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mentono sapendo di mentine

lunedì 29 settembre 2008

VERONICA MARCHI



I migliori videogame su YouTube

Dalla «Linea» degli anni '70 alla macchina da salvare. ...

Interagire e non solo guardare: con un paio di trucchi alcuni registi creano da semplici filmati su YouTube dei veri e propri videogame interattivi e gratuiti. Il giocatore decide con un semplice click come continuare. Far arrabbiare la Linea, salvare un'automobilina, ... ecco i migliori giochetti di YouTube sul web.

A CAR'S LIFE - Il filmato animato «A car's life» è il primo della serie ad essere stato pubblicato. Nel primo livello compare una macchina che il giocatore dovrà guidare lungo una stradina, dove parecchi ostacoli bloccano il proseguimento; per evitarli occorre cliccare al momento opportuno (e velocemente) su un pulsante che apparirà per qualche secondo da qualche parte nel video. «Cliccate per salvare l'auto», c'è scritto nella prima clip. La macchinina eviterà di schiantarsi e prendere fuoco e ciò permetterà di passare al livello sucessivo, ovvero a un altro video sul portale per proseguire il gioco su un'altra e più angusta carreggiata.

OTTO LIVELLI - La tecnica del gioco è molto semplice: con l'introduzione delle annotazioni, i creatori hanno dato la possibilità di collegare il video che stiamo visualizzando ad altri presenti sul sito di Google. La funzione dei commenti del portale YouTube viene praticamente usata per uno scopo diverso da quello previsto. Con questo meccanismo è possibile inserire nella finestra video delle «annotazioni», più o meno sensate, mentre la clip viene riprodotta. Otto sono i livelli di «A car's life», realizzato dalla società d'informatica indiana Hexolabs.

«La Linea»
LA LINEA - «La Linea» è conosciuta da tutti: è il personaggio protagonista di un cartone animato degli anni Settanta ideato da Osvaldo Cavandoli che ritroviamo ancora oggi in molti filmati d'epoca sul Web. Il cartone animato è costituito da un uomo che percorre una linea bianca e sottile, virtualmente infinita, di cui anch'esso è parte integrante. Arrabbiato e in un linguaggio «incomprensibile» si rivolge al suo disegnatore che gli mette sempre nuovi ostacoli tra i piedi. L'appassionato filmmaker canadese Patrick Boivin ha realizzato un suo sogno. Un sogno che tutti i fan de «La Linea» hanno avuto almeno per una volta: stuzzicare il disegnatore. Fiori, ascensori, coniglietti, elefanti - questi ostacoli reagiscono in modo del tutto inaspettato - anche per «La Linea».
TUBE ADVENTURES - Lo spagnolo Victor Losa, regista a tempo perso di Madrid, ha sviluppato il gioco d'avventura «Tube Adventures». A differenza dei due precedenti videogame per YouTube questo è assai più elaborato, realizzato con vecchi filmati pescati in rete. Eusebio è il protagonista di questa storia: esce dalla porta di casa per andare a comprare il pane ma dopo pochi metri un vaso gli cade in testa, facendogli perdere la memoria. Inizia così la sua avventura, «Alla ricerca della panetteria», che lo vede impegnato nel tentativo di identificare la strada giusta che lo conduca al negozio. A destra o a sinistra? Anche stavolta è l'utente davanti al pc, sfruttando link, tag e sistemi di commento del portale, a decidere il percorso che Eusebio dovrà fare ogni qual volta si troverà di fronte a un incrocio. Tra i vari finali pensati dai creatori c'è anche quello che prevede la morte del ragazzo, investito mentre attraversa la strada. ...



Elmar Burchia
29 settembre 2008
Corriere della sera

lunedì 22 settembre 2008

Saviano, lettera a Gomorra tra killer e omertà


I RESPONSABILI hanno dei nomi. Hanno dei volti. Hanno persino un'anima. O forse no. Giuseppe Setola, Alessandro Cirillo, Oreste Spagnuolo, Giovanni Letizia, Emilio di Caterino, Pietro Vargas stanno portando avanti una strategia militare violentissima. Sono autorizzati dal boss latitante Michele Zagaria e si nascondono intorno a Lago Patria. Tra di loro si sentiranno combattenti solitari, guerrieri che cercano di farla pagare a tutti, ultimi vendicatori di una delle più sventurate e feroci terre d'Europa. Se la racconteranno così.

Ma Giuseppe Setola, Alessandro Cirillo, Oreste Spagnuolo, Giovanni Letizia, Emilio di Caterino e Pietro Vargas sono vigliacchi, in realtà: assassini senza alcun tipo di abilità militare. Per ammazzare svuotano caricatori all'impazzata, per caricarsi si strafanno di cocaina e si gonfiano di Fernet Branca e vodka. Sparano a persone disarmate, colte all'improvviso o prese alle spalle. Non si sono mai confrontati con altri uomini armati. Dinnanzi a questi tremerebbero, e invece si sentono forti e sicuri uccidendo inermi, spesso anziani o ragazzi giovani. Ingannandoli e prendendoli alle spalle.

E io mi chiedo: nella vostra terra, nella nostra terra sono ormai mesi e mesi che un manipolo di killer si aggira indisturbato massacrando soprattutto persone innocenti. Cinque, sei persone, sempre le stesse. Com'è possibile? Mi chiedo: ma questa terra come si vede, come si rappresenta a se stessa, come si immagina? Come ve la immaginate voi la vostra terra, il vostro paese? Come vi sentite quando andate al lavoro, passeggiate, fate l'amore? Vi ponete il problema, o vi basta dire, "così è sempre stato e sempre sarà così"?

Davvero vi basta credere che nulla di ciò che accade dipende dal vostro impegno o dalla vostra indignazione? Che in fondo tutti hanno di che campare e quindi tanto vale vivere la propria vita quotidiana e nient'altro. Vi bastano queste risposte per farvi andare avanti? Vi basta dire "non faccio niente di male, sono una persona onesta" per farvi sentire innocenti? Lasciarvi passare le notizie sulla pelle e sull'anima. Tanto è sempre stato così, o no? O delegare ad associazioni, chiesa, militanti, giornalisti e altri il compito di denunciare vi rende tranquilli? Di una tranquillità che vi fa andare a letto magari non felici ma in pace? Vi basta veramente?

Questo gruppo di fuoco ha ucciso soprattutto innocenti. In qualsiasi altro paese la libertà d'azione di un simile branco di assassini avrebbe generato dibattiti, scontri politici, riflessioni. Invece qui si tratta solo di crimini connaturati a un territorio considerato una delle province del buco del culo d'Italia. E quindi gli inquirenti, i carabinieri e poliziotti, i quattro cronisti che seguono le vicende, restano soli. Neanche chi nel resto del paese legge un giornale, sa che questi killer usano sempre la stessa strategia: si fingono poliziotti. Hanno lampeggiante e paletta, dicono di essere della Dia o di dover fare un controllo di documenti. Ricorrono a un trucco da due soldi per ammazzare con più facilità. E vivono come bestie: tra masserie di bufale, case di periferia, garage.

Hanno ucciso sedici persone. La mattanza comincia il 2 maggio verso le sei del mattino in una masseria di bufale a Cancello Arnone. Ammazzano il padre del pentito Domenico Bidognetti, cugino ed ex fedelissimo di Cicciotto e' mezzanotte.

Umberto Bidognetti aveva 69 anni e in genere era accompagnato pure dal figlio di Mimì, che giusto quella mattina non era riuscito a tirarsi su dal letto per aiutare il nonno. Il 15 maggio uccidono a Baia Verde, frazione di Castel Volturno, il sessantacinquenne Domenico Noviello, titolare di una scuola guida. Domenico Noviello si era opposto al racket otto anni prima. Era stato sotto scorta, ma poi il ciclo di protezione era finito. Non sapeva di essere nel mirino, non se l'aspettava. Gli scaricano addosso 20 colpi mentre con la sua Panda sta andando a fare una sosta al bar prima di aprire l'autoscuola. La sua esecuzione era anche un messaggio alla Polizia che stava per celebrare la sua festa proprio a Casal di Principe, tre giorni dopo, e ancor più una chiara dichiarazione: può passare quasi un decennio ma i Casalesi non dimenticano.

Prima ancora, il 13 maggio, distruggono con un incendio la fabbrica di materassi di Pietro Russo a Santa Maria Capua Vetere. È l'unico dei loro bersagli ad avere una scorta. Perché è stato l'unico che, con Tano Grasso, tentò di organizzare un fronte contro il racket in terra casalese. Poi, il 30 maggio, a Villaricca colpiscono alla pancia Francesca Carrino, una ragazza, venticinque anni, nipote di Anna Carrino, la ex compagna di Francesco Bidognetti, pentita. Era in casa con la madre e con la nonna, ma era stata lei ad aprire la porta ai killer che si spacciavano per agenti della Dia.

