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mentono sapendo di mentine

venerdì 25 settembre 2009

"La democrazia non può essere esportata"Obama cancella gli otto anni dell'era Bush



THE WHITE HOUSE
Office of the Press Secretary
23 Settembre 2009
Signor presidente, signor segretario generale, illustri delegati, signori e signore: è un onore rivolgermi a voi per la prima volta nella qualità di quarantaquattresimo presidente degli Stati Uniti d’America. Mi presento di fronte a voi col peso della responsabilità che il popolo degli Stati Uniti mi ha affidato, consapevole delle enormi sfide di questo
momento storico e determinato ad agire con ambizione e con il
concorso di tutti per il bene della giustizia e della prosperità, in patria e
all’estero.
Sono in carica da appena nove mesi, anche se certi giorni mi sembra
che siano molti di più. Sono più che cosciente delle aspettative che
accompagnano la mia presidenza in tutto il mondo. Queste aspettative
non hanno nulla a che fare con me. Esse affondano le loro radici – di
questo sono convinto – in un malcontento nei confronti di uno status
quo che ha sempre più messo l’accento sulle nostre differenze, e che è
superato dai nostri problemi. Ma affondano le loro radici anche nella
speranza, la speranza che un cambiamento vero è possibile, e la
speranza che l’America possa assumere un ruolo guida nella strada che
porta a questo cambiamento.

