti per la loro grande ciucca annuale, e quel giorno partivano, cascasse il mondo o cominciasse un rastrellamento. Il marito della Puni, l' ostessa della Margherita, se ne andò giù per il vallone di Combamala proprio il mattino che lo risalivano gli Alpenjaeger nazisti, che lo lasciarono passare. Eppure lo videro certamente, perché cantava a voce rauca che anche noi lo sentivamo dalla Margherita. Rimase via per venti giorni e tornò fresco e allegro come era partito, e la Puni fece finta che fosse il giorno stesso. C' erano anche i dispersi fra i vinti, dimenticati in qualche baita diroccata della montagna. La notte del 6 dicembre del '43, in fuga dai tugnin, insomma dai crucchi di Germania, salii al valico del monte Bram sotto una nevicata fitta, scesi per il vallone dell' Arma fin che vidi una lucina e bussai alla porta della grangia. Dentro c' era uno dei montanari vinti che stava consumando la sua cena, una broda giallastra in cui nuotava uno spaghetto bianco. Mi chiese «se volevo favorire». Lo ringraziai ma preferii andare nella stalla a dormire insieme a due mucche macilente. Nel buio sentivo i flop delle loro cacche che scivolavano a terra rasentando i miei scarponi. - GIORGIO BOCCA
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Sempre bastonati da quelli che contano
Repubblica — 01 febbraio 2009 pagina 30 sezione: CULTURA
«vinti perché bastonati da sempre, vinti perché dimenticati dalla società che conta, dalla società egemone. Vinti i miei dalla Russia: noi siamo tornati vinti da quella guerra d' aggressione, da quell' avventura finita male. Vinti anche i montanari delle mie valli che han dovuto arrendersi di fronte alle grandi trasformazioni degli anni Sessanta, all' industrializzazione. Tutto il mondo della campagna povera è entrato in crisi, la piccola proprietà contadina ha dovuto arrendersi. Vinti in questo senso. Io mi sento vicino ai vinti perché non mi piacciono i vincitori, non mi piace la gente del potere e quindi ho solidarizzato nei confronti di questo mondo perché è stato emarginato e che è lì per spegnersi. Non sono vinti, sono sconfitti da chi è stato più forte, da chi ha guidato le scelte economiche, da chi li ha emarginati. Io intanto non disprezzo mai chi è vinto, anzi sono portato a solidarizzare con il vinto. Il vincitore molte volte, non poche volte, è odioso. Il vincitore che ha stravinto non è simpatico, comunque non mi è congegnale. I servi corrono a servire il vincitore. Io non servo al vincitore, certamente. E non voglio nemmeno atteggiarmi a un vinto, non mi considero un vinto, ho avuto una vita privilegiata. Sono tornato vinto dalla guerra di Russia e so cosa vuol dire essere vinto: trasformati, con un vuoto nell' animo immenso. Li conosco questi stati d' animo perché li ho vissuti e li ho anche descritti. Il mondo della campagna povera, di cui mi sono interessato, è un mondo di sconfitti. Sconfitti forse provvisoriamente, anche se la vita corre in fretta. Io mi auguro che i figli degli sconfitti abbiano la possibilità di tornare dove è possibile tornare, dove l' economia regge, dove si può vivere in maniera civile. Io non augurerei mai a un giovane di oggi di ripetere la vita di miseria delle generazioni precedenti della montagna: quello no, no assolutamente. Ma che la montagna non diventi soltanto un monopolio di un turismo sbagliato, scombinato, da cattedrali nel deserto, da centri turistici paracadutati in un contesto di un deserto. Questa visione mi disturba e mi auguro che questo non succeda. Mi auguro che torni la vita». (Da un' intervista della metà degli anni Ottanta, rilasciata a Marino Sinibaldi per il programma "Antologia" di Radio Tre) - NUTO REVELLI