Non passa nemmeno un giorno che a Casal di Principe, mentre dopo pranzo sta per andare al "Roxy bar", uccidono Michele Orsi, imprenditore dei rifiuti vicino al clan che, arrestato l'anno prima, aveva cominciato a collaborare con la magistratura svelando gli intrighi rifiuti-politica-camorra. È un omicidio eccellente che fa clamore, solleva polemiche, fa alzare la voce ai rappresentanti dello Stato. Ma non fa fermare i killer.

L'11 luglio uccidono al Lido "La Fiorente" di Varcaturo Raffaele Granata, 70 anni, gestore dello stabilimento balneare e padre del sindaco di Calvizzano. Anche lui paga per non avere anni prima ceduto alle volontà del clan. Il 4 agosto massacrano a Castel Volturno Ziber Dani e Arthur Kazani che stavano seduti ai tavoli all'aperto del "Bar Kubana" e, probabilmente, il 21 agosto Ramis Doda, venticinque anni, davanti al "Bar Freedom" di San Marcellino. Le vittime sono albanesi che arrotondavano con lo spaccio, ma avevano il permesso di soggiorno e lavoravano nei cantieri come muratori e imbianchini.

Poi il 18 agosto aprono un fuoco indiscriminato contro la villetta di Teddy Egonwman, presidente dei nigeriani in Campania, che si batte da anni contro la prostituzione delle sue connazionali, ferendo gravemente lui, sua moglie Alice e altri tre amici.

Tornano a San Marcellino il 12 settembre per uccidere Antonio Ciardullo ed Ernesto Fabozzi, massacrati mentre stavano facendo manutenzione ai camion della ditta di trasporti di cui il primo era titolare. Anche lui non aveva obbedito, e chi gli era accanto è stato ucciso perché testimone.

Infine, il 18 settembre, trivellano prima Antonio Celiento, titolare di una sala giochi a Baia Verde, e un quarto d'ora dopo aprono un fuoco di 130 proiettili di pistole e kalashnikov contro gli africani riuniti dentro e davanti la sartoria "Ob Ob Exotic Fashion" di Castel Volturno. Muoiono Samuel Kwaku, 26 anni, e Alaj Ababa, del Togo; Cristopher Adams e Alex Geemes, 28 anni, liberiani; Kwame Yulius Francis, 31 anni, e Eric Yeboah, 25, ghanesi, mentre viene ricoverato con ferite gravi Joseph Ayimbora, 34 anni, anche lui del Ghana. Solo uno o due di loro avevano forse a che fare con la droga, gli altri erano lì per caso, lavoravano duro nei cantieri o dove capitava, e pure nella sartoria.

Sedici vittime in meno di sei mesi. Qualsiasi paese democratico con una situazione del genere avrebbe vacillato. Qui da noi, nonostante tutto, neanche se n'è parlato. Neanche si era a conoscenza da Roma in su di questa scia di sangue e di questo terrorismo, che non parla arabo, che non ha stelle a cinque punte, ma comanda e domina senza contrasto.

Ammazzano chiunque si opponga. Ammazzano chiunque capiti sotto tiro, senza riguardi per nessuno. La lista dei morti potrebbe essere più lunga, molto più lunga. E per tutti questi mesi nessuno ha informato l'opinione pubblica che girava questa "paranza di fuoco". Paranza, come le barche che escono a pescare insieme in alto mare. Nessuno ne ha rivelato i nomi sino a quando non hanno fatto strage a Castel Volturno.

Ma sono sempre gli stessi, usano sempre le stesse armi, anche se cercano di modificarle per trarre in inganno la scientifica, segno che ne hanno a disposizione poche. Non entrano in contatto con le famiglie, stanno rigorosamente fra di loro. Ogni tanto qualcuno li intravede nei bar di qualche paesone, dove si fermano per riempirsi d'alcol. E da sei mesi nessuno riesce ad acciuffarli.

Castel Volturno, territorio dove è avvenuta la maggior parte dei delitti, non è un luogo qualsiasi. Non è un quartiere degradato, un ghetto per reietti e sfruttati come se ne possono trovare anche altrove, anche se ormai certe sue zone somigliano più alle hometown dell'Africa che al luogo di turismo balneare per il quale erano state costruite le sue villette. Castel Volturno è il luogo dove i Coppola edificarono la più grande cittadella abusiva del mondo, il celebre Villaggio Coppola.

Ottocentosessantatremila metri quadrati occupati col cemento. Che abusivamente presero il posto di una delle più grandi pinete marittime del Mediterraneo. Abusivo l'ospedale, abusiva la caserma dei carabinieri, abusive le poste. Tutto abusivo. Ci andarono ad abitare le famiglie dei soldati della Nato. Quando se ne andarono, il territorio cadde nell'abbandono più totale e divenne tutto feudo di Francesco Bidognetti e al tempo stesso territorio della mafia nigeriana.

I nigeriani hanno una mafia potente con la quale ai Casalesi conveniva allearsi, il loro paese è diventato uno snodo nel traffico internazionale di cocaina e le organizzazioni nigeriane sono potentissime, capaci di investire soprattutto nei money transfer, i punti attraverso i quali tutti gli immigrati del mondo inviano i soldi a casa. Attraverso questi, i nigeriani controllano soldi e persone. Da Castel Volturno transita la coca africana diretta soprattutto in Inghilterra. Le tasse sul traffico che quindi il clan impone non sono soltanto il pizzo sullo spaccio al minuto, ma accordi di una sorta di joint venture. Ora però i nigeriani sono potenti, potentissimi. Così come lo è la mafia albanese, con la quale i Casalesi sono in affari.

E il clan si sta slabbrando, teme di non essere più riconosciuto come chi comanda per primo e per ultimo sul territorio. Ed ecco che nei vuoti si insinuano gli uomini della paranza. Uccidono dei pesci piccoli albanesi come azione dimostrativa, fanno strage di africani - e fra questi nessuno viene dalla Nigeria - colpiscono gli ultimi anelli della catena di gerarchie etniche e criminali. Muoiono ragazzi onesti, ma come sempre, in questa terra, per morire non dev'esserci una ragione. E basta poco per essere diffamati.

I ragazzi africani uccisi erano immediatamente tutti "trafficanti" come furono "camorristi" Giuseppe Rovescio e Vincenzo Natale, ammazzati a Villa Literno il 23 settembre 2003 perché erano fermi a prendere una birra vicino a Francesco Galoppo, affiliato del clan Bidognetti. Anche loro furono subito battezzati come criminali.

Non è la prima volta che si compie da quelle parti una mattanza di immigrati. Nel 1990 Augusto La Torre, boss di Mondragone, partì con i suoi fedelissimi alla volta di un bar che, pur gestito da italiani, era diventato un punto di incontro per lo spaccio degli africani. Tutto avveniva sempre lungo la statale Domitiana, a Pescopagano, pochi chilometri a nord di Castel Volturno, però già in territorio mondragonese. Uccisero sei persone, fra cui il gestore, e ne ferirono molte altre. Anche quello era stato il culmine di una serie di azioni contro gli stranieri, ma i Casalesi che pure approvavano le intimidazioni non gradirono la strage. La Torre dovette incassare critiche pesanti da parte di Francesco "Sandokan" Schiavone. Ma ora i tempi sono cambiati e permettono di lasciar esercitare una violenza indiscriminata a un gruppo di cocainomani armati.

Chiedo di nuovo alla mia terra che immagine abbia di sé. Lo chiedo anche a tutte quelle associazioni di donne e uomini che in grande silenzio qui lavorano e si impegnano. A quei pochi politici che riescono a rimanere credibili, che resistono alle tentazioni della collusione o della rinuncia a combattere il potere dei clan. A tutti coloro che fanno bene il loro lavoro, a tutti coloro che cercano di vivere onestamente, come in qualsiasi altra parte del mondo. A tutte queste persone. Che sono sempre di più, ma sono sempre più sole.

Come vi immaginate questa terra? Se è vero, come disse Danilo Dolci, che ciascuno cresce solo se è sognato, voi come ve li sognate questi luoghi? Non c'è stata mai così tanta attenzione rivolta alle vostre terre e quel che vi è avvenuto e vi avviene. Eppure non sembra cambiato molto. I due boss che comandano continuano a comandare e ad essere liberi. Antonio Iovine e Michele Zagaria. Dodici anni di latitanza. Anche di loro si sa dove sono. Il primo è a San Cipriano d'Aversa, il secondo a Casapesenna. In un territorio grande come un fazzoletto di terra, possibile che non si riesca a scovarli?