Sono entrato in carica in un momento in cui tanti, in tutto il mondo,
vedevano l’America con scetticismo e sfiducia, in parte per percezioni e
informazioni sbagliate sul mio Paese, in parte perché contrari a
politiche specifiche e convinti che su certe questioni di primaria
importanza l’America abbia agito unilateralmente, senza riguardo per
gli interessi altrui. Tutto questo ha alimentato un antiamericanismo
quasi istintivo, che troppo spesso è servito come scusa per la nostra
inazione collettiva.
Come tutti voi, la mia responsabilità è agire nell’interesse della mia
nazione e del mio popolo, e non chiederò mai scusa per aver difeso
questi interessi. Ma sono profondamente convinto che oggi, nel 2009,
più che in qualsiasi altro momento della storia umana, tutte le nazioni
e tutti popoli abbiano interessi comuni.
Le convinzioni religiose che nutriamo nel nostro cuore possono
forgiare nuovi legami fra le persone o dividerle aspramente. La
tecnologia che padroneggiamo può illuminare la via per la pace o può
spengerla per sempre. L’energia che usiamo può alimentare il nostro
pianeta o distruggerlo. Quel che ne sarà delle speranze di un unico
bambino, in qualunque parte del mondo, potrà arricchire il nostro
pianeta o impoverirlo.
In quest’aula veniamo da molti posti diversi, ma condividiamo un
futuro comune. Non possiamo più permetterci il lusso di mettere
l’accento sulle nostre differenze, a scapito del lavoro che dobbiamo
fare insieme. Ho portato questo messaggio da Londra ad Ankara, da
Port of Spain a Mosca, da Accra al Cairo; ed è di questo che parlerò
oggi. Perché è venuto il momento per il mondo di muoversi in una
direzione nuova. Dobbiamo entrare in una nuova era di impegno,
basata su interessi reciproci e sul rispetto reciproco, e il nostro lavoro
deve cominciare da subito.
Sappiamo che il futuro sarà determinato dai fatti, e non semplicemente
dalle parole. I discorsi da soli non risolveranno i nostri problemi,
servirà un’azione costante. E a coloro che mettono in discussione la
natura e la causa della mia nazione, chiedo di guardare alle azioni
concrete che abbiamo compiuto in appena nove mesi.
Nel mio primo giorno da presidente ho proibito, senza eccezioni e
senza equivoci, l’uso della tortura da parte degli Stati Uniti d’America.
Ho ordinato la chiusura della prigione di Guantánamo e stiamo
lavorando con impegno per creare una struttura che consenta di
combattere l’estremismo rimanendo nei confini della legalità. Tutte le
nazioni devono saperlo: l’America saprà essere all’altezza dei suoi
valori e saprà assumere un ruolo guida attraverso l’esempio.
Abbiamo stabilito un obbiettivo chiaro e focalizzato: lavorare con tutti i
membri di questo organismo per contrastare, smantellare e
sconfiggere al-Qaida e i suoi alleati estremisti, una rete che ha ucciso
migliaia di persone, di tante fedi e nazioni diverse, e che aveva un
piano per far saltare in aria questo stesso edificio. In Afghanistan e in
Pakistan noi, e molte nazioni che sono qui, stiamo aiutando quei
Governi a sviluppare le capacità per mettersi alla testa di questi sforzi,
lavorando al tempo stesso per garantire più opportunità e sicurezza
alla propria gente.
In Iraq stiamo responsabilmente mettendo fine a una guerra. Abbiamo
rimosso le unità da combattimento dalle città irachene e abbiamo
fissato una scadenza, il prossimo agosto, entro la quale rimuoveremo
tutte le nostre unità da combattimento dal territorio iracheno. E ho
affermato con chiarezza che aiuteremo gli iracheni nella transizione per
giungere ad assumersi una piena responsabilità per il proprio futuro, e
che manterremo il nostro impegno di portare via tutti i soldati
americani entro la fine del 2011.
Ho delineato un programma generale per raggiungere l’obbiettivo di un
mondo senza armi nucleari. A Mosca, gli Stati Uniti e la Russia hanno
annunciato riduzioni importanti delle testate e dei lanciamissili. Alla
Conferenza sul disarmo ci siamo accordati su un piano di lavoro per
negoziare la fine della produzione di materiali fissili a scopo nucleare. E
questa settimana il mio segretario di Stato diventerà il primo alto
rappresentante del Governo degli Stati Uniti a presenziare all’annuale
conferenza degli Stati membri del Comprehensive Test Ban Treaty [il
trattato che mette al bando gli esperimenti nucleari].
Appena sono entrato in carica ho nominato un inviato speciale per la
pace in Medio Oriente, e l’America lavora con costanza e
determinazione per l’obbiettivo di due Stati – Israele e Palestina –
dove la pace metta radici e siano rispettati i diritti sia degli israeliani
che dei palestinesi.
Per combattere i cambiamenti climatici abbiamo investito 80 miliardi di
dollari nell’energia pulita. Abbiamo reso molto più stringenti i
parametri di efficienza per i carburanti. Abbiamo fornito nuovi incentivi
per la difesa dell’ambiente, abbiamo lanciato una partnership
energetica in tutte le Americhe e siamo passati da spettatori a
protagonisti nei negoziati internazionali sul clima.
Per sconfiggere una crisi economica che tocca ogni angolo del mondo,
abbiamo lavorato con le nazioni del G20 per dare vita a una risposta
internazionale coordinata di oltre duemila miliardi di dollari di misure di
stimolo, per salvare dal baratro l’economia mondiale. Abbiamo
mobilizzato risorse che hanno contribuito a prevenire un ulteriore
allargamento della crisi ai Paesi in via di sviluppo. E insieme ad altri
abbiamo lanciato un’iniziativa da 20 miliardi di dollari per la sicurezza
alimentare globale, che tenderà la mano a chi ne ha più bisogno e li
aiuterà a costruire una capacità produttiva propria.
E siamo tornati a impegnarci con le Nazioni Unite: abbiamo pagato
quello che dovevamo; siamo entrati nel Consiglio per i diritti umani;
abbiamo firmato la Convenzione sui diritti delle persone disabili;
abbiamo abbracciato pienamente gli Obbiettivi di sviluppo del
millennio. E affrontiamo le nostre priorità qui, in questa istituzione, ad
esempio attraverso la riunione del Consiglio di sicurezza che presiederò
domani sulla non proliferazione e il disarmo nucleare, e attraverso gli
argomenti che tratterò oggi.
Questo è quello che abbiamo fatto. Ma è soltanto un inizio. Alcune
delle nostre azioni hanno prodotto passi avanti. Alcune hanno gettato
le basi per progressi futuri. Ma una cosa va detta chiaramente: non
può essere solo uno sforzo degli Stati Uniti. Quelli che prima si
scagliavano contro l’America perché agiva in solitudine non possono
ora mettersi da una parte e aspettare che l’America risolva da sola i
problemi del mondo. Stiamo portando avanti, con le parole e con i
fatti, una nuova era di impegno con il mondo. Ora è tempo che tutti ci
prendiamo la nostra parte di responsabilità per una risposta globale a
sfide globali.