«vinti perché bastonati da sempre, vinti perché dimenticati dalla società che conta, dalla società egemone. Vinti i miei dalla Russia: noi siamo tornati vinti da quella guerra d' aggressione, da quell' avventura finita male. Vinti anche i montanari delle mie valli che han dovuto arrendersi di fronte alle grandi trasformazioni degli anni Sessanta, all' industrializzazione. Tutto il mondo della campagna povera è entrato in crisi, la piccola proprietà contadina ha dovuto arrendersi. Vinti in questo senso. Io mi sento vicino ai vinti perché non mi piacciono i vincitori, non mi piace la gente del potere e quindi ho solidarizzato nei confronti di questo mondo perché è stato emarginato e che è lì per spegnersi. Non sono vinti, sono sconfitti da chi è stato più forte, da chi ha guidato le scelte economiche, da chi li ha emarginati. Io intanto non disprezzo mai chi è vinto, anzi sono portato a solidarizzare con il vinto. Il vincitore molte volte, non poche volte, è odioso. Il vincitore che ha stravinto non è simpatico, comunque non mi è congegnale. I servi corrono a servire il vincitore. Io non servo al vincitore, certamente. E non voglio nemmeno atteggiarmi a un vinto, non mi considero un vinto, ho avuto una vita privilegiata. Sono tornato vinto dalla guerra di Russia e so cosa vuol dire essere vinto: trasformati, con un vuoto nell' animo immenso. Li conosco questi stati d' animo perché li ho vissuti e li ho anche descritti. Il mondo della campagna povera, di cui mi sono interessato, è un mondo di sconfitti. Sconfitti forse provvisoriamente, anche se la vita corre in fretta. Io mi auguro che i figli degli sconfitti abbiano la possibilità di tornare dove è possibile tornare, dove l' economia regge, dove si può vivere in maniera civile. Io non augurerei mai a un giovane di oggi di ripetere la vita di miseria delle generazioni precedenti della montagna: quello no, no assolutamente. Ma che la montagna non diventi soltanto un monopolio di un turismo sbagliato, scombinato, da cattedrali nel deserto, da centri turistici paracadutati in un contesto di un deserto. Questa visione mi disturba e mi auguro che questo non succeda. Mi auguro che torni la vita». (Da un' intervista della metà degli anni Ottanta, rilasciata a Marino Sinibaldi per il programma "Antologia" di Radio Tre) - NUTO REVELLI
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Il riscatto del Mondo dei Vinti
, Repubblica — 01 febbraio 2009 pagina 30 sezione: CULTURA
A lla fine degli anni Settanta del secolo scorso la campagna povera del Cuneese, come del resto quella di altre zone simili d' Italia, sopravviveva come sacca di miseria e di depressione abbandonata a se stessa. Il terremoto dell' industrializzazione l' aveva spopolata, rimanevano soprattutto i vecchi ad aspettare la morte e l' avanzare della natura, l' intrico dei rovi e delle sterpaglie, tra le cascine e le baite in sfacelo. Fu nel medesimo periodo che Nuto Revelli, classe 1919, ufficiale degli alpini nella tragedia della Russia, comandante partigiano e poi scrittore di grande sensibilità e di forte impegno civile, pubblicò da Einaudi i due volumi de Il mondo dei vinti, dove per la prima volta veniva data voce a quei montanari, ai contadini, ai senza storia, agli uomini mandati al macello in due guerre mondiali.
Proprio nelle steppe e nella neve russe aveva cominciato a conoscerli con la divisa grigioverde e le scarpe di cartone. Dopo avere scritto L' ultimo fronte, decise pertanto di raccontare le loro storie. E per anni, munito di registratore, spesso accompagnato dalla fotografa Paola Agosti, batté a tappeto borgate montane, vallate remote, colline di "malora", la maledizione contadina narrata da Beppe Fenoglio. Revelli morì il 5 febbraio del 2004, lasciandosi alle spalle un' esistenza spesa a combattere «l' Italia delle amnesie, dei vuoti di memoria, delle rimozioni». Se ne andò confidando che nelle terre dei suoi dimenticati, dei suoi sconfitti, un giorno potesse ritornare la vita. Oltre tre decenni dopo l' uscita del libro, che risale al 1977, Andrea Fenoglio e Diego Mometti, due giovani ricercatori e documentaristi, ne hanno ripercorso i luoghi e hanno raccolto e filmato (per una serie di dvd) le testimonianze degli abitanti di oggi, con lo scopo di fotografare i cambiamenti e gli sviluppi. Gli esiti della loro indagine che si chiama "Progetto Aristeo", in omaggio a una divinità greca dell' agricoltura, ed è stata voluta dalla Fondazione Revelli di Cuneo con il sostegno dell' assessorato alla Montagna della Regione Piemonte, vanno nella direzione auspicata da Nuto. Il «mondo dei vinti» non è più esclusivamente un deserto. La campagna degli umiliati e offesi di ieri diventa ora un' occasione di alternativa alla crisi dell' industria. E la natura non si coglie più alla stregua di un nemico, come