È storia antica quella dei latitanti ricercati in tutto il mondo e poi trovati proprio a casa loro. Ma è storia nuova che ormai ne abbiano parlato più e più volte giornali e tv, che politici di ogni colore abbiano promesso che li faranno arrestare. Ma intanto il tempo passa e nulla accade. E sono lì. Passeggiano, parlano, incontrano persone.

Ho visto che nella mia terra sono comparse scritte contro di me. Saviano merda. Saviano verme. E un'enorme bara con il mio nome. E poi insulti, continue denigrazioni a partire dalla più ricorrente e banale: "Quello s'è fatto i soldi". Col mio lavoro di scrittore adesso riesco a vivere e, per fortuna, pagarmi gli avvocati. E loro? Loro che comandano imperi economici e si fanno costruire ville faraoniche in paesi dove non ci sono nemmeno le strade asfaltate?

Loro che per lo smaltimento di rifiuti tossici sono riusciti in una sola operazione a incassare sino a 500 milioni di euro e hanno imbottito la nostra terra di veleni al punto tale di far lievitare fino al 24% certi tumori, e le malformazioni congenite fino all'84% per cento? Soldi veri che generano, secondo l'Osservatorio epidemiologico campano, una media di 7.172,5 morti per tumore all'anno in Campania. E ad arricchirsi sulle disgrazie di questa terra sarei io con le mie parole, o i carabinieri e i magistrati, i cronisti e tutti gli altri che con libri o film o in ogni altro modo continuano a denunciare? Com'è possibile che si crei un tale capovolgimento di prospettive? Com'è possibile che anche persone oneste si uniscano a questo coro? Pur conoscendo la mia terra, di fronte a tutto questo io rimango incredulo e sgomento e anche ferito al punto che fatico a trovare la mia voce.

Perché il dolore porta ad ammutolire, perché l'ostilità porta a non sapere a chi parlare. E allora a chi devo rivolgermi, che cosa dico? Come faccio a dire alla mia terra di smettere di essere schiacciata tra l'arroganza dei forti e la codardia dei deboli? Oggi qui in questa stanza dove sono, ospite di chi mi protegge, è il mio compleanno. Penso a tutti i compleanni passati così, da quando ho la scorta, un po' nervoso, un po' triste e soprattutto solo.

Penso che non potrò mai più passarne uno normale nella mia terra, che non potrò mai più metterci piede. Rimpiango come un malato senza speranze tutti i compleanni trascurati, snobbati perché è solo una data qualsiasi, e un altro anno ce ne sarà uno uguale. Ormai si è aperta una voragine nel tempo e nello spazio, una ferita che non potrà mai rimarginarsi. E penso pure e soprattutto a chi vive la mia stessa condizione e non ha come me il privilegio di scriverne e parlare a molti.

Penso ad altri amici sotto scorta, Raffaele, Rosaria, Lirio, Tano, penso a Carmelina, la maestra di Mondragone che aveva denunciato il killer di un camorrista e che da allora vive sotto protezione, lontana, sola. Lasciata dal fidanzato che doveva sposare, giudicata dagli amici che si sentono schiacciati dal suo coraggio e dalla loro mediocrità. Perché non c'era stata solidarietà per il suo gesto, anzi, ci sono state critiche e abbandono. Lei ha solo seguito un richiamo della sua coscienza e ha dovuto barcamenarsi con il magro stipendio che le dà lo stato.

Cos'ha fatto Carmelina, cos'hanno fatto altri come lei per avere la vita distrutta e sradicata, mentre i boss latitanti continuano a poter vivere protetti e rispettati nelle loro terre? E chiedo alla mia terra: che cosa ci rimane? Ditemelo. Galleggiare? Far finta di niente? Calpestare scale di ospedali lavate da cooperative di pulizie loro, ricevere nei serbatoi la benzina spillata da pompe di benzina loro? Vivere in case costruite da loro, bere il caffè della marca imposta da loro (ogni marca di caffè per essere venduta nei bar deve avere l'autorizzazione dei clan), cucinare nelle loro pentole (il clan Tavoletta gestiva produzione e vendita delle marche più prestigiose di pentole)?

Mangiare il loro pane, la loro mozzarella, i loro ortaggi? Votare i loro politici che riescono, come dichiarano i pentiti, ad arrivare alle più alte cariche nazionali? Lavorare nei loro centri commerciali, costruiti per creare posti di lavoro e sudditanza dovuta al posto di lavoro, ma intanto non c'è perdita, perché gran parte dei negozi sono loro? Siete fieri di vivere nel territorio con i più grandi centri commerciali del mondo e insieme uno dei più alti tassi di povertà? Passare il tempo nei locali gestiti o autorizzati da loro? Sedervi al bar vicino ai loro figli, i figli dei loro avvocati, dei loro colletti bianchi? E trovarli simpatici e innocenti, tutto sommato persone gradevoli, perché loro in fondo sono solo ragazzi, che colpa hanno dei loro padri.

E infatti non si tratta di stabilire colpe, ma di smettere di accettare e di subire sempre, smettere di pensare che almeno c'è ordine, che almeno c'è lavoro, e che basta non grattare, non alzare il velo, continuare ad andare avanti per la propria strada. Che basta fare questo e nella nostra terra si è già nel migliore dei mondi possibili, o magari no, ma nell'unico mondo possibile sicuramente.

Quanto ancora dobbiamo aspettare? Quanto ancora dobbiamo vedere i migliori emigrare e i rassegnati rimanere? Siete davvero sicuri che vada bene così? Che le serate che passate a corteggiarvi, a ridere, a litigare, a maledire il puzzo dei rifiuti bruciati, a scambiarvi quattro chiacchiere, possano bastare? Voi volete una vita semplice, normale, fatta di piccole cose, mentre intorno a voi c'è una guerra vera, mentre chi non subisce e denuncia e parla perde ogni cosa. Come abbiamo fatto a divenire così ciechi? Così asserviti e rassegnati, così piegati? Come è possibile che solo gli ultimi degli ultimi, gli africani di Castel Volturno che subiscono lo sfruttamento e la violenza dei clan italiani e di altri africani, abbiano saputo una volta tirare fuori più rabbia che paura e rassegnazione? Non posso credere che un sud così ricco di talenti e forze possa davvero accontentarsi solo di questo.

La Calabria ha il Pil più basso d'Italia ma "Cosa Nuova", ossia la ?ndrangheta, fattura quanto e più di una intera manovra finanziaria italiana. Alitalia sarà in crisi, ma a Grazzanise, in un territorio marcio di camorra, si sta per costruire il più grande aeroporto italiano, il più vasto del Mediterraneo. Una terra condannata a far circolare enormi capitali senza avere uno straccio di sviluppo vero, e invece ha danaro, profitto, cemento che ha il sapore del saccheggio, non della crescita.

Non posso credere che riescano a resistere soltanto pochi individui eccezionali. Che la denuncia sia ormai solo il compito dei pochi singoli, preti, maestri, medici, i pochi politici onesti e gruppi che interpretano il ruolo della società civile. E il resto? Gli altri se ne stanno buoni e zitti, tramortiti dalla paura? La paura. L'alibi maggiore. Fa sentire tutti a posto perché è in suo nome che si tutelano la famiglia, gli affetti, la propria vita innocente, il proprio sacrosanto diritto a viverla e costruirla.

Ma non avere più paura non sarebbe difficile. Basterebbe agire, ma non da soli. La paura va a braccetto con l'isolamento. Ogni volta che qualcuno si tira indietro crea altra paura, che crea ancora altra paura, in un crescendo esponenziale che immobilizza, erode, lentamente manda in rovina.

"Si può edificare la felicità del mondo sulle spalle di un unico bambino maltrattato?", domanda Ivan Karamazov a suo fratello Aljo?a. Ma voi non volete un mondo perfetto, volete solo una vita tranquilla e semplice, una quotidianità accettabile, il calore di una famiglia. Accontentarvi di questo pensate che vi metta al riparo da ansie e dolori. E forse ci riuscite, riuscite a trovare una dimensione in cui trovate serenità. Ma a che prezzo?

Se i vostri figli dovessero nascere malati o ammalarsi, se un'altra volta dovreste rivolgervi a un politico che in cambio di un voto vi darà un lavoro senza il quale anche i vostri piccoli sogni e progetti finirebbero nel vuoto, quando faticherete ad ottenere un mutuo per la vostra casa mentre i direttori delle stesse banche saranno sempre disponibili con chi comanda, quando vedrete tutto questo forse vi renderete conto che non c'è riparo, che non esiste nessun ambito protetto, e che l'atteggiamento che pensavate realistico e saggiamente disincantato vi ha appestato l'anima di un risentimento e rancore che toglie ogni gusto alla vostra vita.