Se siamo onesti con noi stessi dobbiamo ammettere che in questo
momento non siamo all’altezza di quella responsabilità. Pensate a
quello che succederebbe se non riuscissimo a gestire lo status quo:
estremisti che seminano terrore in varie parti del mondo; conflitti
prolungati che si trascinano in eterno; genocidi e atrocità di massa;
sempre più nazioni dotate di armi nucleari; ghiacci che si sciolgono e
popolazioni devastate; miseria persistente e pandemie. Non dico
questo per seminare paura, ma per affermare un fatto: le nostre azioni
non sono ancora commisurate alla portata delle nostre sfide.
Questo organismo è stato fondato nella convinzione che le nazioni del
mondo potevano risolvere i loro problemi insieme. Franklin Roosevelt,
che è morto prima di poter vedere il suo sogno di un’istituzione di
questo tipo diventare realtà, la descriveva in questi termini: «La
struttura della pace del mondo non può essere l’opera di un unico
uomo, o di un unico partito, o di un’unica nazione [...] non può essere
una pace di grandi nazioni, o di piccole nazioni. Dev’essere una pace
che poggia sullo sforzo cooperativo del mondo intero».
Lo sforzo cooperativo del mondo intero. Queste parole suonano ancora
più vere oggi, quando ad accomunarci non è semplicemente la pace,
ma la nostra stessa salute e prosperità. Ma io so anche che questo
organismo è composto da Stati sovrani. E purtroppo, ma era
prevedibile, questo organismo spesso è diventato un forum per
seminare discordia, invece che per forgiare un terreno comune: un
luogo dove mettere in atto giochi politici e sfruttare rancori, invece che
per risolvere problemi. D’altronde, è facile salire su questo palco e
puntare il dito, fomentare le divisioni. Non c’è nulla di più facile che
dare la colpa agli altri dei propri problemi, e autoassolversi dalla
responsabilità per le proprie scelte e le proprie azioni. Questo lo può
fare chiunque.
Per esercitare responsabilità e leadership nel XXI secolo ci vuole di più.
In un’era in cui il nostro destino è comune il potere non è più un gioco
a somma zero. Nessuna nazione può o deve cercare di dominare
un’altra nazione. Nessun ordine mondiale che ponga una nazione o un
gruppo di persone al di sopra di un altro può avere successo. Nessun
equilibrio di potere fra nazioni può reggere. La tradizionale divisione
tra nazioni del Sud e nazioni del Nord non ha senso in un mondo
interconnesso. E nemmeno hanno senso schieramenti di nazioni
ancorati alle divisioni di una guerra fredda che è finita da tempo.
È tempo di rendersi conto che le vecchie consuetudini e i vecchi
argomenti sono irrilevanti per le sfide che devo affrontare le nostre
popolazioni. Essi spingono le nazioni ad agire in contrasto con gli
obbiettivi stessi che sostengono di perseguire, e a votare, spesso in
questo organismo, contro gli interessi del loro stesso popolo. Essi
costruiscono muri fra di noi e il futuro che i nostri popoli perseguono,
ed è giunto il momento di abbattere questi muri. Insieme, dobbiamo
costruire nuove coalizioni che colmino le vecchie divisioni, coalizioni di
fedi e convinzioni diverse, tra Nord e Sud, tra Oriente e Occidente, tra
neri, bianchi e marroni.
La scelta è nostra. Potremo essere ricordati come una generazione che
ha scelto di trascinare nel XXI secolo le diatribe del XX, che ha scelto
di rinviare le decisioni difficili, che ha rifiutato di guardare avanti e non
è stata all’altezza, perché abbiamo messo l’accento su quello che non
volevamo invece che su quello che volevamo. Oppure possiamo essere
una generazione che sceglie di vedere l’approdo oltre la tempesta, una
generazione che unisce le forze per gli interessi comuni degli esseri
umani e che finalmente dà un senso alla promessa insita nel nome che
è stato dato a questa istituzione: le Nazioni Unite.
Questo è il futuro che l’America vuole, un futuro di pace e prosperità
che potremo raggiungere solo riconoscendo che tutte le nazioni hanno
dei diritti, ma anche che tutte le nazioni hanno delle responsabilità.
Questo è il patto che fa funzionare tutto ciò, questo dev’essere il
principio guida della cooperazione internazionale.
Oggi io propongo quattro pilastri fondamentali per il futuro che
vogliamo costruire per i nostri figli: la non proliferazione e il disarmo;
la promozione della pace e della sicurezza; la conservazione del nostro
pianeta; e un’economia globale che dia più opportunità a tutte le
persone.
Per prima cosa dobbiamo fermare la diffusione delle armi nucleari e
perseguire l’obbiettivo di un mondo privo di bombe atomiche.
Questa istituzione è stata fondata agli albori dell’era nucleare, ed è
stata fondata anche perché era necessario mettere un freno alla
capacità dell’uomo di uccidere. Per decenni abbiamo evitato il disastro,
anche grazie allo stallo fra le due superpotenze. Ma oggi la minaccia
della proliferazione cresce di portata e di complessità. Se non
riusciremo ad agire favoriremo una corsa agli armamenti nucleari in
tutte le regioni e la prospettiva di guerre e azioni terroristiche di
proporzioni che riusciamo a malapena a immaginare.
Sulla strada di questo esito spaventoso si frappone un fragile
consenso, l’elementare compromesso che è alla base del Trattato di
non proliferazione, che dice che tutte le nazioni hanno diritto
all’energia nucleare civile, che le nazioni dotate di armi nucleari hanno
la responsabilità di procedere verso il disarmo e che le nazioni che non
dispongono di armi nucleari hanno la responsabilità di rinunciarvi. I
prossimi dodici mesi saranno decisivi per appurare se questo patto
verrà rafforzato o se si dissolverà lentamente.
L’America terrà fede ai patti. Cercheremo un nuovo accordo con la
Russia per ridurre in modo considerevole le testate e i lanciamissili in
nostro possesso. Procederemo alla ratifica del trattato per la messa al
bando degli esperimenti nucleari, lavoreremo insieme ad altri perché
questo trattato entri in vigore, in modo da giungere a un divieto
permanente degli esperimenti nucleari. Completeremo una revisione
della situazione nucleare, che aprirà la porta a tagli più consistenti e
ridurrà il ruolo delle armi atomiche. E faremo appello alle nazioni per
avviare a gennaio negoziati su un trattato per mettere fine alla
produzione di materiale fissile a scopi militari.
Inoltre, ad aprile organizzerò un vertice per riaffermare la
responsabilità di ogni nazione di garantire la sicurezza del materiale
nucleare presente sul proprio territorio, e per aiutare quelli che non ne
sono in grado: perché non dobbiamo mai consentire che anche un solo
apparecchio nucleare cada nelle mani di un estremista violento. E
lavoreremo per rafforzare le istituzioni e le iniziative contro il
contrabbando e il furto di materiale nucleare.
Tutto questo mira a sostenere gli sforzi per rafforzare il Trattato di non