accadeva una volta. Lo rivela una buona parte delle 125 interviste effettuate sui monti cuneesi, in collina, in pianura. Cinque dei testimoni interpellati erano già stati ascoltati per Il mondo dei vinti e per L' anello forte (il libro sulle donne contadine), sessanta sono discendenti degli uomini e delle donne fatti parlare da Nuto, altri sessanta sono comunque legati a quei territori. Per Marco Revelli, il figlio di Nuto, docente universitario di scienza della politica, saggista e presidente della Fondazione Revelli, «le nuove interviste, questa ricognizione nell' universo che mio padre aveva descritto nel momento dello spegnimento e dell' abbandono, dimostrano che i "vinti", in un certo senso, hanno iniziato a vincere qualcosa. Loro non ci sono più, ma molti dei discendenti continuano a essere un mondo, pur essendo diversi dai nonni o dai genitori. Rappresentano un mondo completamente nuovo, non omologato alla cultura urbana, consapevole dei problemi odierni, in cui prosegue il legame con la terra e si affaccia il desiderio di socialità, avvolti dalla natura, standoci dentro in modo umano: quella stessa natura che aveva sconfitto i testimoni di mio padre». Adesso un "vecchio" come Magno Martini, di Castelmagno, contadino-operaio che Nuto aveva intervistato nel luglio del 1970, può dire: «Secondo me un uomo dovrebbe avere la possibilità di rivivere tra mille anni, che venga a vedere com' è questo pianeta qui. Così potrebbe risolvere qualcosa, se no siamo sempre asini uguale. Siamo ignoranti, di fronte alla natura siamo ignoranti». E un quarantenne quale Lele Odiardo, educatore di Venasca-Frassino che non rinuncia a coltivare la campagna, afferma: «Il grosso significato che la montagna ha in prospettiva è il superare questo sistema economico, che non può durare. è il recuperare nel quotidiano, non nel museo, tutta una serie di valori e di pratiche che possono essere il mutuo appoggio, farsi l' orto, o tessere una rete di relazioni più ampia. Nella società che si sta prospettando non sarà importante guadagnare di più, ma aiutarsi tra le persone, prodursi delle cose. E questo appartiene alla cultura della montagna, non alla cultura metropolitana». Una tradizione rivendicata da Erich Giordano, venticinquenne, nipote di Pietro Bagnis e Caterina Arnaudo, due dei «vinti» di Nuto che, nell' ottobre del 1971, a una sua domanda rispondevano: «Come vivevamo nel 1900? Di miserie». Un secolo dopo Giordano spiega: «I miei genitori sono entrambi di origine contadina e hanno studiato, però hanno sempre continuato ad andare in montagna a "fare" la campagna: il fieno, la legna, portare via il letame e tutto quello che si deve fare. Hanno sempre vissuto veramente la campagna, e d' altra parte sono entrambi insegnanti. Le cose non sono in conflitto. Si può benissimo essere degli insegnanti e curare fisicamente il proprio territorio. Ecco, questa è tradizione». Mentre Luciana Berardi, maestra elementare di Prazzo, avverte che la distanza tra i palazzi del potere e le vere necessità della montagna non è stata troppo ridotta rispetto al passato: «Non siamo ancora arrivati a vedere la montagna come una risorsa. Una volta non se ne parlava. Le persone più anziane dicono: "Si ricordano di noi quando è il momento di votare, per prendere quei quattro voti, o quando c' è bisogno di fare delle speculazioni edilizie". Bisogna capire che la cura della montagna è fondamentale per la salute della bassa valle e della pianura. Ma non basta dare il finanziamento. Noi vediamo dare spesso in montagna finanziamenti che non sono consoni al territorio e alla popolazione che lo abita». Tre «apocalissi», ricorda Marco Revelli, cancellarono la campagna povera: le due grandi guerre mondiali, l' industrializzazione degli anni Sessanta. Prosegue: «Mio padre registrò quella scomparsa. Non c' era nostalgia per la vita ai limiti della sopravvivenza, ma indignazione per come finiva la civiltà contadina. Oggi c' è un' antropologia differente. Tutti, bene o male, sono scolarizzati, tutti sono informati. In trent' anni sono passati secoli. E nei discendenti dei "vinti" il rapporto con la terra, con la natura, diviene quasi un senso di orgoglio e una ragione di riscatto. Anche perché i miti degli anni Sessanta, come