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mentono sapendo di mentine

mercoledì 27 agosto 2008

CAMMINARE L'ARTE ANTICA DEI SANTI

Repubblica — 26 agosto 2008
di Giorgio Bocca

«Che devo fare?», chiedo ai medici dei miei malanni. «Cammini - dicono - non smetta mai di camminare». «Ma è faticoso», dico. E loro: «Cammini anche con fatica e dolore». Così cammino, come dai primi anni della mia vita, come a noi uomini è toccato di fare dalla preistoria allo sbarco sulla luna, dove camminare sarebbe facile perché non c' è gravità, ma devi procedere a balzi. Quanto hanno camminato gli uomini! Anche i santi, soprattutto i santi.
Di Sant' Antonio da Padova ci sono rimaste le ossa, quelle dei ginocchi, grosse, sporgenti come quelle dei grandi camminatori. Di San Pietro non abbiamo reliquie ossee, ma camminò senza soste, nelle storie e nelle leggende, in tutte le valli alpine lo ricordano quando passava diretto alle Gallie. Non parliamo poi di San Bernardo. E a imitazione dei santi hanno camminato per millenni i pellegrini, quelli che percorrevano la strada Romea, e gli altri che andavano a San Giacomo di Compostela, o anche noi piemontesi che ci accontentavamo di Sant' Anna di Vinadio o San Magno in val Grana. E mi ricordo il parroco di Dogliani che guidava il loro rosario al santuario, e si accorgeva dalle zone di silenzio quando si addormentavano. La patria alpina è la terra dei valichi, percorsi camminando dai nostri padri e antenati. Ci sono rimaste le fotografie degli spazzacamini valdostani che partivano a piedi da La Salle o da La Thuile; salivano nella neve fino al Piccolo San Bernardo per andare a lavorare in Francia a Chambery, ad Annecy e magari fino a Parigi, con le fasce mollettiere a protezione delle gambe. E anche io sono salito per anni a piedi e con gli sci al passo, dove quando c' è molta neve viene fuori dal manto un braccio della statua con un crocifisso impugnato a indicare la terra promessa. Per secoli emigrazioni e conquiste sono state fatte camminando. I soldati dei grandi condottieri, di Alessandro, Cesare, Carlo Magno, Napoleone sono stati camminatori formidabili, da cinquanta chilometri al giorno: quelli di Alessandro dalla Grecia al Pakistan, quelli di Napoleone fino a Mosca, e poi anche loro hanno avuto una "strada del Davai" nella disastrosa ritirata. Ho conosciuto dai soldati italiani dell' ultima guerra mondiale tornati a casa a piedi dai campi nazisti o russi, dormendo di giorno nei boschi e camminando di notte, che è il modo antico degli uomini di sfuggire ai nemici e ai padroni, camminare come camminano i lupi e gli orsi, rubando il cibo di notte nelle case dei padroni. Camminare di notte nel buio, se sei giovane e forte, può darti un senso di onnipotenza: il nemico non ti vede, puoi passare a pochi passi dalle sue sentinelle, vedere la brace dei loro bivacchi, delle loro guardie; potresti anche ucciderli, ma preferisci risparmiarli, da uomo invisibile che passa indenne per i pericoli del mondo. Hanno camminato i santi e i guerrieri, e anche i mercanti, specie i più umili, gli ambulanti, quelli che scendevano a piedi dalle valli alpine e arrivavano al mare per tornare con i carichi di acciughe o di sale per conservare i cibi, a piedi dalla Camargue al Pertous de Visu, la galleria sotto il colle di Traversette per arrivare a Saluzzo e a Torino. Era ambulante anche il nonno del signore della Nutella, che a piedi riforniva i negozi delle Langhe, ed erano ambulanti anche i montanari della val Maira che scendevano in pianura a comprare i capelli delle contadine e ne facevano parrucche per i signori di Parigi. Durante la guerra partigiana abbiamo camminato ogni giorno per ore, fuggendo la morte o rischiandola. Una volta una notte del gennaio del ' 45 nella nostra anabasi dalle montagne cuneesi alle Langhe, attraverso la pianura occupata dai tedeschi, portando a spalla fucili e mitragliatori, con quelle montagne che ci stavano sempre alle spalle, non ci mollavano mai, finché passammo il fiume Stura aggrappati alle corde metalliche legate tra i gabbioni di pietra, e vedemmo spuntare il sole sulle colline del vino. Hanno camminato sempre i miei compaesani piemontesi che oggi hanno scoperto di essere occitani, della langue d' oc che si parla, pare, dalle nostre valli fino ai Pirenei. Durante l' Olimpiade invernale abbiamo riscoperto i parenti occitani che non sapevamo di avere: il pittore Cézanne che era di Cesana, l' attore Belmondo, stesso nome della sciatrice di Pietraporzio, l' attore Fernandel, cioè Fernand Contadin della val Chisone. Un popolo di frontiera, di camminatori cioè di comunicatori di civiltà, quelli che hanno portato oltre le frontiere l' arte di tagliare le scandole di larice, di allevare le bestie, di tagliare le carni, di costruire le case, di rispettare i boschi e salvare gli animali: le volpi, i lupi, le linci, i falchi, le aquile; e anche gli animali delle favole, le volpi con due teste, i lucertoloni con la cresta fiammeggiante, e gli altri dai nomi strani, i Ravasa, i Leberon, i Maga, i Mohecola, bellissimi e orrendi. Ma sì: finché si può, camminiamo.