proliferazione. Quelle nazioni che rifiuteranno di ottemperare ai propri
obblighi dovranno affrontare le conseguenze. Non si tratta di additare
singole nazioni, si tratta di battersi per i diritti di tutte le nazioni che
adempiono alle loro responsabilità. Perché un mondo in cui si rifiutano
le ispezioni dell’Aiea e si ignorano le richieste delle Nazioni Unite
esporrà tutti noi a un maggiore pericolo, e renderà tutte le nazioni
meno sicure.
Con il comportamento mostrato fino a oggi, il Governo nordcoreano e
quello iraniano minacciano di trascinarci lungo questa china pericolosa.
Noi rispettiamo i loro diritti in quanto membri della comunità delle
nazioni. Io credo in una diplomazia che apra la strada a una maggiore
prosperità e a una pace più sicura per entrambe queste nazioni, se
sapranno far fronte ai loro obblighi.
Ma se i governi di Iran e Corea del Nord dovessero scegliere di
ignorare gli standard fissati a livello internazionale; se dovessero
anteporre il loro desiderio di entrare in possesso di armi nucleari alla
stabilità regionale, alla sicurezza, alle opportunità per il loro stesso
popolo; se fossero dimentichi dei pericoli di un’escalation nucleare sia
in Asia orientale sia in Medio Oriente, allora dovrebbero essere
costrette a rispondere del loro operato. Il mondo deve sentirsi unito,
coeso, e dimostrare che la legalità internazionale non è una vuota
promessa e che i trattati devono essere applicati e tradotti in realtà.
Noi dobbiamo insistere su un punto: il futuro non deve cadere preda
della paura.
Ciò mi porta a illustrare il secondo pilastro sul quale si ergerà il
nostro futuro: il perseguimento della pace. Le Nazioni Unite nacquero
con la premessa che i popoli della Terra potessero vivere le loro vite,
mantenere e far crescere le loro famiglie, risolvere le loro divergenze
in modo pacifico. Purtroppo, però, sappiamo che in troppe aree del
mondo questo ideale resta pura astrazione. Possiamo accettare che
questo sia inevitabile, e tollerare continui conflitti destabilizzanti.
Oppure possiamo ammettere che il desiderio di pace è universale, e
riaffermare la nostra determinazione a porre fine ai conflitti nel mondo.
Questo impegno deve iniziare dall’incrollabile principio che
l’assassinio di uomini, donne e bambini innocenti non sarà mai
tollerato. Su questo punto non possono esserci polemiche e dispute.
Gli estremisti violenti che promuovono la guerra distorcendo la loro
stessa fede hanno perso di credibilità e si sono isolati da soli. Non
hanno altro da offrire che odio e devastazione. Nell’affrontarli,
l’America costituirà delle durature partnership, finalizzate a prendere di
mira i terroristi, mettere in comune le intelligence, coordinare
l’attuazione pratica della legge e proteggere il nostro popolo. Noi non
permetteremo che esista alcun rifugio sicuro e inviolabile dal quale al
Qaeda possa scagliare i suoi attacchi, dall’Afghanistan o da qualche
altra nazione. Noi ci schiereremo al fianco dei nostri amici e alleati
sulla linea del fronte, come domani faremo insieme a molte nazioni per
promuovere aiuti al popolo pachistano. E naturalmente proseguiremo
in questo impegno positivo, per costruire ponti tra le varie confessioni
religiose e creare nuove partnership per dare opportunità a tutti.
I nostri sforzi per promuovere la pace, tuttavia, non possono
essere limitati a sconfiggere gli estremisti violenti, e questo perché
l’arma più potente nel nostro arsenale è la speranza degli esseri
umani, la convinzione che il futuro appartiene a chi lo costruisce, non a
chi lo distrugge, e perché nutriamo la fiducia che i conflitti possono
terminare, che una nuova alba può nascere.
Ecco le ragioni per le quali rafforzeremo il nostro aiuto per
un’efficace missione di peacekeeping, pur continuando a consolidare i
nostri sforzi volti a sventare i conflitti prima ancora che esplodano.
Cercheremo di firmare una pace duratura con il Sudan concedendo
aiuti alla popolazione del Darfur, e con l’attuazione pratica del
Comprehensive Peace Agreement, così da garantire al popolo sudanese
la pace che esso merita. Nei Paesi devastati dalla violenza – da Haiti al
Congo a Timor Est – lavoreremo accanto alle Nazioni Unite e agli altri
partner per dare il massimo aiuto per una pace duratura.
Personalmente continuerò altresì ad adoperarmi per una pace
giusta e duratura tra Israele, Palestina e mondo arabo. Ieri ho avuto
un incontro molto costruttivo con il primo ministro Netanyahau e il
presidente Habbas. Abbiamo fatto qualche passo avanti. I palestinesi
hanno moltiplicato i loro sforzi miranti a tenere sotto controllo la
sicurezza. Gli israeliani hanno concesso una maggiore libertà di
movimento ai palestinesi. Di conseguenza, grazie agli sforzi di
entrambe le parti, l’economia in Cisgiordania ha iniziato a crescere. Ma
occorrono altri progressi. Dobbiamo continuare a esortare i palestinesi
a porre fine all’istigazione alla violenza contro Israele, e continueremo
a far presente a gran voce che l’America non accetta che Israele
continui a considerare legittimi gli insediamenti dei coloni nei Territori.
È venuto il momento di rilanciare i negoziati – senza
precondizioni di sorta – che affrontino una volta per tutte le questioni
di sempre: sicurezza per gli israeliani e palestinesi; confini; profughi e
Gerusalemme. L’obiettivo è chiaro. È quello di due stati che vivono
l’uno accanto all’altro in pace e sicurezza: lo stato ebraico di Israele,
veramente sicuro per tutti gli israeliani; e lo stato palestinese
indipendente, con un territorio contiguo al primo nel quale abbia fine
l’occupazione iniziata nel 1967, e che possa consentire ai palestinesi di
raggiungere il loro pieno potenziale. Mentre ci accingiamo a perseguire
questo scopo, intendiamo promuovere anche la pace tra Israele e
Libano, tra Israele e Siria, e più in generale la pace tra Israele e i molti
Paesi con esso confinanti. Nel perseguire questo obiettivo, intendiamo
mettere a punto delle iniziative regionali con una partecipazione
multilaterale, insieme a negoziati bilaterali.
Non sono un ingenuo. So bene che tutto ciò sarà difficile da
ottenere. Ma noi tutti dobbiamo decidere se facciamo sul serio
parlando di pace o se ci limitiamo a far finta di parlare e muoviamo
soltanto le labbra. Per spezzare i vecchi parametri, per rompere il
circolo vizioso di insicurezza e disperazione, tutti noi dobbiamo
dichiarare ufficialmente ciò che ammettiamo a porte chiuse. Gli Stati
Uniti non rendono un favore a Israele quando mancano di abbinare a
un risoluto impegno alla sua sicurezza l’istanza che Israele rispetti le
legittime richieste e i legittimi diritti dei palestinesi. E tutte le nazioni di
questa Assemblea non rendono un favore ai palestinesi quando costoro
scelgono di lanciare attacchi al vetriolo invece di una costruttiva