Perché se tutto ciò è triste la cosa ancora più triste è l'abitudine. Abituarsi che non ci sia null'altro da fare che rassegnarsi, arrangiarsi o andare via. Chiedo alla mia terra se riesce ancora ad immaginare di poter scegliere. Le chiedo se è in grado di compiere almeno quel primo gesto di libertà che sta nel riuscire a pensarsi diversa, pensarsi libera. Non rassegnarsi ad accettare come un destino naturale quel che è invece opera degli uomini.

Quegli uomini possono strapparti alla tua terra e al tuo passato, portarti via la serenità, impedirti di trovare una casa, scriverti insulti sulle pareti del tuo paese, possono fare il deserto intorno a te. Ma non possono estirpare quel che resta una certezza e, per questo, rimane pure una speranza. Che non è giusto, non è per niente naturale, far sottostare un territorio al dominio della violenza e dello sfruttamento senza limiti. E che non deve andare avanti così perché così è sempre stato. Anche perché non è vero che tutto è sempre uguale, ma è sempre peggio.

Perché la devastazione cresce proporzionalmente con i loro affari, perché è irreversibile come la terra una volta per tutte appestata, perché non conosce limiti. Perché là fuori si aggirano sei killer abbrutiti e strafatti, con licenza di uccidere e non mandato, che non si fermano di fronte a nessuno. Perché sono loro l'immagine e somiglianza di ciò che regna oggi su queste terre e di quel che le attende domani, dopodomani, nel futuro. Bisogna trovare la forza di cambiare. Ora, o mai più.

Copyright 2008
by Roberto Saviano
Published by arrangement
of Roberto Santachiara
Literary Agency

(22 settembre 2008) La Repubblica


domenica 21 settembre 2008

NON LAVATE QUESTO SANGUE

Oggi sono di nuovo venuti a perquisire il Centro stampa del Gsf. Dentro non c'era quasi più nessuno. Hanno sequestrato qualcosa, cassette floppy disk, poi hanno evaquato il palazzo e messo i sigilli. La scuola di fronte, invece, la Diaz, è ancora aperta. E' tutto li come lo hanno lasciato stanotte. C'è solo un cartello, di nuovo. E' un pezzo di cartone scritto col pennarello, in inglese:"per favore, non lavate questo sangue". E' attaccato con lo scotch a un mobiletto di metallo, sopra la chiazza più grande di sangue rappreso. "Please, don't clean up the blood". E anche quando sarà sparito, perchè lo laveranno un giorno, ricordatevi com'era.
(Da Non lavate questo sangue di Concita De Gregorio)

lunedì 15 settembre 2008

No, l'avete fatto voi

A mezzogiorno Francesco Besio stende le sue mutande. Abita all'ultimo piano del palazzo di fronte a Palazzo Ducale. Lavora in una società di ingegneria, fa il ricercatore: apparecchiature biomediche. E' stato assessore. Diciassette paia di mutande, boxer e slip. In strada, dietro le transenne, c'è Stefano, uno dei suoi due figli. A chi è venuta l'idea delle mutande? "A Berlusconi", ride lui. Risponde così, come Picasso al soldato che gli chiedeva di Guernica: questo l'ha fatto lei? No, l'avete fatto voi. (Da Non lavate questo sangue di Concita De Gregorio)

venerdì 12 settembre 2008

E ora il sole illumina la caccia alle balene


di PAOLO RUMIZ (terza parte)
YELLOWKNIFE (Canada) - "Il mio bisnonno disse a mio padre: ragazzo, un giorno l'Alaska diverrà Hawaii e le Hawaii diverranno Alaska. Il mondo si rovescerà, il freddo diventerà caldo e il caldo diventerà freddo. Il vecchio sapeva quello che diceva, perché così raccontavano i suoi antenati da generazioni. Ma mai avrebbe pensato che sarebbe toccato a suo pronipote vedere una cosa simile. Invece è successo. Sta succedendo. Ora, qui, davanti ai miei occhi".
IL VIDEORACCONTO

Nevica a poche ore dalla partenza per il Canada e il passaggio a Nord-Ovest; dal Mar Glaciale Artico un sipario umido è sceso sulla tundra nuda e senza ripari, enormi spartineve hanno già acceso i motori sulla pista dell'aeroporto, ma Henry Kignak, 46 anni e sette figli, capitano baleniere sulla costa più settentrionale del Nord America non si fa impressionare da quello che considera un temporaneo incrudimento del clima. Guarda fuori dal garage pieno di arpioni e teschi di tricheco, stringe gli occhi a mandorla e sorride. Sorridono sempre i popoli artici, anche di fronte alle catastrofi. È il loro modo di arrendersi a una natura più forte.

"Settembre... la mia famiglia ha generazioni di balenieri alle spalle, e so che per i miei vecchi questo era già un mese freddissimo, la caccia non iniziava mai più tardi di questi giorni... ora invece cominciamo ai primi di ottobre perché le balene restano sempre più a lungo e il mare è sempre più tiepido". Ma il mestiere continua, ci tiene a dirlo, sempre con le stesse regole, è un rito che si perpetua per garantire la continuità del mondo. Le balene ci sono, anzi, negli ultimi anni sono aumentate, ne sono passate dodicimila nell'ultima stagione, e capitan Kignak continua a prendere il timone ogni primavera e autunno.

Gli uomini del nord Alaska affrontano i leviatani con dei gusci di noce. Una scialuppa di legno - 6 metri per 1,20! - coperta di pelle di foca nel mese di maggio, quando la banchisa è ancora attaccata alla terraferma e la barca deve essere spinta per miglia fino in mare aperto; e un piccolo motoscafo a settembre-ottobre con a bordo sei persone al massimo, un ramponiere, quattro uomini per le manovre e lui, il capitano; "whaling captain" Kignak.

Henry accarezza il rampone, lo impugna, sale sulla barca, mostra come si affonda nella nuca della balena, scende, lo smonta, ne estrae l'arpione e il percussore che con una piccola carica spara il colpo fatale. "Amo tutto questo, me l'hanno insegnato e io lo insegno ai miei figli, anche loro saranno capitani, anche loro dovranno svegliare i loro uomini nel grande momento, quando tutto il villaggio scende a mare "Hurry up! Hurry up!"... e poi via in mare aperto... ah, la caccia primaverile è magnifica, si sta al largo per quindici giorni senza quasi dormire, sempre su quella barchetta, con una tendina per assopirsi ogni tanto su un banco di ghiaccio... amico mio, qui non si torna a riva senza la preda".

Ha figlie bellissime capitan Kignak, cinque femmine occhi nerissimi e capelli color ebano e bronzo lunghi fino alla vita, e sua moglie dice che cinque è il numero giusto: cinque cuoche per la carne di balena e tricheco, così i maschi possono fare il capitano e il ramponiere. Le donne del grande nord possiedono una femminilità quieta e un'astuzia imbattibile, qualità entrambe necessarie a coabitare con questa razza di maschi cacciatori. "Anche mio padre - dice lei - era un capitano e ha ucciso trentasei balene, poi si è fermato. Suo padre era arrivato a trentacinque e a lui è bastato superarlo di una".

È arrivato il tempo di partire, regalo un mio vecchio berretto di lana al capitano ricevendo in cambio un portachiavi di pelo di orso bianco, e corro in aeroporto in un turbinio di neve. Aeroporto, si fa per dire: arrivi e partenze dell'unico aereo da e per il resto del mondo concentrano le operazioni passeggeri in un'unica stanza surriscaldata di 20 metri per 20, stipata di personaggi rudi, vestiti alla buona, di stazza superiore alla media. Cacciatori, pescatori, balenieri, viaggiatori di terre estreme. L'aereo è metà cargo e metà passeggeri, dalla stiva escono su un nastro trasportatore tonnellate di verdura fresca per le navi rompighiaccio in missione al largo.

Mi trovo nell'ultima fila del sedile di mezzo, schiacciato fra un tipo gigantesco di almeno due quintali che si addormenta all'istante, e un anziano e grintoso geofisico israeliano di nome John Kroll, che comincia a raccontarmi aneddoti sulla sua vita in mare tra gli iceberg. Negli anni Sessanta, quando ancora il Polo non si scioglieva, ha navigato per tredici mesi e mezzo a bordo di una delle isole di ghiaccio più grandi della terra, Fletchers Ice Island si chiamava, sulla quale gli americani avevano impiantato una base dell'Air Force, e che poi si sciolse negli anni Ottanta disperdendo in mare centinaia di tonnellate di equipaggiamenti e migliaia di barili di petrolio. L'uomo giusto, penso, con la memoria lunga necessaria a capire il riscaldamento climatico.