LA RABBIA


Il film-profezia di Pasolini
così nel '63 raccontò l'Italia d'oggi


In anteprima alla Mostra di Venezia, nelle sale dal 5 settembre grazie all'Istituto Luce "La rabbia" ricostruito da Giuseppe Bertolucci come lo voleva il regista
di CURZIO MALTESE

La visione de "La rabbia", il film-saggio di Pier Paolo Pasolini finalmente ricomposto da Giuseppe Bertolucci, con la Cineteca di Bologna che presiede, nella versione pensata dall'autore, senza l'insensata aggiunta di Giovanni Guareschi, solleva un dubbio terribile. O Pasolini era davvero un profeta oppure l'Italia è tornata indietro di mezzo secolo, ai peggiori anni Cinquanta, tempi gretti, reazionari, impauriti.

Nel dubbio che siano vere entrambe le ipotesi, scegliamo per carità di patria la migliore. Pasolini ha capito per primo e più a fondo di chiunque altro la mutazione antropologica del popolo italiano all'impatto con una modernità feroce, che l'avrebbe riconsegnato a un fascismo sotto nuove forme. Per usare una formula che rimbalza in queste settimane da Famiglia Cristiana ai vertici della magistratura.

Il film è modernissimo nella forma, d'avanguardia per l'epoca. Sul materiale assai grezzo dei cinegiornali, Pasolini sovrappone un'orazione civile composta di sue poesie e prose affidate alle voci di Giorgio Bassani e Renato Guttuso. Senza altro filo narrativo che non sia una viscerale, acutissima visione dei conflitti sociali, l'opera viaggia dai funerali di Alcide De Gasperi alla morte di Marilyn Monroe, dalla rivoluzione cubana alla guerra di Corea all'indipendenza dell'Algeria. Ma la parte più sorprendente è certo quella dedicata "al mio paese, che si chiama Italia".

Il film doveva uscire nelle sale all'inizio del '63, dopo Accattone e Mamma Roma, ma il produttore Gastone Ferranti si spaventò, convinse l'autore a tagliarlo e volle a tutti i costi affidare una seconda parte "vista da destra" a Guareschi, il quale diede nell'occasione il peggio del proprio qualunquismo. Così snaturata, l'opera fu rinnegata da Pasolini e ritirata dopo pochi giorni, per rimanere nel buio quarantacinque anni.

Ora torna nella versione concepita dal poeta, grazie al lavoro di recupero e rimontaggio di Giuseppe Bertolucci, su un'idea di Tatti Sanguinetti. "La rabbia" sarà presentata alla Mostra di Venezia il 28 agosto e sarà distribuita nei cinema dall'Istituto Luce dal 5 settembre.