volontà di riconoscere la legittimità di Israele, e il suo diritto a esistere,
in pace e in sicurezza.
Dobbiamo ricordarci che il prezzo più pesante di questo conflitto
non lo paghiamo noi. Lo paga quella ragazza israeliana che a Sderot ha
chiuso gli occhi temendo che un razzo le togliesse la vita nel cuore
della notte. Lo paga quel bambino palestinese di Gaza che non ha
accesso all’acqua potabile e non ha un Paese che può chiamare patria.
Questi sono tutti figli di Dio. Al di là della politica, degli atteggiamenti e
delle posizioni, qui si parla dei diritto di ogni essere umano a vivere
con dignità e sicurezza. Questa è la lezione di fondo delle tre grandi
religioni che chiamano Terrasanta quella piccola striscia di terra. Ecco
perché, malgrado io sappia che ci saranno battute d’arresto, false
partenza e giorni molto difficili, io non derogherò dal mio impegno
volto a perseguire la pace.
Terzo: dobbiamo riconoscere che nel XXI secolo, non ci potrà
essere pace nel mondo se non ci assumeremo la responsabilità di
preservare il nostro pianeta. Il pericolo costituito dal cambiamento del
clima è innegabile, e la nostra responsabilità a farvi fronte è
indifferibile. Se continueremo lungo l’attuale percorso, ogni membro di
questa Assemblea assisterà all’interno dei suoi stessi confini a
cambiamenti irreversibili. I nostri sforzi volti a porre fine ai conflitti
saranno eclissati dalle guerre per i profughi e per le risorse. Lo
sviluppo avrà fine, sarà fermato dalla siccità e dalle carestie. La terra
sulla quale gli esseri umani hanno vissuto per millenni scomparirà. Le
generazioni future si guarderanno indietro e si chiederanno per quale
ragione noi ci rifiutammo di agire, perché non riuscimmo a lasciar loro
in eredità l’ambiente così come noi lo avevamo a nostra volta
ereditato.
Quanto ho detto spiega perché i giorni in cui l’America
tergiversava su queste questioni sono ormai alle spalle. Noi
procederemo, andremo avanti a investire per trasformare la nostra
economia energetica, fornendo incentivi per far sì che l’energia pulita
sia l’energia redditizia nella quale investire. Eserciteremo pressioni da
ora in poi, taglieremo le emissioni di gas serra per raggiungere gli
obiettivi fissati per il 2020, e in seguito per il 2050. Continueremo a
promuovere le energie rinnovabili e l’efficienza energetica,
condividendo nuove tecnologie con i Paesi di tutto il mondo. E
coglieremo ogni occasione propizia per il progresso per affrontare
questa minaccia con uno sforzo concertato con il mondo intero.
Le nazioni ricche gravemente responsabili dei danni arrecati
all’ambiente per tutto il XX secolo devono accettare il nostro dovere a
guidare questa missione. Ma la responsabilità non finisce qui.
Dobbiamo riconoscere la necessità di risposte differenziate, e ciascuno
sforzo mirante a ridurre le emissioni di diossido di carbonio deve
coinvolgere i Paesi che rilasciano CO2 nell’atmosfera a ritmo incalzante
e che possono fare di più per ridurre l’inquinamento della loro aria
senza inibire la crescita. Qualsiasi sforzo che trascuri di aiutare le
nazioni più povere ad adattarsi ai problemi che il cambiamento del
clima sta già creando e al contempo proseguire verso lo sviluppo lungo
una strada pulita non funzionerà.
È difficile cambiare qualcosa di così fondamentale come il modo
col quale noi utilizziamo l’energia. Ancora più difficile è farlo nel bel
mezzo di una recessione globale. Sicuramente starcene tranquilli ad
aspettare in attesa che siano gli altri a intervenire per primi è una bella
tentazione. Ma non possiamo affrontare questo cambiamento se non
camminando tutti insieme. Dirigendoci prossimamente a Copenhagen,
cerchiamo di essere determinati, di concentrarci su ciò che ciascuno di
noi può fare per il bene del nostro futuro comune.
Ciò mi conduce a parlare dell’ultimo pilastro sul quale si dovrà
reggere il nostro futuro: un’economia globale che migliori le
opportunità di tutti i popoli. Il mondo si sta ancora riprendendo dalla
peggiore crisi economica che sia mai intervenuta dai tempi della
Grande Depressione. In America vediamo che il motore della crescita
sta iniziando ad agitarsi, e malgrado ciò in molti ancora stentano a
trovare un posto di lavoro o pagare le loro bollette. Nel pianeta stiamo
vedendo qualche segnale promettente, ma poche sicurezze su che
cosa ci aspetta di preciso. Ancora troppe persone in troppi luoghi
vivono le crisi quotidiane che rappresentano una sfida per il comune
genere umano: la disperazione di uno stomaco vuoto, la sete
provocata da acqua sempre più carente, l’ingiustizia di un bambino
agonizzante per una malattia che sarebbe curabile, una madre che
muore mentre mette al mondo la sua creatura.
A Pittsburgh lavoreremo con le più grandi economie del mondo
per delineare una traiettoria per la crescita, affinché sia bilanciata e
sostenuta. Questo significa vigilare, per garantire che non rinunceremo
prima che tutti siano tornati a lavorare. Questo significa prendere
iniziative per rigenerare la domanda, così che una ripresa globale
possa essere sostenuta. Questo, infine, significa stabilire nuove regole
per andare avanti e rafforzare i regolamenti per tutti i centri finanziari,
così da poter porre fine all’avidità, agli eccessi, agli abusi che ci hanno
sprofondato in questo disastro. Così da evitare che una crisi come
questa possa verificarsi di nuovo.
In quest’epoca di massima interdipendenza, noi abbiamo un
interesse morale e pragmatico preciso nelle questioni legate più in
generale allo sviluppo. Pertanto porteremo ancora avanti il nostro
impegno storico mirante ad aiutare tutti i popoli ad avere di che
sfamarsi. Abbiamo messo da parte circa 63 miliardi di dollari per
portare avanti la nostra battaglia contro l’Hiv e l’Aids, per evitare che si
possa ancora morire per tubercolosi e malaria, per sradicare la
poliomielite, per rafforzare i sistemi sanitari pubblici. Ci stiamo unendo
agli altri Paesi dell’Organizzazione Mondiale della Sanità per contribuire
a produrre i vaccini contro il virus dell’H1N1. Integreremo un numero
maggiore di economie in un sistema di commercio globale. Sosterremo
gli Obiettivi per lo Sviluppo del Millennio e ci recheremo al Summit
dell’anno prossimo con un piano globale finalizzato a tradurli in realtà.
Ci concentreremo sull’obiettivo di sradicare – adesso, nell’arco delle
nostre stesse vite – la povertà.
È venuto il momento per noi tutti di fare la nostra parte. La
crescita non sarà sostenuta o condivisa se tutte le nazioni non
decideranno di assumersi le proprie responsabilità. Le nazioni più
ricche devono aprire i loro mercati a un numero maggiore di prodotti e
tendere una mano a coloro che hanno meno, riformando al contempo
le istituzioni internazionali per dare a un numero maggiore di nazioni