la fabbrica, si sono infranti. C' è crisi, ci sono disoccupazione e prepensionamenti, si invecchia soli e tristi in una casa di periferia. In montagna, in collina, invece, si può immaginare forse un' esistenza maggiormente decorosa». Sono i valori in cui crede Amos Olivero, nato nel 1981, ingegnere informatico, figlio di Maria Grazia Molinero, una delle testimoni de L' anello forte: «In montagna hai la possibilità di perdere tanti bisogni. Il desiderio di apparire, che c' è tanto nella cultura moderna, andrebbe a perdersi. Il problema della vita moderna è che ci sta spingendo verso valori consumistici che ci rendono simili a dei cani mossi da un bastoncino. La possibilità di scegliere cosa vuoi, e quando vuoi, è decisamente una ricchezza. Sembra quasi di ritornare alle cose di cui tu hai bisogno, invece di impuntarti sulle cose che gli altri ti dicono di avere. è questo il valore». - MASSIMO NOVELLI
A lla fine degli anni Settanta del secolo scorso la campagna povera del Cuneese, come del resto quella di altre zone simili d' Italia, sopravviveva come sacca di miseria e di depressione abbandonata a se stessa. Il terremoto dell' industrializzazione l' aveva spopolata, rimanevano soprattutto i vecchi ad aspettare la morte e l' avanzare della natura, l' intrico dei rovi e delle sterpaglie, tra le cascine e le baite in sfacelo. Fu nel medesimo periodo che Nuto Revelli, classe 1919, ufficiale degli alpini nella tragedia della Russia, comandante partigiano e poi scrittore di grande sensibilità e di forte impegno civile, pubblicò da Einaudi i due volumi de Il mondo dei vinti, dove per la prima volta veniva data voce a quei montanari, ai contadini, ai senza storia, agli uomini mandati al macello in due guerre mondiali.
Proprio nelle steppe e nella neve russe aveva cominciato a conoscerli con la divisa grigioverde e le scarpe di cartone. Dopo avere scritto L' ultimo fronte, decise pertanto di raccontare le loro storie. E per anni, munito di registratore, spesso accompagnato dalla fotografa Paola Agosti, batté a tappeto borgate montane, vallate remote, colline di "malora", la maledizione contadina narrata da Beppe Fenoglio. Revelli morì il 5 febbraio del 2004, lasciandosi alle spalle un' esistenza spesa a combattere «l' Italia delle amnesie, dei vuoti di memoria, delle rimozioni». Se ne andò confidando che nelle terre dei suoi dimenticati, dei suoi sconfitti, un giorno potesse ritornare la vita. Oltre tre decenni dopo l' uscita del libro, che risale al 1977, Andrea Fenoglio e Diego Mometti, due giovani ricercatori e documentaristi, ne hanno ripercorso i luoghi e hanno raccolto e filmato (per una serie di dvd) le testimonianze degli abitanti di oggi, con lo scopo di fotografare i cambiamenti e gli sviluppi. Gli esiti della loro indagine che si chiama "Progetto Aristeo", in omaggio a una divinità greca dell' agricoltura, ed è stata voluta dalla Fondazione Revelli di Cuneo con il sostegno dell' assessorato alla Montagna della Regione Piemonte, vanno nella direzione auspicata da Nuto. Il «mondo dei vinti» non è più esclusivamente un deserto. La campagna degli umiliati e offesi di ieri diventa ora un' occasione di alternativa alla crisi dell' industria. E la natura non si coglie più alla stregua di un nemico, come accadeva una volta. Lo rivela una buona parte delle 125 interviste effettuate sui monti cuneesi, in collina, in pianura. Cinque dei testimoni interpellati erano già stati ascoltati per Il mondo dei vinti e per L' anello forte (il libro sulle donne contadine), sessanta sono discendenti degli uomini e delle donne fatti parlare da Nuto, altri sessanta sono comunque legati a quei territori. Per Marco Revelli, il figlio di Nuto, docente universitario di scienza della politica, saggista e presidente della Fondazione Revelli, «le nuove interviste, questa ricognizione nell' universo che mio padre aveva descritto nel momento dello spegnimento e dell' abbandono, dimostrano che i "vinti", in un certo senso, hanno iniziato a vincere qualcosa. Loro non ci sono più, ma molti dei discendenti continuano a essere un mondo, pur essendo diversi dai nonni o dai genitori. Rappresentano un mondo completamente nuovo, non omologato alla cultura urbana, consapevole dei problemi