Per capire quanto sia attuale basta forse citare una piccola antologia dei testi. L'Europa: "Le piccole borghesie fasciste sono pronte all'unità d'Europa in nome della comune aridità". Le guerre in Medio Oriente: "In questi deserti comincia la nostra preistoria". Le giustificazioni della guerra: "Se comincia la guerra di chi è la colpa? Dei peccati della povera gente, naturalmente. Dio punisce le Sodome di stracci, le Gomorre della miseria".

I coreani all'epoca, oggi gli irakeni, gli afghani, i curdi, i popoli africani: "Eravate milioni di uomini come noi e per conoscervi abbiamo dovuto sapervi in guerra". Il nuovo Papa: "Ci saranno fumate bianche per papi figli di contadini del Ghana o dell'Uganda? Per papi figli di braccianti indiani morti di peste nel Gange, per papi figli di pescatori gialli morti di freddo nella Terra del Fuoco?".

La politica sull'immigrazione: "Dobbiamo accettare distese infinite di vite reali che vogliono con innocente ferocia entrare nella nostra realtà". Bush, Berlusconi, Putin eccetera: "La classe padrona della ricchezza, giunta a tanta dimestichezza con la ricchezza da confondere la natura con la ricchezza. Così perduta nel mondo della ricchezza da confondere la storia con la ricchezza. Così addolcita dalla ricchezza da riferire a Dio l'idea della ricchezza".

Si potrebbe continuare a lungo, ma almeno fino alla televisione, appena apparsa sulla scena. Quando lo speaker del cinegiornale annuncia trionfante che presto gli abbonati saranno "decine di migliaia", Pasolini lo corregge: "No. Saranno milioni. Milioni di candidati alla morte dell'anima. Il nuovo mezzo è stato "inventato per la diffusione della menzogna". "È la voce che contrappone il buon senso degli assassini agli eccessi degli uomini miti".

La voce di Pasolini è viva, attuale e urticante oggi come nel '63. Gli eccessi di uomo mite non gli sono stati mai perdonati, neppure dopo la fine straziante. Lui stesso ne era consapevole: "Dice Saba che ci sono animali che non fanno pena neppure quando vengono mangiati, perché volevano essere mangiati. Forse sono uno di questi animali". Bertolucci aggiunge nel finale alcuni esempi del linciaggio cui Pasolini fu sottoposto per tutta l'esistenza, da ogni parte. Si trova sempre "nel paese chiamato Italia" un buon compromesso bipartisan per annientare le voci critiche.

Quello che s'è perso per sempre da "La rabbia" ai nostri giorni non sono le parole, ma le immagini, anzi: le facce. I volti di quel popolo, testimonianza vivente e stupenda di un retaggio millenario. I ragazzi di vita delle borgate romane vivono ma non sono come i ragazzi di Scampia filmati da Garrone in Gomorra. Più poveri e meno miserabili, avevano facce e corpi prodotti dalla storia, questi facce da cronaca, corpi creati in palestra, indistinguibili da quelli dei borghesi di successo, dagli attori delle telenovelas, dai calciatori e dalle veline.

La rivoluzione antropologica ha funzionato come una pulizia etnica, cancellando i tratti di un'antica civiltà, di un'immensa bellezza. Negli anni de "La rabbia" un altro solitario, Ennio Flaiano, annotava nel diario notturno: "Fra trent'anni l'Italia non sarà come l'avranno fatta i governi, i partiti o i sindacati, sarà come l'avrà fatta la televisione".

venerdì 1 agosto 2008

ACQUARAGIA DROM



Un po' di sangue zingaro nelle vene e tanti matrimoni e feste in giro per l'Italia i balli ed i canti dei Carpazi e delle comunità arrivate dall'est europeo le tammurriate dei Sinti del Vesuvio e le canzoni dei parenti Rom molisani le tarantelle dei Musicanti Calabresi e del Salento e le serenate dei Camminanti Siciliani lo swing dei Manouche di Reinhardt e delle famiglie di musicisti dell'arco alpino.