una voce più forte. Dal canto loro le nazioni in via di sviluppo dovranno
sradicare completamente la corruzione che costituisce un ostacolo al
progresso, perché le opportunità non fioriscono là dove gli individui
sono oppressi, dove per fare affari è necessario pagare bustarelle. Per
tutto ciò noi daremo aiuto e sostegno alle polizie oneste, ai giudici
indipendenti, alla società civile, al settore privato. Il nostro obiettivo è
semplice: un’economia globale, nella quale la crescita sia sostenuta,
nella quale le opportunità siano accessibili a tutti.
I cambiamenti che vi ho illustrato oggi non saranno raggiungibili
facilmente. Non saranno raggiunti semplicemente da leader che come
noi si ritrovano in riunioni come questa, perché come in qualsiasi altra
Assemblea, il vero cambiamento potrà aver luogo soltanto grazie ai
popoli che noi qui rappresentiamo. Ecco per quale ragione dobbiamo
accollarci il duro lavoro di gettare le basi e le premesse per il progresso
nelle nostre rispettive capitali. Ecco perché dobbiamo costruire un
consenso che ponga fine ai conflitti e pieghi la tecnologia a scopi di
pace, per cambiare il modo col quale utilizziamo l’energia, per
promuovere la crescita che può essere sostenuta e condivisa.
Io credo che i popoli della Terra vogliano questo futuro per le
loro discendenze. E questo fa sì che noi si debba diventare
propugnatori e paladini di questi principi, che garantiscono che i
governi riflettono la volontà dei rispettivi popoli. Questi principi non
possono essere ripensamenti: la democrazia e i diritti umani sono di
cruciale importanza per il raggiungimento di ciascuno degli obiettivi di
cui ho parlato oggi. Perché i governi del popolo ed eletti dal popolo
hanno maggiori probabilità di operare nell’interesse generale del loro
popolo più che per i bassi interessi di coloro che sono al potere.
La nostra leadership non sarà valutata in rapporto al grado col
quale abbiamo alimentato paure e odi tra i nostri popoli. La vera
leadership non sarà valutata dall’abilità con la quale si seminano
dissenso e zizzania, si intimidiscono o si perseguitano le opposizioni
nei nostri rispettivi Paesi. I popoli della Terra vogliono un
cambiamento. Non tollereranno a lungo coloro che si schierano dalla
parte sbagliata della Storia.
La Carta di questa Assemblea specificatamente impegna
ciascuno di noi – cito testualmente – a “riaffermare la fede nei diritti
fondamentali dell’uomo, nel valore della persona umana e
nell’eguaglianza dei diritti degli uomini e delle donne”. Tra questi diritti
vi è la libertà di parlare e pregare come si desidera; la promessa di
eguaglianza tra le razze, e la possibilità per le donne e le bambine di
cercare di raggiungere il loro pieno potenziale; la possibilità per i
cittadini di poter dire la loro su come intendono essere governati, e di
avere fiducia nell’amministrazione della giustizia. Per lo stesso motivo
per cui nessuna nazione dovrebbe essere costretta ad accettare la
tirannia di un’altra nazione, così nessun essere umano dovrebbe essere
costretto ad accettare la tirannia del suo stesso governo.
Da afro-americano, non dimenticherò mai che non sarei qui oggi
se nel mio Paese non ci fosse stato un impegno determinato a
perseguire un’unione più perfetta. Ciò mi induce a credere fermamente
che a prescindere da quanto cupo possa essere il giorno, coloro che
hanno scelto di essere dalla parte della giustizia possono produrre un
cambiamento e una trasformazione. Io prometto che l’America sarà
sempre dalla parte di coloro che si battono per la loro dignità e i loro
diritti, dello studente che vuole imparare, dell’elettore che chiede di
essere ascoltato, dell’innocente che anela a essere liberato, e
dell’oppresso che brama l’uguaglianza.
La democrazia non può essere imposta a nessuna nazione
dall’esterno: ciascuna società deve tracciarsi il proprio cammino e
nessun cammino è perfetto. Ciascun Paese deve tracciarsi un cammino
radicato nella cultura del proprio popolo e - in passato – l’America
troppo spesso è stata selettiva nel promuovere la democrazia a suo
piacere. Ciò non indebolisce affatto il nostro impegno: al contrario, lo
rafforza. Ci sono principi di base, universali. Ci sono verità certe, che
sono palesi. E gli Stati Uniti non derogheranno mai dal proprio sforzo
volto ad affermare il diritto dei popoli, ovunque essi siano, a decidere
del loro stesso destino.
Sessantacinque anni fa, uno sfinito Franklin Roosevelt si rivolse
al popolo americano nel suo quarto e ultimo discorso inaugurale. Dopo
anni di guerra, egli cercò di trarre le lezioni che si potevano trarre dai
terribili avvenimenti vissuti, dagli enormi sacrifici compiuti, e disse:
«Abbiamo imparato a essere cittadini del mondo, membri del genere
umano».
Le Nazioni Unite furono create da uomini e donne come
Roosevelt, di ogni angolo della Terra, provenienti dall’Africa e dall’Asia,
dall’Europa e dalle Americhe. Quegli artefici della cooperazione
internazionale avevano un idealismo tutt’altro che ingenuo e utopistico,
radicato com’era nelle dure lezioni imparate dalla guerra, nella
consapevolezza che le nazioni avrebbero potuto portare avanti i loro
rispettivi interessi agendo insieme, invece che divise.
Adesso è giunto il nostro turno, perché questa istituzione sarà
ciò che noi ne faremo. Le Nazioni Unite fanno del bene straordinario
nel mondo, sfamando gli affamati, curando i malati, ricostruendo i
luoghi distrutti. Ma è pur vero che questa istituzione fa fatica a
tradurre in realtà la propria volontà e a vivere all’altezza degli ideali dei
suoi fondatori.
Io credo che queste carenze non siano una ragione sufficiente a
staccarci da questa istituzione. Sono anzi un richiamo a raddoppiare i
nostri sforzi. Le Nazioni Unite possono essere la sede nella quale
litigare per istanze del passato, oppure la sede nella quale costruire
un terreno comune. Possono essere la sede nella quale concentrarci su
ciò che ci separa, oppure la sede nella quale concentrarci su ciò che ci
tiene insieme; la sede nella quale lasciare che i tiranni prosperino o la
fonte di un’autorità morale. In sintesi: le Nazioni Unite possono essere
un’istituzione slegata da ciò che conta davvero per la vita dei nostri
popoli o diventare indispensabili per portare avanti gli interessi dei
popoli al servizio dei quali noi siamo.
Abbiamo raggiunto una fase epocale. Gli Stati Uniti sono pronti a
dare inizio a una nuova fase di cooperazione internazionale, nella
quale si riconoscano i diritti e le responsabilità di tutte le nazioni.
Fiduciosi nella nostra causa, disposti a impegnarci per i nostri valori,
facciamo appello a tutte le nazioni affinché si uniscano a noi per
costruire il futuro che i nostri popoli meritano. Grazie.
Traduzione di Anna Bissanti e Fabio Galimberti