Gli chiedo cosa pensa di quello che succede. Lui: "Semplice, il pack si è ridotto della metà. Meno esteso d'estate e meno profondo d'inverno. Il ghiaccio vecchio sta scomparendo, tende a rimanere solo quello nuovo. Ormai si naviga dappertutto. Le navi con il gas siberiano attrezzate per i ghiacci, si spostano anche d'inverno tra le foci del fiume Ob e il Mar Bianco. Le navi da crociera sbarcano migliaia di turisti in Groenlandia, si infilano nel passaggio a Nord-Ovest. E le Isole Svalbard stanno diventando le Canarie".
Le Svalbard le Canarie! Ma non è la stessa cosa che ha detto il baleniere a proposito dell'Alaska e delle Hawaii? È impressionante come nei grandi eventi la memoria leggendaria di un popolo e la ricerca possano arrivare alle stesse conclusioni. Gli eschimesi ci arrivano col mito dell'eterno ritorno, la visione ciclica della vita per cui tutto ricomincia da capo, al freddo deve succedere il caldo e al caldo è destinato fatalmente a succedere il freddo. Gli scienziati ci arrivano attraverso l'osservazione, ma la differenza non è poi tanta, sorride Kroll: "Un aneddoto diventa una storia, ma tre aneddoti sono una teoria scientifica". Davvero il caldo si sposta a nord? "Certamente - risponde l'israeliano - l'energia solare dell'Artico è diventata più forte di quella dei Tropici. Con il sole stai in camicia anche al Polo".

E intanto, mentre la leggenda eschimese delle Hawaii trova autorevole e illuminata conferma, l'aereo atterra a Prudhoe Bay, uno dei campi petroliferi più a nord del mondo, per riempirsi di personaggi ancora più estremi, muscolosi, tatuati e iperattivi dai colli taurini talvolta addirittura più larghi della testa. Il gigante accanto a me s'è svegliato e anche lui comincia a raccontare. Una vita in villaggi fuori mano a fare tutti i mestieri. Ora viene da Kaktovik, uno degli ultimi paesi prima della costa canadese sull'Artico, in acque più fredde in queste ore è già iniziata la caccia alla balena. Conferma che la febbre della terra è entrata anche nella sua vita. Racconta degli orsi bruni, i grizzly, che a causa del caldo si spingono sempre più a nord e cacciano dalla costa gli orsi bianchi, i quali a loro volta, per lo sciogliersi dei ghiacci, vedono ridursi giorno per giorno i loro territori di caccia. "Gli orsi bianchi sono feroci - ride - ma le assicuro che l'orso bruno è molto peggio".

A Fairbanks non c'è ombra di neve, i colori sono ancora quelli di fine estate; sembra che la stagione voglia spremere dal paesaggio tutti i possibili languori della stagione: il giallo oro delle foglie di betulla, il rosso delle brughiere, il blu dei laghi, il bianco del monte MacKinley sullo sfondo. Un nuovo passeggero sostituisce il gigante e mi racconta che i migratori non sono ancora partiti da lì, sono già in ritardo di dieci giorni sul 2007. Due notti prima c'è stata un'aurora boreale fuori stagione, con verdi festoni nel cielo stellato, e proprio quel mattino l'alba ha fatto esplodere nel cielo colori caraibici dall'arancio al violetto.

Bisogna scendere maledettamente a sud, fino a Seattle, per poter poi risalire nel cuore artico del Canada, e a Seattle la fauna aeroportuale cambia di nuovo, drammaticamente. Spariscono i cacciatori, i "trappers" con i loro zaini giganteschi, ed entrano in scena le truppe metropolitane con le loro donne iper-eccitate dalla voce nasale, le loro arie condizionate e i loro sprechi di ogni tipo. Tutto quello che distrugge l'Artico ce l'ho improvvisamente davanti, tra il Pacifico e le Montagne rocciose, nell'ultimo west americano.

Da qui, tempeste di neve permettendo, saliremo a settentrione verso il punto più segreto del passaggio a Nord-Ovest, l'isola di re William dove Roald Amundsen si fermò per due inverni dopo aver superato la parte più difficile dell'arcipelago canadese. Accadde in un porto degli Inuit che fu battezzato "Gjoa", come la piccola nave dell'esploratore scandinavo. È lì il "diaframma", il punto - chiave dove il nuovo clima ha definitivamente aperto la circumnavigazione polare. Imbarcandoci, su un giornale troviamo un'ultima notizia: "I ghiacci della California stanno crescendo". L'ultima conferma che l'eschimese aveva ragione.


mercoledì 10 settembre 2008

Assediati dagli orsi bianchi nel paese del ghiaccio che si ritira


Paolo Rumiz tra le ossa di balena a Barrow
Di Paolo Rumiz (seconda parte)
IL VIDEORACCONTO
CAPO BARROW (ALASKA) - Da quando la banchisa si è allontanata dalla costa, Nuvuk ha dovuto convivere con gli orsi. Orsi bianchi, s'intende, che non vanno mai in letargo; armadi ambulanti pronti a divorarsi un uomo. Le tribù Inuit di qui l'hanno imparato velocemente, perché li conoscono da sempre. Succede che Nuvuk è il villaggio più settentrionale degli Stati Uniti e, in assenza delle loro comode piattaforme da caccia in mare, i bestioni hanno invaso la terraferma, con l'odore del cibo che li attira fatalmente verso l'abitato.

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Per capire, basta ascoltare la radio. Non c'è mattina che non si senta un bollettino-orsi, spesso con aggiornamenti in serata sullo spostamento dei medesimi. Sulle lunghezze d'onda dell'Artico sentirete lo stato d'assedio più surreale che si possa immaginare. "Segnalato un orso nei dintorni del grocery store in zona aeroporto..."; "Attenzione a ovest del City Hall avvistato un adulto pericoloso nella zona delle paludi..."; "Carcassa di balena spiaggiata a Nordest di Browerville, un branco di sette orsi la sta divorando, restare a distanza prudenziale...".

Qui, al mattino, nessuna madre sensata lascerebbe andare a scuola i figli senza avere sentito la radio. Ma anche così nessuno si fida: i genitori si tengono i bambini sempre appresso, a bordo di robusti scooter a quattro ruote, che sfrecciano ovunque con gran polverone. "Attento agli orsi", mi hanno detto due indigeni vedendomi girare da solo. Scherzavano, ma mica tanto.

Ovviamente, vietato allontanarsi a piedi senza un fucile. E non dev'essere nemmeno un fucile qualunque. Con gli orsi bianchi, per fermarli, hai bisogno di un cannone a proiettili esplosivi. Se non gli apri un buco nella pancia non smettono di caricare. Dappertutto, nei posti pubblici, hai cartelli che dicono cosa fare "nel caso che". Primo, stai sempre in guardia. Secondo, stai lontano dal cibo. Terzo, portati un'arma. Quarto, non metterti tra una mamma e i suoi cuccioli. Quinto, se si avvicina non correre, e cerca di sembrare più alto agitando la tua giacca sopra la testa. Parola del servizio orsi, telefonare al 907.852611.

L'altra sera, tornando a casa completamente solo, sentivo solo lo scalpiccio delle mie scarpe sulla ghiaia e la paura dell'orso mi ha preso. Quella cosa bianca come un fantasma, enorme e metafisica, era entrata in me. A ogni angolo sentivo che potevo trovarmelo di fronte e cercavo istintivamente (e inutilmente) un posto dove arrampicarmi. Nuvuk è un posto estremo, uno dei posti della Terra dove, come Murmansk e Kirkenes nel Nord della Scandinavia, puoi sentire il Polo quasi dall'odore.

Arrivo qui e trovo subito vento forte, nubi basse che rotolano sulla tundra, una pioggia gelata che punge le guance come aghi. Il paese è fatto dall'aeroporto con accanto un reticolo di case alla buona, strade rotte dal gelo e acquitrini coperti d'erba rossastra. Poi una spiaggia funebre, di ghiaia color antracite, disseminata di ossa di balena, con dietro uno spazio sterminato, dalla nudità mongolica, vuoto di tutto tranne che d'acqua, che ristagna in superficie con migliaia di laghi. Davanti, il nulla. Fino al Polo, solo mare aperto. Milleottocento chilometri senza barriere, arcipelaghi, isole.

Nuvuk, in inglese Barrow, è un villaggio eschimese di cacciatori di balene, forse il più antico del Nordamerica assieme a quello, poco distante, di Point Hope. Il fronte della banchisa è da qualche parte al largo - a trecento miglia dicono i satelliti - e nessuno sa quanto velocemente si avvicinerà alla costa quando la temperatura precipiterà a meno quaranta e oltre. D'estate il ghiaccio arretra, certo. Ma d'inverno - lo dicono sempre i satelliti - il freddo e l'estensione dei ghiacci sono ancora quelli di una volta. Intanto il paese con le sue tremila anime aspetta le tempeste d'autunno e la notte del solstizio, che qui durerà ottantotto giorni di fila.