odierni, in cui prosegue il legame con la terra e si affaccia il desiderio di socialità, avvolti dalla natura, standoci dentro in modo umano: quella stessa natura che aveva sconfitto i testimoni di mio padre». Adesso un "vecchio" come Magno Martini, di Castelmagno, contadino-operaio che Nuto aveva intervistato nel luglio del 1970, può dire: «Secondo me un uomo dovrebbe avere la possibilità di rivivere tra mille anni, che venga a vedere com' è questo pianeta qui. Così potrebbe risolvere qualcosa, se no siamo sempre asini uguale. Siamo ignoranti, di fronte alla natura siamo ignoranti». E un quarantenne quale Lele Odiardo, educatore di Venasca-Frassino che non rinuncia a coltivare la campagna, afferma: «Il grosso significato che la montagna ha in prospettiva è il superare questo sistema economico, che non può durare. è il recuperare nel quotidiano, non nel museo, tutta una serie di valori e di pratiche che possono essere il mutuo appoggio, farsi l' orto, o tessere una rete di relazioni più ampia. Nella società che si sta prospettando non sarà importante guadagnare di più, ma aiutarsi tra le persone, prodursi delle cose. E questo appartiene alla cultura della montagna, non alla cultura metropolitana». Una tradizione rivendicata da Erich Giordano, venticinquenne, nipote di Pietro Bagnis e Caterina Arnaudo, due dei «vinti» di Nuto che, nell' ottobre del 1971, a una sua domanda rispondevano: «Come vivevamo nel 1900? Di miserie». Un secolo dopo Giordano spiega: «I miei genitori sono entrambi di origine contadina e hanno studiato, però hanno sempre continuato ad andare in montagna a "fare" la campagna: il fieno, la legna, portare via il letame e tutto quello che si deve fare. Hanno sempre vissuto veramente la campagna, e d' altra parte sono entrambi insegnanti. Le cose non sono in conflitto. Si può benissimo essere degli insegnanti e curare fisicamente il proprio territorio. Ecco, questa è tradizione». Mentre Luciana Berardi, maestra elementare di Prazzo, avverte che la distanza tra i palazzi del potere e le vere necessità della montagna non è stata troppo ridotta rispetto al passato: «Non siamo ancora arrivati a vedere la montagna come una risorsa. Una volta non se ne parlava. Le persone più anziane dicono: "Si ricordano di noi quando è il momento di votare, per prendere quei quattro voti, o quando c' è bisogno di fare delle speculazioni edilizie". Bisogna capire che la cura della montagna è fondamentale per la salute della bassa valle e della pianura. Ma non basta dare il finanziamento. Noi vediamo dare spesso in montagna finanziamenti che non sono consoni al territorio e alla popolazione che lo abita». Tre «apocalissi», ricorda Marco Revelli, cancellarono la campagna povera: le due grandi guerre mondiali, l' industrializzazione degli anni Sessanta. Prosegue: «Mio padre registrò quella scomparsa. Non c' era nostalgia per la vita ai limiti della sopravvivenza, ma indignazione per come finiva la civiltà contadina. Oggi c' è un' antropologia differente. Tutti, bene o male, sono scolarizzati, tutti sono informati. In trent' anni sono passati secoli. E nei discendenti dei "vinti" il rapporto con la terra, con la natura, diviene quasi un senso di orgoglio e una ragione di riscatto. Anche perché i miti degli anni Sessanta, come la fabbrica, si sono infranti. C' è crisi, ci sono disoccupazione e prepensionamenti, si invecchia soli e tristi in una casa di periferia. In montagna, in collina, invece, si può immaginare forse un' esistenza maggiormente decorosa». Sono i valori in cui crede Amos Olivero, nato nel 1981, ingegnere informatico, figlio di Maria Grazia Molinero, una delle testimoni de L' anello forte: «In montagna hai la possibilità di perdere tanti bisogni. Il desiderio di apparire, che c' è tanto nella cultura moderna, andrebbe a perdersi. Il problema della vita moderna è che ci sta spingendo verso valori consumistici che ci rendono simili a dei cani mossi da un bastoncino. La possibilità di scegliere cosa vuoi, e quando vuoi, è decisamente una ricchezza. Sembra quasi di ritornare alle cose di cui tu hai bisogno, invece di impuntarti sulle cose che gli altri ti dicono di avere. è questo il valore». - MASSIMO NOVELLI
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