martedì 22 settembre 2009

342 ORE SULLE GRANDES JORASSES

DESMAISON RENE' LA PRIMA INVERNALE DELLA DIRETTISSIMA
ALLA PUNTA WALKER: IL RACCONTO DELLA TRAGEDIA.

Massiccio del Monte Bianco, 11 febbraio 1971: René Desmaison tenta la direttissima della Punta Walker sulle Grandes Jorasses insieme al giovane compagno, Serge Gousseault. Di fronte si trovano 1.200 metri di granito e ghiaccio strapiombanti e soggetti a continue scariche di neve e sassi. La salita è più dura del previsto e i due devono bivaccare più volte; fino al 17 il tempo regge, ma poi si mette al brutto. Ormai sono a 200 metri dalla vetta, l'unica possibilità è arrivare in cima, ma i collegamenti col fondovalle e i familiari si sono interrotti, i viveri scarseggiano e Serge Gousseault tradisce i primi segni di sfinimento: è l'inizio della fine. A Desmaison non resta che attendere i soccorsi che arriveranno dopo più di due settimane in parete.

Rava Party

Torino - Domenica 13 Settembre 2009
Auditorium Giovanni Agnelli - Lingotto


Enrico Rava
Enrico Rava è sicuramente il jazzista italiano più conosciuto e apprezzato a livello internazionale. Da sempre impegnato nelle esperienze più diverse e stimolanti, è apparso sulla scena jazzistica a metà degli anni Sessanta, imponendosi rapidamente come uno dei più convincenti solisti del jazz europeo. La sua schiettezza umana e artistica lo pone al di fuori di ogni schema e ne fa un musicista rigoroso, ma incurante delle convenzioni. La sua poetica immediatamente riconoscibile, la sua sonorità lirica e struggente sempre sorretta da una stupefacente freschezza d’ispirazione, risaltano fortemente in tutte le sue avventure musicali. In cinque decenni di carriera, ha al proprio attivo oltre cento incisioni. Avvicinatosi alla tromba nel 1957, grande ammiratore di Miles Davis e Chet Baker, Enrico Rava comincia a suonare giovanissimo nei club torinesi. Nel 1962 conosce Gato Barbieri, al cui fianco due anni dopo incide la colonna sonora del film di Giuliano Montaldo Una bella grinta. In quegli anni incontra Don Cherry e Steve Lacy, con il quale suona in quartetto tra Londra e Buenos Aires (è in Argentina, nel 1966, che il quartetto registra l’album The Forest and The Zoo). Nel 1967 Rava è a New York, dove rimarrà per circa dieci anni, frequentando musicisti come Roswell Rudd, Marion Brown, Rashid Ali, Cecil Taylor, Carla Bley, Charlie Haden e incidendo anche con la Jazz Composer’s Orchestra di Carla Bley. A partire dal 1972, anno in cui pubblica Il giro del giorno in 80 mondi, il primo disco a suo nome, Rava dirige quartetti (sia nei club newyorkesi, sia in tournée in Europa e Argentina) quasi sempre privi di pianoforte. Le collaborazioni e le incisioni si susseguono, preziose, a ritmo serrato, a fianco di prestigiosi musicisti italiani, europei e americani tra cui Franco D’Andrea, Massimo Urbani, Joe Henderson, John Abercrombie, Palle Danielsson, Jon Christensen, Nana Vasconcelos, Miroslav Vitous, Daniel Humair, Michel Petrucciani, Charlie Mariano, Joe Lovano (con il quale agli inizi degli anni Novanta forma un quintetto), Albert Mangelsdorff, Dino Saluzzi, Richard Galliano, Martial Solal, Archie Shepp e molti altri. Ha effettuato numerose tournée in Stati Uniti, Giappone, Canada, Europa, Brasile, Argentina, Uruguay, partecipando ai più importanti festival (Montreal, Toronto, Houston, Los Angeles, Perugia, Antibes, Berlino, Parigi, Tokyo, Rio de Janeiro e San Paolo). È stato innumerevoli volte eletto musicista dell’anno nei referendum “Top Jazz” indetti dalla rivista «Musica Jazz».I primi anni del nuovo millennio sono stati gratificanti per Enrico Rava. Nel 2002 è nominato Chevalier dans l’Ordre des Arts et des Lettres dal Ministro della Cultura Francese ed è il primo musicista italiano a ricevere il prestigioso Jazzpar Prize, riconoscimento conferito annualmente a Copenhagen da una giuria internazionale, noto come il Nobel del Jazz. Negli ultimi due anni è comparso ai primi posti del referendum indetto dalla rivista americana «Down Beat» nella sezione riservata ai trombettisti di tutto il mondo. Nel gennaio 2004 si è esibito per una settimana al prestigioso Blue Note di New York, bissando il successo alla Town Hall e poi ancora al Birdland. Nel 2004, per ECM, esce il disco Easy Living, seguito da Tati (inciso sul finire del 2004 a New York con Stefano Bollani e Paul Motian), nel 2007 The Words and the Days (inciso in quintetto con Gianluca Petrella, Andrea Pozza, Rosario Bonaccorso, Roberto Gatto) e The Third Man in duo con Stefano Bollani. All’inizio del 2009 ha pubblicato il nuovo dico inciso a New York con Stefano Bollani, Paul Motian, Larry Grenadier e Mark Turner, dal titolo New York Days.


Stefano Bollani esordisce professionalmente a quindici anni. Dopo il diploma di Conservatorio conseguito a Firenze nel 1993 e una breve esperienza come turnista nel mondo della musica pop (con Raf e Jovanotti, fra gli altri) si afferma nel jazz, collaborando con grandissimi musicisti (Richard Galliano, Gato Barbieri, Pat Metheny, Michel Portal, Phil Woods, Lee Konitz, Han Bennink, Paolo Fresu, Miroslav Vitous, Aldo Romano, Toninho Horta, John Abercrombie, Kenny Wheeler, Greg Osby, Martial Solal) sui palchi più prestigiosi del mondo (da Umbria Jazz al Festival di Montreal, dalla Town Hall di New York alla Scala di Milano). Fra le tappe della sua carriera, fondamentale è la collaborazione iniziata nel 1996 (e da allora mai interrotta) con il suo mentore Enrico Rava, al fianco del quale tiene centinaia di concerti e incide numerosi dischi. Il referendum dei giornalisti della rivista specializzata «Musica Jazz» lo proclama miglior nuovo talento del 1998; in quel periodo, mentre guida il proprio gruppo, l’Orchestra del Titanic, si lancia nella realizzazione di un ambizioso disco-spettacolo in omaggio alla musica leggera italiana degli anni Trenta-Quaranta (Abbassa la tua radio con Peppe Servillo, Irene Grandi, Marco Parente, Elio di Elio e le Storie Tese e tanti altri cantanti e musicisti).Nel 2003 a Napoli riceve il Premio Carosone; l’anno successivo la rivista giapponese «Swing Journal» gli conferisce il premio New Star Award riservato ai talenti emergenti stranieri, per la prima volta assegnato a un musicista non americano. Per la prestigiosa etichetta francese Label Bleu realizza quattro dischi: un omaggio allo scrittore Raymond Queneau, registrato in trio con Scott Colley e Clarence Penn (Les fleures bleues, 2002), un disco in completa solitudine (Smat smat, 2003, segnalato dalla rivista inglese «Mojo» come uno dei migliori dieci dischi jazz dell’anno), un disco per trio jazz e orchestra sinfonica con l’Orchestra Regionale Toscana diretta da Paolo Silvestri (Concertone, 2004), un doppio album (I visionari, 2006) con il suo nuovo quintetto e Mark Feldman, Paolo Fresu e Petra Magoni come ospiti. In ambito classico, si esibisce come solista con orchestre sinfoniche come l’Orchestra Regionale Toscana, la Filarmonica ’900 del Teatro Regio di Torino, l’Orchestra Sinfonica “Giuseppe Verdi” di Milano, l’Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia con direttori come Jan Latham-Koenig (con cui ha inciso il Concert champêtre di Poulenc per l’etichetta inglese Avie Records), Cristopher Franklyn e James Conlon.Nel 2005 è ospite fisso nel programma televisivo di RaiUno Meno siamo meglio stiamo, di e con Renzo Arbore. È ideatore e conduttore, insieme a David Riondino, della trasmissione musicale Dottor Djembè, in onda su RadioTre (premio Microfono d’argento 2007). Dal 2005 è direttore artistico della rassegna Vivere Jazz Festival, che si svolge ogni anno a Fiesole; nel 2006 è nominato musicista italiano dell’anno dalla rivista «Musica jazz» e il suo Piano solo, uscito per la ECM, è il disco dell’anno. Il 2007 lo vede fra i cinque musicisti più importanti per “Allaboutjazz” di New York, accanto a mostri sacri come Ornette Coleman e Sonny Rollins, ottavo fra i nuovi talenti del jazz mondiale e terzo fra i giovani pianisti secondo il referendum di «Downbeat». Inoltre a Vienna gli viene consegnato l’European Jazz Prize, premio della critica europea, come miglior musicista europeo dell’anno. Il suo ultimo lavoro è uscito in edicola, allegato alla rivista «L’Espresso» nel dicembre 2007. Si tratta di un’incursione nella musica popolare brasiliana,Bollani Carioca, un disco registrato a Rio de Janeiro con importanti musicisti del luogo. Insieme a loro si è esibito in varie città del Brasile ed è stato il secondo musicista, dopo Antonio Carlos Jobim, a suonare un pianoforte a coda in una favela di Rio, il primo dicembre 2007. Da gennaio 2009 compone tutte le sigle del palinsesto di Rai RadioTre. Per l’autunno è in uscita Stone in The Water, il suo nuovo disco inciso a New York per la ECM con Jesper Bodilsen al basso e Morten Lunden alla batteria.