"Vai a Barrow - mi ha esortato l'oceanografo Tom Weingartner dell'università di Fairbanks mostrando i diagrammi della calotta polare in zona alascana - è un punto-chiave per misurare il nuovo clima". L'ultima volta che il ghiaccio ha toccato questa costa in tempo d'estate è stato nel 1994. Da allora la banchisa non ha fatto che arretrare nella bella stagione. La conferma è arrivata subito. A casa degli Elbert, la famiglia che mi ospita, trovo un grosso libro dal titolo "Balene, ghiaccio e uomini", che mostra stampe e foto di velieri stritolati dai ghiacci in questa stessa stagione, inizio settembre; e ciò in anni in cui la banchisa era stabilmente più vicina alla costa. Scene, mi avvertono, inimmaginabili oggi.

Qui era l'ultima tenaglia tra la costa e i ghiacci, ed è qui che un secolo fa Roald Amundsen capì di aver compiuto il Passaggio a Nordovest. Dopo l'arcipelago a Nord del Canada, per completare la strada al norvegese non restava che arrivare a questo punto, dove la rotta l'avrebbe portato a Sudest in acque più sicure, fino allo stretto di Bering. Il lungo tratto di costa quasi rettilinea tra la foce del MacKenzie e questo solitario promontorio era l'ultima incognita. Per passare, Amundsen aveva davanti un interminabile e strettissimo canale tra i ghiacci e il continente, un sandwich che poteva richiudersi in ogni momento, ma ne venne fuori grazie alla fortuna e al bel tempo.

Che posto. Altro che New Bedford e Nantucket. Lì non è rimasto più niente delle storie narrate da Melville. Se volete svernare in rudi taverne d'angiporto e incontrarvi gente drogata dal Polo, farvi servire al bancone una tortilla dalla settantenne Fran Tate, ex attrice ancora fru-fru con un enorme fiocco bianco in cima ai capelli, se volete incontrare ramponieri e capitani pieni di storie da raccontare, allora dovete venire a Nuvuk, dove la caccia alla balena si svolge ancora, con la partecipazione di tutto il paese, a maggio e a fine settembre. Per capirlo basta farsi un giretto e guardare cosa gli eschimesi lasciano fuori dalle loro case.

Vertebre di balena, pinne caudali accatastate accanto a copertoni, barili di petrolio e slitte di legno deformate dal gelo; rostri, pesanti come piombo, accanto a jeep dalle gomme sgonfie; mascelle gigantesche e costole grandi come due uomini adulti abbandonate all'aperto fra marmitte arrugginite e resti di motoslitte. Enormi scheletri di pinne caudali, cioè di zampe posteriori, giacciono impolverati nei cortili tra topolini muschiati e lemming - specie di scoiattoli rossastri a coda corta - che ti passano tra i pedi come saette.

E poi teste cornute di caribù, lasciate a frollare al vento e alla pioggia, ti guardano con l'occhio spento tra le costole di barche in disuso; e poi ancora pelli di lupo accatastate, carne appesa a stagionare su ganci in cima ai tetti accanto alle antenne paraboliche; accanto alle porte, stinchi di non so che animale, cui è stata appena spellata la bistecca. E radici di alberi portati dalle correnti del Pacifico, l'unico legname che esiste in questo mondo senza vegetazione; radici venute da chissaddove, Honolulu, Patagonia, California, Cina.

Davanti agli uffici pubblici l'esposizione dei trofei è solo abbellita da scritte e piedistalli. Per il resto, una modernità divorata dal tempo convive disinvoltamente con questa biblica rappresentazione dell'eterno. Qui, dove non cresce niente e la caccia e la pesca sono l'unica risorsa, gli animali - in prima fila la balena - diventano simboli e totem. Le loro ossa sono state per millenni anche l'unico materiale edilizio. Quindi le carcasse vanno esposte, non nascoste come farebbero gli "yankee", che ci leggono solo macelleria.

A prima vista, Barrow sembra prendere sotto gamba il mare più pericoloso del mondo. L'argine sulla riva è ridicolo, tre metri appena, fatto di sacchi di ghiaia. Cosa succederà con le tempeste e i ghiacci, si chiede il visitatore. Il fatto è che i ghiacci, una volta stabilmente insediati sopra la massa marina, la comprimono, spegnendo la forza di propagazione delle onde. Una coperta stabile di ghiaccio è essenziale come riparo contro le buriane costiere. Per questo l'inverno, a queste latitudini, è paradossalmente, una stagione nettamente meno pericolosa dell'autunno, quando i ghiacci vanno in collisione e possono schiacciare qualsiasi cosa che galleggia.

Finora è stato così. Finora... Chissà quando sarà visibile la bianca fatamorgana in fondo all'orizzonte. Passo lunghi minuti sulla spiaggia davanti al Browers Caffè, dove hanno piantato enormi costole di balena a mo' di monumento, e guardo al largo per immaginare quel momento; che arriva, dicono, sempre di sorpresa.

Qui capita di andare a dormire in una sera brumosa di pioggia e la mattina il termometro è a meno venti, poi davanti appare una stratificazione orizzontale con tutte le tonalità del grigio. Mare, nebbia, nubi, riflesso pallido del sole. In mezzo, una linea bianca. I ghiacci. In dieci minuti passi dagli zero gradi al pack; e la gente, che lo sa, non esce mai di casa senza vestiti caldi di riserva, guanti grossi, cappello di pelliccia. "Arctic is a wild place", l'Artico è un posto selvaggio, ammoniscono. E tu ti chiedi cosa sarà a meno cinquanta.

martedì 9 settembre 2008

Viaggio nel Polo che si sciogle


IL VIDEORACCONTO
Di Paolo Rumiz (prima parte)
Nulla. Solo un mite spazio grigio-azzurro dai riflessi opalini, sovrastato da vapori biancastri, piallato così regolarmente dal vento che potrei veder emergere il naso di un tricheco a un miglio di distanza. Eccola la finestra che s'è aperta nel Polo con la grande febbre della Terra. Mai così visibile come ora, mai come da questo punto, l'ultima Thule, il promontorio più settentrionale della terraferma americana.
Qui pochi anni fa, anche in questi giorni di fine estate, la linea della banchisa non spariva mai dall'orizzonte, era sempre visibile prima che cominciasse la sua implacabile manovra a tenaglia verso il continente.
Il gelo era sempre lì, pronto a richiudersi. Se il tempo peggiorava, capitava che nella prima metà di settembre le baleniere ritardatarie naufragassero a poca distanza dalla riva in un'apocalittica collisione di ghiacci. Ora è tutto finito. Il mare si ricompatta sempre più tardi, in modo sempre meno prevedibile, e agli uomini della stazione scientifica polare che svernano in questo villaggio sperduto non resta che monitorare, più che una silenziosa ritirata, una fuga precipitosa. Duecento, trecento, quasi trecentocinquanta chilometri in pochi anni.

Ma la nostra storia comincia altrove, molto più a Ovest, sullo stretto di Bering, alle sette del mattino, in un freddissimo giorno di vento forte da Ovest. Inizia con un'alba svogliata che si fa strada agli antipodi del mio mondo, aprendo squarci blu come bolle d'inchiostro dentro una banchisa di nubi ferme, simili a una coperta funebre. È quello il Finis-terrae da cui parte il nostro viaggio ai margini del Polo che si scioglie fino al mitico Passaggio a Nordovest. Alle spalle c'è l'Alaska - penisola di Seward - punto estremo delle Americhe. Davanti, oltre la luce intermittente di un faro, la Siberia ancora immersa nella notte. A Sud il Pacifico, l'acqua di mezzo planisfero terrestre che imbocca con spaventose correnti il varco di cinquanta miglia che lo separa dal Mare artico.

Il Polo è diventato circumnavigabile dopo centomila anni, i ghiacci si sciolgono, da qualche giorno - e forse solo per qualche istante - il Passaggio a Nordest e quello a Nordovest si sono aperti in simultanea, ma è sul secondo - quello di gran lunga più difficile tra Il Canada e la Groenlandia - che s'è rotto l'ultimo diaframma. È su questo itinerario maledetto che, in un labirinto di isole e ghiacci, nell'agosto 1845 il capitano John Franklin scomparve con due grandi navi e un equipaggio di centocinquanta uomini, ed è verso quel punto che tenteremo di andare, toccando alcuni punti chiave della traversata, nell'ultimo varco di bel tempo che ancora rimane all'emisfero boreale.