Più di un sud



Il caso di Torino, città dove la recente immigrazione dal Sud del mondo è stata preceduta da un'imponente immigrazione dal sud italiano, presenta caratteristiche particolarmente interessanti per riflessioni di carattere più generale. Frutto di prolungate ricerche sul campo, condotte da cinque giovani studiosi tra il 1996 e il 2002, i saggi contenuti in questo volume portano un significativo contributo alla comprensione di alcuni aspetti centrali dell'immigrazione a Torino oggi, utilizzando i metodi di indagine dell'antropologia per far emergere nella ricchezza del dettaglio etnografico le principali variabili e le molte dimensioni del fenomeno migratorio e dell'esperienza dei migranti.
A differenza della maggior parte degli studi sull'immigrazione in Italia, Più di un Sud non si concentra soltanto sulla "nuova immigrazione" ma considera anche le conseguenze della precedente immigrazione interna. Vengono inoltre esplorate le rappresentazioni "native" (italiane, torinesi) dell'immigrazione e degli immigrati: uno dei saggi, esaminando le strategie di costruzione del sentimento etnico padano perseguite dalla Lega Nord, permette di cogliere i mutamenti di bersaglio del pregiudizio - dal meridionale all'extracomunitario - nel corso dell'ultimo ventennio.
Aperto da un'introduzione che fornisce le coordinate essenziali per inquadrare il "caso Torino" e discute i principali aspetti metodologici e teorici dell'antropologia delle migrazioni, il volume illustra concretamente questioni importanti per chi si trova ad affrontare le problematiche legate all'immigrazione e costituisce uno strumento prezioso tanto nell'insegnamento universitario quanto nella formazione e aggiornamento di operatori dei servizi sociali.

Paola Sacchi ha conseguito il dottorato di ricerca in Antropologia culturale e etnologia presso l'Università di Torino ed è attualmente professore a contratto di Antropologia culturale presso l'Università di Pavia e di Antropologia del Medio Oriente presso l'Università di Torino. Ha condotto ricerche sul terreno tra i gruppi beduini del Negev e tra gli immigrati maghrebini in Piemonte. Coautrice, con U. Avalle e M. Maranzana, di Corso di scienze sociali (Bologna, Zanichelli, 2000), ha recentemente pubblicato Nakira. Giovani e donne in un villaggio beduino di Israele (Torino, Il Segnalibro, 2003).

Pier Paolo Viazzo è professore di Antropologia sociale presso l'Università di Torino. Ha condotto ricerche sul terreno in area alpina e si occupa di antropologia delle società complesse, delle relazioni tra antropologia, storia e demografia, e di antropologia delle migrazioni e della mobilità. Tra i suoi lavori più recenti: Introduzione all'antropologia storica (Roma-Bari, Laterza, 2000); Comunità alpine. Ambiente, popolazione, struttura sociale nelle Alpi dal XVI secolo ad oggi (Roma, Carocci, 20012) e, con M. Aime e S. Allovio, Sapersi muovere. I pastori transumanti di Roaschia (Roma, Meltemi, 2001).

Le prigioni invisibili


L'emigrazione e l'immigrazione sono le due facce di una stessa medaglia e non si può comprendere l'una senza conoscere l'altra, rilevava già Abdelmalek Sayad. Nondimeno, lo studio delle migrazioni si è concentrato soprattutto sul lato che ci riguarda da vicino, sull'immigrazione e le sue conseguenze, trascurando il lato nascosto del fenomeno, lo studio dell'emigrazione, delle sue cause e del suo significato. Basato su una ricerca etnografica multisituata in Marocco e a Torino, questo libro vuole invece essere una descrizione densa della migrazione marocchina nella sua interezza, soffermandosi in particolare sul momento dell'emigrazione e sui contesti di origine dei migranti. Dalla descrizione delle difficoltà e delle aspirazioni dei giovani abitanti di Casablanca e Khouribga, e dall'analisi della cultura dell'emigrazione e dell'immaginazione sociale, l'emigrazione marocchina emerge come un tentativo di fuga dalla mancanza di opportunità e dall'esclusione di classe. Ma l'immigrazione in Italia non mantiene tutte le promesse, perché le prigioni invisibili della discriminazione e dell'esclusione limitano costantemente i percorsi e le possibilità dei migranti marocchini. E i legami transnazionali, sociali e simbolici, con il paese d'origine continuano a essere decisivi nelle vite e nei progetti dei migranti. Unendo una dettagliata descrizione etnografica, arricchita dalle voci e dalle storie dei protagonisti, alle più recenti analisi teoriche, il libro rappresenta un contributo originale, da un punto di vista antropologico, allo studio delle migrazioni contemporanee.


Carlo Capello è docente di Antropologia Politica alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Torino. Ha condotto indagini sul campo a Torino e in Marocco sui temi della migrazione e dei riti funebri e nel Sud Italia sul tema della famiglia e della sicurezza sociale, pubblicando diversi saggi a partire dalle sue ricerche.

venerdì 18 settembre 2009

Frida Kahlo, euforia di una vita



Uno spettacolo teatrale dedicato a Frida Kahlo, una delle pittrici messicane più famose, studiate e ammirate, per i suoi quadri straordinari, ma anche per la sua vita travagliata, un misto di dolore e forza. Un monologo intimo e gioioso, che si colloca tra il ricordo, i sogni e la passionale realtà di un personaggio viscerale.
Scritto e interpretato da Monica Livoni Larco, dell’associazione Donne di Sabbia, con suoni Gianfranco Mulas, Frida euforia di una vita va in scena venerdì 18 settembre 2009 alle ore 22 a Spazzi-La locanda degli arrivanti, Via Virle 21, Torino.
Spazzi è un luogo particolare, che è ristorante, bar, emporio equosolidale, centro studi, e molte altre cose; nato da è un progetto delle Cooperative Sociali Progetto-Muret, Luci nella Città e dell’Associazione Arcobaleno, realtà che da molti anni lavorano per l’inclusione sociale di persone con problemi psichiatrici, ha già ospitato eventi teatrali tra cui la prima edizione di Donne di sabbia ( sui femminicidi di Ciudad Juarez in Messico.
Per informazioni:
tel. 011.4330331 – 011.4337136