Tutto si capovolge nello stretto di Bering. L'ora del tuo orologio, la notte che diventa giorno, la data che cambia agli antipodi di Greenwich. E poi la Russia che qui sta a Occidente, l'America che diventa Oriente, e l'Europa - capovolta! - che si scopre a Nord, oltre la calotta polare e le isole Svalbard, sulla rotta dei jet intercontinentali. Tutto si inverte e tutto finisce: gli oceani; il nuovo e il vecchio mondo che qui sembrano navigare come incrociatori in rotta di collisione; il passaggio a Nordest e quello a Nordovest che confluiscono, simultaneamente liberi dalla banchisa. Al primo chiarore scopro che il mare non c'è, lo stretto è coperto da un altro mare, un mare fatto di bruma, una grigia decalcomania delle superfici oceaniche che ribollono di sotto.

In mezzo a questa prateria lattiginosa, venti-trenta miglia al largo, sbucano due montagnole, come monconi di un ponte bombardato, ferme nella corrente. Le Isole Diomede, vicinissime tra loro: una russa, più grande e piatta, e una americana, più piccola e irregolare. In quel punto la nebbia s'ispessisce verso Ovest, diventa bambagia densa come il piumaggio delle oche, causa il freddo siberiano che lambisce la costa e incontra l'umido del Pacifico.

Una grande nave da carico, nera, ispida di ponteggi e sollevatori, esce da Capo Prince of Wales, fende il mare controcorrente lungo la costa alaskana, scende verso le Isole Aleutine. "Viene da Kivalina, 150 miglia a Nordest, dove sta la più grande miniera di zinco del mondo" spiega Tim, la mia guida, un tipo lungo nato sulla costa Est. "Il traffico è continuo, la ditta porta via tutto quello che può prima che quei fottuti ghiacci chiudano di nuovo gli stretti", brontola sputando semi di zucca.

Ha appena smesso di fumare, e i semi sono la sua sola consolazione. "Poi, a fine ottobre si ferma tutto. Gli Stretti chiudono baracca".

Intanto, dice con un lieve tono di commozione, arriveranno le balene. Molleranno i loro pascoli estivi nel Nord dell'Alaska, dove tutte le correnti si mescolano generando pazzesche concentrazioni di plancton, e per fine settembre doppieranno Point Hope, il promontorio giusto a settentrione della penisola di Seward, dove si possono vedere quasi sotto riva, e scenderanno controcorrente nel Pacifico. Tim sa quasi a memoria i libri di London, Konrad o Melville, e lancia al vento oscuri presagi. "Big changes are going on, amico mio", mutamenti biblici sono in corso tra gli uomini e nella natura. Poi allarga le braccia per dire che nessuno ha la minima idea di dove il clima porterà la Terra Madre.

Dura arrivare fin qui; solo l'aereo collega le Terre estreme al resto del mondo. Niente strade, niente alberghi, persino la mappa si desertifica, perde la densità di nomi in un mondo dove pure i cercatori d'oro hanno battezzato ogni rigagnolo. Ci si lascia alle spalle l'Alaska coperta di foglie gialle, immersa nella luce della placida estate indiana, e subito verso la costa il paesaggio si imbarbarisce. Vento forte, freddo, colline coperte di abeti anemici, paludi già pronte al rigelo, un terreno che sotto il metro di profondità resta un blocco ghiacciato anche d'estate. Alla fine, una brughiera nuda scende verso la costa cui s'aggrappano ispidi villaggi eschimesi, chiusi come ostriche al resto del mondo. Qua e là, basi militari - Tin City, Point Hope, Cape Lisburne - con le bandiere stellate al vento, ancora in allerta per una guerra fredda che può ricominciare.

"Posti per duri", mi ha avvertito Hajo Eicken, giovane luminare dell'università di Fairbanks che sta monitorando la febbre terrestre attraverso la fusione dei ghiacci marini. "Laggiù è illusorio muoversi senza una guida e senza essersi annunciati con anticipo alla comunità tribale. Ti ignoreranno". Difatti mi ignorano. Nei villaggi costieri tra Teller e l'aeroporto di Nome, non ottengo risposta a nessuna domanda. Buongiorno. Silenzio. Sono italiano. Silenzio. Ti guardano con gli occhi a mandorla chiusi a fessura, poi continuano a fare le loro cose.

A Singigyak, a Sinuk, stessa musica. Hajo ha ragione, per gli eskimo sono solo un ficcanaso. Niente da mangiare, un posto per dormire non esiste; devo tornare a Fairbanks in giornata. Ma la visione degli Stretti avvolti nella bruma siberiana è sufficiente a capire la partita in gioco su questo tratto di mare che potrebbe diventare il Canale di Suez di domani.
Basta un po' d'immaginazione. L'anno scorso il minimo storico dei ghiacci s'è registrato la seconda settimana di settembre.

Ora, mi ha detto sempre Eicken davanti alla mappa satellitare che radiografa ora per ora l'estensione del Polo, "questo record potrebbe essere battuto". Se è vero, lo sapremo a giorni. E se continua così, è chiaro fin d'ora che le rotte del domani, saldandosi su questo stretto oceanico, potranno far risparmiare al trasporto marittimo mondiale migliaia di miglia e milioni di barili di petrolio.

L'accesso alle acque polari è largo sull'Atlantico, occupa tutto lo spazio tra Groenlandia e Scandinavia, e non genera bagarre tra le nazioni. Qui, invece, dove il varco è minimale, si concentrano enormi conflitti di interessi. Russia e Canada, i due grandi Paesi con coste artiche, hanno in mano le chiavi delle due rotte circumpolari, e gli Stati Uniti sono nervosi per il fatto di dover dipendere dalle compiacenza altrui. Nervosi soprattutto col Canada, che ha avuto l'ardire di ispezionare navi americane in transito, e nel 2005 ha subito per ritorsione lo smacco di vedersi passare sotto il naso sommergibili Usa in acque artiche di sua competenza. Passaggio ovviamente non annunciato. È qui in Alaska, più che in Texas, che si misura la fame energetica americana.

Qui, in uno stato al settanta per cento repubblicano che spazzerebbe via orsi polari, balene, renne e foche per un solo barile di petrolio in più. "Drill, drill, drill!", Trivella, trivella, trivella, è stato il grido delle truppe repubblicane alla convention di Saint Louis che ha incoronato, accanto al candidato presidente John McCain, la sua vice Sarah Palin, governatrice dello stato più settentrionale degli Usa. Era un grido che partiva dalle compagnie petrolifere che lavorano in Alaska, e ovviamente aspettano la liquefazione dei Poli per mettere le mani sulle ultime risorse.

Non è ambientalista l'Alaska, e i democratici lo sanno bene. "We are terrified by her", siamo terrorizzati da questa donna, dichiarano ai giornali locali i pochi partigiani di Obama. Gli orsi polari stanno sparendo, ma la signora Palin ha fatto recentemente ricorso contro la decisione federale di schedarli come specie a rischio di estinzione. Motivo non detto: la tutela della vita animale limiterebbe la libertà dei trivellatori. "La sua filosofia è tagliare, uccidere, scavare e trivellare", parola di John Toppenberg, direttore dell'Alaska Wildlife Alliance.

In Mediterraneo la fine dell'estate genera dolci malinconie. Qui ti squarcia l'anima di angoscia. Nelle terre estreme dello spazio iperboreo la discesa del sole s'accompagna a una grande fuga che ti fa sentire l'ultimo sopravvissuto di una catastrofe nucleare. Partono i pensionati verso la Florida, partono i turisti; i cacciatori e i pescatori tengono duro ancora due-tre settimane al massimo, per sparire anch'essi alla prima tempesta di neve. Ma se ne vanno soprattutto i migratori.

Sulle brughiere che fanno da scenario alle correnti oceaniche di Bering la smobilitazione è già iniziata. Il cielo è segnato ovunque da squadriglie di oche, anatre, gru, e Sand Pipers (bestiole trampoliere dal becco lungo a canna di flauto, di cui non trovo il nome italiano) che vanno in formazione verso il Sudovest dell'Asia e il Sudest dell'America. Alcuni dall'Alaska vanno fino in Australia e altri dalla Siberia tagliano verso il Texas, costruendo sul cielo di Bering delle grandi "X" con l'incrocio delle loro rotte transoceaniche.

Vanno e ti strappano il cuore, mentre il freddo comincia e la linea bianca dei ghiacci si prepara a invertire il suo movimento tornando a Sud. Gli stretti non hanno mai fermato gli animali. Orsi, foche, leviatani, narvali e orche marine vanno dove vogliono. Un tempo passò anche l'uomo, se è vero che gli eskimesi alaskani arrivarono dal Nord della Siberia e hanno le stesse fattezze rotonde dei loro cugini in terra russa. Così, almeno, appurò la mitica spedizione del norvegese Rasmussen nell'anno del Signore 1925. E poi le correnti. Non avete idea di cosa succede qua sotto. Il Pacifico comincia a correre verso Nord - per una questione di scarsa salinità - già all'altezza della penisola di Kamchatka, quella specie di zoccolo, grande come l'Italia, un posto pieno di vulcani che sulla mappa fa sembrare l'Eurasia una strana mucca che scalcia. Quando arriva al lungo arcipelago delle Aleutine - la coda della spina dorsale americana - la corsa è tale che tra un'isola e l'altra il mare s'ingolfa creando uno scalino di mezzo metro. "Anche se l'acqua fosse calda non potresti nuotare" ti dicono gli oceanografi.

Una volta sullo stretto, il Pacifico diventa una carica di cavalleria, un fiume incontenibile, con punte di settanta chilometri al giorno. Anche lì, con il satellite vedi perfettamente cosa succede. Acqua marrone sulla costa, per i sedimenti dello Yukon. Acqua blu-notte tra le Isole Diomede e la costa americana, a indicare il canale d'uscita dell'oceano più grande del mondo.
Dopo, succede di tutto. Fiumi e fiumi sottomarini che vanno attorno al Polo, la profondità diverse, senza mescolarsi, per migliaia di chilometri. E intanto ecco che una corrente atlantica, dopo aver circumnavigato il Polo in senso orario a partire dalle Svalbard, ha una forza tale che è capace di arrivare fino allo stretto di Davis, in zona Passaggio a Nordovest, per riemergere nei pressi della Groenlandia. Così accade che sulla costa Nord dell'Alaska ci sia acqua del Pacifico in superficie e acqua dell'Atlantico in profondità.

Meraviglie, equilibri insondabili, con la vita animale che non fa che seguire la traccia dell'enorme mestolo capace di mettere in movimento tutto questo.
Anche il ghiaccio, qui intorno, subisce mutazioni stupefacenti. Non diventa banchisa piatta, non riesce a creare le infiorescenze e le trame sottili con cui comincia a consolidarsi nelle acque più ferme. Non avanza nemmeno, come un fronte. Si accumula, invece, rabbiosamente: con tempeste, nevicate, agglomerazioni tondeggianti dette "pancakes" che poi riempiono gli interstizi con altro ghiaccio mobile. Alla fine tutto si salda, e Bering diventa teoricamente percorribile a piedi. Ogni tanto c'è qualche pazzo che ci prova, e scompare nella tormenta, per via delle tremende spinte sottostanti che spaccano tutto, sollevando lastre di ghiaccio come pietre tombali in un cimitero abbandonato.
Di Paolo Rumiz
Ma il ghiaccio dov'è? Dov'è la bianca signora, la fatamorgana che arretra a Nord? A quanti chilometri dalla costa sta la linea del fronte del Polo? Trecento, dicono i satelliti, ma il gioco delle correnti fa sì che, a Nordovest dell'ultimo Finis Terrae americano, un promontorio di gelo arrivi a cento, forse ottanta chilometri dalla costa. Per vederlo c'è solo l'aereo e il rompighiaccio, se il tempo lo permette. E per questo che la nostra seconda tappa è quassù a Barrow, dove finisce il Passaggio a Nordovest.

Ma attenzione. Settembre resta una stagione infida, Nessuna nave oggi si allontanerebbe dalla costa, anche se è ora che i ghiacci raggiungono, teoricamente, la minima estensione. Già a metà agosto il gelo può arrivare in un lampo, il tempo diventa dannatamente imprevedibile. E poi, ti dice chi conosce l'Artico, non c'è satellite al mondo che sappia segnalare i ghiacci vaganti, specie se semisommersi. La circumnavigabilità può essere anche una questione di minuti. A queste latitudini non esiste che l'aeroplano, ma anche quello diventa un terno al lotto se comincia la neve.

La giornata di Bering è finita. Arrivo all'aeroporto di Nome, sulla costa Sudovest, infreddolito come un mendicante, in pieno sballo da fuso orario e con una fame da morire. Chiuso nella giacca a vento, ho nella pancia solo quattro chips prese da un distributore automatico. "Lei è italiano?" mi chiede sconvolta un'eskimese bella tondetta al tavolo del check-in.

Capisco che spera che non sia vero, ma ammetto a malincuore la provenienza. Questo la getta ancor più nello sconforto. Ripete: "Italia, Venezia, Roma...", poi mi guarda a bocca aperta e chiede, sconsolata: "Ma lei perché viene qui?". Non riesce a capire cosa spinga tra i ghiacci un figlio del sole. (La Repubblica)

venerdì 5 settembre 2008

La fabbrica dei tedeschi


Thyssen-Krupp, urla dal silenzio
Commuove il film di Calopresti

VENEZIA - La parte più emozionante di La fabbrica dei tedeschi, la docufiction che Mimmo Calopresti ha dedicato alla tragedia della Thyssen-Krupp di Torino, è il finale. In cui ascoltiamo la tefonata al 118 di un operaio di un altro padiglione, il primo a capire cos'era accaduto all'interno della famigerata "Linea 5": "Ci sono alcuni colleghi bruciati, camminano e mi chiedono aiuto", grida, a una centralinista che nemmeno riesce a capire l'indirizzo preciso a cui mandare le ambulanze. Mentre, sullo sfondo, di sentono le urla strazianti delle vittime...
Piccolo stacco, ed ecco l'ultimissima sequenza: da YouTube vediamo lo spot promozionale del gruppo tedesco, in cui bambini sorridenti si tengono la mano. Un contrasto che più stridente non si può, dunque. Per documentare l'assurdità della strage, la schizofrenia di un gruppo industriale che, almeno stando alle testimonianze dei lavoratori, ha mandato alcuni suoi dipendenti incontro al rischio e alla morte. In uno stabilimento che stava per essere smantellato: "Giuseppe me lo aveva detto qualche giorno prima di morire - racconta, tra le lacrime, la mamma di uno dei ragazzi morti - 'ci hanno abbandonato a noi stessi, non c'è più sicurezza'. Avrei dovuto capirlo in quel momento, che in quella fabbrica non doveva andarci più". Per il resto, il film - evento speciale della sezione Orizzonti - convince davvero. Forse perché tutto costruito su parole, sguardi, voci, pianti di parenti e amici delle vittime. Nella prima parte, interpretati da attori - da Valeria Golino a Monica Guerritore si sono prestati in tanti; e poi filmati mentre parlano in prima persona, confessandosi davanti al regista. Conosciamo così la vedova ancora innamoratissima del marito morto; o sentiamo raccontare degli operai che non ci sono più, e che sognavano di lasciare l'acciaieria per aprire un bar o una trattoria. Parla anche Antonio Boccuzzi, sopravvissuto per miracolo al rogo, ora deputato Pd. Ma a colpire non sono solo le testimonianze. Perché La fabbrica dei tedeschi è anche, indirettamente, un atto d'accusa contro i sindacati: è a loro che si rivolge ad esempio la rabbia delle migliaia di persone che, dopo la strage, manifestarono in piazza. "E' vero, questo elemento c'è - racconta il regista, battagliero come suo solito, dalla terrazza dell'hotel Excelsior - il problema è che il sindacato fa la politica nazionale. Anche Veltroni, che però mi ha contattato e ha organizzato la proiezione del mio film il giorno 24, a Roma. Ma noi non possiamo lasciar morire la gente perché intanto ci concentriamo solo sul fatto che tra due anni ci sarà la ripresa. Stasera a vedere il film viene Adriana Polverini (leader dell'Ugl, ndr): lei sì che è una ancora battagliera". Il che, detto da un autore dichiaratamente di sinistra, fa riflettere. E comunque Calopresti ne ha per tutti: i politici indifferenti, i giornali che si occupano troppo spesso di futilità. L'unico che si salva è Giorgio Napolitano: "Lui interviene tutti i giorni sul tema delle morti bianche. E' più lucido di tutti quei pazzi messi insieme". E mentre rivela che non gli dispiacerebbe fare anche delle fiction ("ma a modo mio, raccontando ad esempio gli operai che adesso se la prendono con quei poveri disgraziati dei rom"), non risparmia critiche alla Rai: "Perché un canale come RaiTre non trasmette un documentario sulle morti bianche? Il mio va su La7, e in prima serata. Perché loro non hanno il coraggio di farlo?". Ultimissima annotazione: sullo stesso tema, e sempre come evento speciale della sezione Orizzonti, qui alla Mostra domani è di scena anche un altro docufilm: si chiama ThyssenKrupp Blues, ed è diretto da Pietro Balla e Monica Repetto. (La Repubblica)